Persitence of Time è il disco degli Anthrax prodotto dalla Island Records e uscito nel 1990.
Riscoprire un disco dopo quasi trent’anni e ricordarsi improvvisamente del perché, all’epoca, è stato uno dei miei ascolti più frequenti.
Quando si parla degli Anthrax, una delle “Big Four” band del thrash metal, probabilmente i metallari d’annata ricorderanno più che altro l’attitudine goliardica e anticonformista dei cinque newyorchesi: i bermuda, i fumetti, gli esperimenti col rap e quella voglia di divertirsi e non prendersi troppo sul serio.
Effettivamente, fino al 1990 la band era vista più o meno in questi termini, grazie ad uscite come State Of Euphoria e gli EP I’m The Man e Penikufesin.
Poi qualcosa è cambiato, a metà anno è uscito Persistence Of Time.
La furbata di pubblicare una cover come singolo poteva far pensare a un altro episodio leggero e scanzonato ma no, sbagliato: P.O.T è un album arrabbiato, cupo, complesso e tremendamente serio.
Già la copertina, dai toni scuri ed evidentemente ispirata all’arte di Dalì, è un segnale che in questi solchi potrebbe non esserci la stessa atmosfera dei dischi precedenti, soprattutto a livello di testi.
Qui non si parla più di Judge Dredd, dei libri di Stephen King o di mosh pit, ma di odio, razzismo, olocausto, tradimento, rispetto.
I brani lunghi e intricati, un sound heavy e corposo, i cori sempre incisivi e le ritmiche travolgenti ma ragionate, fanno di questo album uno dei migliori, se non il migliore dei thrashers del Queens. Di certo non il più accessibile ma forse l’evoluzione più consona ai trascorsi della band e al periodo storico in cui è uscito.
Bisogna ricordare che il thrash era ancora in ottima salute a quei tempi, il grunge non era esploso e i grandi del genere avevano appena pubblicato i loro capolavori o stavano per farlo (penso a Rust In Peace dei Megadeth, Seasons In The Abyss degli Slayer ed altri ancora, senza contare esordi eccellenti come Alice In Hell degli Annihilator).
Persistence Of Time si inserisce a pieno titolo in questo filone che è, ahimè, anche l’ultimo vero periodo d’oro del thrash metal.
L’aspetto straordinario del disco è che, dopo quasi tre decenni, non ha perso un grammo della sua potenza e soprattutto non annoia, nonostante la lunghezza dei brani. Non so quante volte ho iniziato ad ascoltarlo pensando di saltare al pezzo successivo e finendo per non premere mai il fatidico “skip forward”. E pensare che il lato A (sì, una volta esistevano due lati distinti…) presenta tracce della durata media di quasi sette minuti!
C’è senz’altro da ringraziare la mostruosa costruzione ritmica di queste canzoni, merito del drumming mai banale di Charlie Benante e della solidità devastante dei riff di Scott Ian.
Già, Scott Ian. Permettetemi di fare un elogio a colui che ritengo uno dei migliori chitarristi ritmici della storia del metal “estremo”: negli anni ha saputo sviluppare uno stile e un sound immediatamente identificabili, cosa rara e degna di rispetto assoluto. Se già in tutti i precedenti dischi aveva fatto egregiamente la sua parte, in questo è un monumento di precisione, energia e tono.
Chiunque voglia capire cosa significa suonare la chitarra ritmica in ambito thrash, dovrebbe pensare di prendere qualche mese di lezioni da quest’uomo.
Questo non significa che il resto del gruppo sia da meno: abbiamo il suono metallico, tagliente e prominente del basso di Frank Bello, la voce inconfondibile di Joey Belladonna e gli assoli minimali ma efficaci di Dan Spitz.
D’altra parte, stiamo parlando della formazione classica degli Anthrax e di quello che, pur essendo l’ultimo disco di inediti pubblicato da questa line-up, è anche il suo apice dal punto di vista dell’esecuzione.
Tanti i brani che spiccano, a partire da Time che mette subito le cose in chiaro urlando “sì, siamo sempre noi ma stavolta facciamo sul serio!”.
Ci sono poi l’assalto frontale di Blood e il suo bridge quasi rappato; la cadenzata Keep It In The Family, il cui testo andrebbe sbattuto in faccia a ogni razzista; la dinamica e coinvolgente In My World; la robusta e melodica Belly Of The Beast con le sue tristi immagini dell’Olocausto; la strumentale Intro To Reality, l’unico momento di respiro in mezzo a tanti riff granitici; e infine, come non citare la grandiosa cover di Got The Time di Joe Jackson, forse una delle migliori cover mai fatte da un gruppo metal e ironicamente, uno dei brani più famosi degli Anthrax.
Insomma, tanta carne al fuoco, tanti momenti di riflessione e tanti motivi per riascoltare questo album e scuotere la capoccia.
Chi non conosce Persistence Of Time si faccia un favore e rimedi subito alla sua mancanza. Chi invece lo ha lasciato in un cassetto perché “ok, ma Among The Living è un’altra cosa”, si faccia altrettanto un favore e vada a riscoprire l’ultimo vero capolavoro degli Anthrax!