Il termine inglese “shredder” significa letteralmente “trituratore” e viene additato perlopiù agli acrobati delle 6/7/8/15/16 (!) corde della chitarra, strumento musicale cordofono a pizzico di probabile origine indo / arabo / persiana la cui genesi e storia risale al lontano Medioevo con i suoi liutai e menestrelli fino al barocco; qualche nome rilevante: Francesco Corbetta, Gaspar Sanz, Francesco Molino, Ferdinando Carulli, Fernando Sor, Mauro Giuliani, Dionisio Aguado, Napoleon Coste, lo slovacco Johann Kaspar Mertz, Giulio Regondi (chitarra romantica) e ancora Luigi Mozzani compositore e liutaio… et alii. Con un salto temporale dal trapassato remoto fino a oggi, immersi in piena era digitale, qualora si faccia un giro in rete sul tubo si potranno osservare centinaia o addirittura migliaia di funamboli delle sei o più corde, tuttavia il virtuosismo chitarristico ha radici profonde specie nel secolo scorso… un po’ come il pallone laddove i suoi fuoriclasse non sono stati e neppure sono solamente Messi & CR7…
In generale i primi virtuosi dello strumento si ritrovano nel “flamenco”: danza folkloristica di origine ispanica; Sabicas, Niño Ricardo, Ramón de Algeciras et alii, per passare alla chitarra classica, che alcuni critici sostengono sia nient’altro di una costola del primo genere, dove differisce fondamentalmente l’uso della mano destra, con i celeberrimi Francisco Tárrega, Andres Segovia, Narciso Yepes, Famiglia Romero al completo, Julian Beam ecc.
Qui la lista sarebbe lunga assai ma si sappia solo che il popolare Francisco Gustavo Sánchez Gomes in arte “Paco de Lucia”, perlopiù imparentato con i vecchi maestri di cui sopra, venne dopo e fu colui il quale rese la qualità del flamenco celebre nel mondo, immortalato con altri due eroi della chitarra in generale: Al Di Meola & John McLaughlin nel famoso spettacolo acustico dal vivo noto come “Friday Night in San Francisco” avvenuto ai primi di Dicembre 1980, uno show praticamente improvvisato.
Nel secolo scorso il primo fuoriclasse che mi torna in mente è Django Reinhardt, uno zingaro di etnia sinti nato in Belgio e vissuto perlopiù in Francia che, con la straordinaria e incredibile abilità chitarristica derivata dal banjo, suo primo strumento, ispirò diffusamente il nascituro Jazz; tra l’altro menomato alla mano sinistra, ridotta a una sorta di mezzo moncone causa incidente piroclastico: Django era solito usare solo indice e medio sulla tastiera tuttavia fu mentore assoluto e padre della “manouche”, una forma primordiale di jazz semi-acustico di origine gitana che vanta ancor’oggi una schiera di proseliti quali Angelo Debarre, Trio Rosenberg, Trio Caravan… tanto per ricordane qualcuno; sto scrivendo di un virtuoso puro ed ante-litteram che non conosceva la musica ed era pure analfabeta nello stile di tal Mané Garrincha, fenomeno mondiale nel calcio malgrado una sua gamba fosse più corta, puttaniere ed alcolista cronico nella vita.
Facciamo un salto nel BLUES, un biscione con il capo immerso nel delta del Mississipi, il corpo a languire tra i campi di cotone ed il buco di culo nella nera e fumosa Chicago: Charley Patton, Blind Lemon Jefferson, Ellmore James (RE della slide-guitar!), Albert Collins, i Three Kings, Buddy Guy, Muddy Waters, quindi il leggendario Robert Johnson, quello del crocevia del patto con il diavolo in persona e le 29 tracce registrate di cui una persa, la quale, a detta di un noto e controverso metal-scriba, tanto fantasioso quanto cretino, finì da qualche parte nei vinili dei Venom!
Ricordo ancora T-Bone Walker con il primo blues elettrico e Otis Rush della West Side Chicago Blues per passare quindi al battaglione di bluesman bianchi, tra cui, non osando nominare Mantas per ovvie ragioni, citerei almeno l’albino maledetto e manifesto oppiomane Johnny Winter, Roy Buchanam, Stevie Ray Vaughan, Keith Richards, Paul Kossoff, Rory Gallagher, Mike Bloomfield (morto per overdose a 38 anni) e ci infilo nella lista pure Bonamassa e Slash… ma sono davvero tanti!
JAZZ… la schiera dei virtuosi è ancora più nutrita in tale ambito, da Charlie Chistian (nella foto), Herb Ellis, Charlie Byrd con un orecchio alla musica sudamericana, George Van Eps uno dei primi a 7 corde, fino salire a Wes Montgomery (asso autentico, un “big” tipo Pelé!), per passare da Barney Kassel a Tal Farlow anche detto “Octopus”, cioè il piovrone da tastiera, per via di quelle sue gigantesche mani, come pale da neve!
Alfine un altro fuoriclasse ben oltre la media comune, scrivo del picciotto di origine siciliane che non avrebbe sfigurato nei film del Padrino, tale “Giovanni Antonio Jacopo” Passalacqua, meglio noto come il grande Joe Pass. Qui si parla di “Total Guitar”: addirittura un paio di armonie diverse dalla stessa mano suonate generalmente su una semiacustica con destrezza impeccabile e probabilmente irraggiungibile… un mostro assoluto delle sei corde la cui tecnica è tutt’oggi oggetto di studio musicale, il Valentino Mazzola della chitarra.
La chitarra elettrica con i microfoni e i pick-ups grazie ai vari Rickenbacker, Gibson, Fender, Les Paul, quindi il Rock And Roll laddove THE KING non oserei nemmeno nominare per sano timore devozionale e reverenziale, eppoi quel nerd di Buddy Holly ed il Mariachi Ritchie Valens, deceduti insieme nell’incidente aereo del 1959, fino alla grande onda surf di Dick Dale (morto pure lui ma solo qualche giorno fa): i postumi del grande sogno americano i cui frangenti s’infransero sull’esile scogliera sgretolata del RnR degli Anni ‘50… insomma, bastò un effetto riverbero per spazzar via la cenere rockabilly del decennio precedente come evocato nel film epocale American Graffiti!
Ma, come risaputo, il RnR muore mai “Rock & Roll Never Dies” quindi si apre l’era dei titannosauri delle chitarre elettriche e dei muri di amplificatori Marshall: dall’inizio dei Sixties comincianciano a fare la loro comparsa gli Harrison, i Santana, Jimmy Page, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Frank Zappa, Tony Iommi, Alex Lifeson, Neal Schon, Steve Morse, Ritchie Blackmore e avanti tutta.
Dal garage in America si salta sul carro della psichedelia culminata nell’estate acida del 1967: John Cipollina, chitarra dei Quicksilver Messanger Service, amato per le sue interminabili improvvisazioni con la sua manina sinistra menomata; Jerry Garcia dei Grateful Dead cresciuto a pane, bluegrass …erba ed LSD.
Di rimando il Prog rock inglese con una lunga lista di cui qualcuno sopra fino a Peter Green, David Gilmour, Keith Cross, Robert Fripp, Steve Howe, Steve Hackett (nella foto), e Alan Holdsworth, forse la massima espressione per quanto riguarda quel Prog settantiano confluito poi nella Fusion con chitarristi del calibro di John Etheridge.
Obiettivamente non sto adoperandomi per un dizionario chitarristico perché sarebbe tedioso, i nomi di cui sopra sono arcinoti e alcuni di loro forse addirittura sopravalutati, tipo Clapton di cui forse la cosa migliore rimangono i suoi Derek And The Dominos, dove tra l’altro la slide-guitar fu suonata dal southern bluesman Duane Allman degli Allman Bothers, che rammentò a “slowhand” di non essere la sola e unica “crema” sulla torta pianetaria.
Il popolare inno confederato Free Bird dei Lynyrd Skynyrd, ovvero la Starway to Heaven stelle-strisce, fu proprio dedicata a Duane “Skydog” in occasione della sua tragica morte avvenuta fine Ottobre 1971 causa incidente motociclistico… altra pietra miliare.
Malgrado Jimi Hendrix sia stato praticamente divinizzato, non figura come il solo virtuoso della sua era giacché sia Terry Kath (nella foto) che il poliedrico Danny Gatton, all’incirca della stessa generazione, non furono affatto da meno. Entrambi mostri dell’elettrica, Fender o Gibson che fosse, il primo con i Chicago ai gloriosi albori mentre il secondo perlopiù con nutriti shows di intrattenimento nei vari casinò di Las Vegas spaziando dal jazz, al pop fino al country.
Tutti e due hanno in comune una morte sciagurata causa colpo di pistola in testa. Kath, dopo un megaparty tra droga e alcolici cui era quanto mai avvezzo, ritenne opportuno tentare per scherzo una roulette russa prima con una tamburo scarica quindi con un semi-automatica che però teneva il classico colpo in canna e gli andò piuttosto male, facendosi saltare il cranio nei primi del 1978 presso L.A.; Gatton (foto sotto) invece agì di spontanea volontà suicidandosi nel 1994 nel garage di casa, presso la sua fattoria nel Maryland, sempre tramite la classica pistolettata nella tempia causa probabile depressione cronica.
Quando Brian Jones morì annegato in piscina, gli Stones, oltre che ai pushers, si dedicarono alla ricerca di un nuovo chitarrista: il primo della lista era tale Peter Halsall ma fu poi scelto il giovane Mick Taylor, chitarrista del bluesman bianco singer John Mayall, per la sua abilità con la slide-guitar considerato l’orientamento ‘mississippiano’ della band fine Anni ’60.
Cinque anni dopo pressappoco, fuoriuscito il buon Mick Taylor (…in seguito miseramente svanito!), all’inseguimento di nuove coordinate musicali, fu osservato un giovane chitarrista prodigio di origine tedesche che suonava allora negli UFO, combo Hard Rock inglese, tale Michael Schenker allora non ancora ventenne ma costui neppure rispose alla chiamata degli Stones, arrivò quindi Ron Wood dai Faces di Rod Stewart.
Magari qualcuno ancora ricorda l’Uruguay campione del mondo nel 1950 contro il favorito Brasile che giocava in casa ma che perse scatenando un’ondata di suicidi collettivi (“Maracanazo”), la Coppa Rimet fu vinta dalla squadra di Juan Alberto Schiaffino, fuoriclasse assoluto che poi giocò nel Milan, di cui si dice fosse un tirchio schifoso ed avesse mai offerto o pagato un solo caffè, però quasi nessuno ricorda Héctor Scarone detto “El Mago”, pure lui di origini liguri come il primo, che, con la stessa nazionale uruguaiana vinse il primo titolo mondiale di sempre contro gli argentini nel 1930 e che fu ben due volte campione olimpico; forse uno dei più forti nella storia del calcio.
La buonanima di Giorgio Faletti nel suo primo piacevole romanzo Io Uccido cita i due chitarristi dei Tempest inglesi: Allan Holdsworth e Peter “Ollie” Halsall (foto sopra). In realtà i due si alternarono nella hard rock – prog band britannica suonando una sola volta insieme in quello che fu – a mio modesto avviso – la più grande sfida chitarristica di tutti i tempi avvenuta nel mese di Giugno del 1973.
Poco da scrivere su Holdsworth poiché è stato celebrato a dovere in passato fino alla sua morte avvenuta un paio di anni orsono mentre Halsall è tuttora poco conosciuto. Esiste una citazione a suo riguardo: “Ollie potrebbe non essere stato il miglior chitarrista del mondo, ma certamente fu tra i primi due”. Vero tutto, Ollie era un mancino naturale (…come Hendrix e Iommi) solito a tenere la chitarra alta, una Gibson SG tinta avorio, poiché suonava anche lo xilofono sin dai tempi della sua prima band sessantiana, i Timebox, quindi Patto poi Boxer e una solida carriera perlopiù da turnista durante il decennio successivo soprattutto con lo svogliato Kevin Ayers, poi John Cale quando la sua fama culminò nel celebre All Stars Gig del 1° Giugno 1974 dove Brian Eno fu davvero colpito dal chitarrista definendo il suo stile “liquido”.
Halsall fu un fuoriclasse assoluto, totalmente inarrivabile, ed i pochi chitarristi che tentano di comprendere la sua tecnica immensa ammettono riuscire a fare si e no il 30% delle sue evoluzioni solistiche sulla tastiera attuate sorprendentemente con la tecnica del legato veloce (cit. Ciro Antinozzi). Durante il primo tour europeo di Ozzy con i The True Blizzard of Ozz (Daisley & Kerslake) di supporto ai Saxon, il loro chitarrista Paul Quinn, notando il giovanissimo talentuoso Randy Rhoads, che, amando oltremodo il suo strumento musicale, era goloso di carpire voracemente ogni tecnica realizzabile sullo strumento, gli diede da ascoltare una tape dei Patto che Randy si duplicò diventando un acceso estimatore di Halsall durante il suo breve ma fruttuoso lasso di vita.
A differenza di Holdsworth, personaggio molto pragmatico e quasi serafico, Ollie era un artista lunatico che si dedicava, oltre alla musica, sia alla pittura che al disegno; negli Anni ‘80, rottosi i coglioni della scena inglese, si trasferì a Palma De Maiorca nelle Baleari dove suonava tanto in tanto per divertimento con alcuni gruppi locali. Fu lì che disgraziatamente morì all’età di 43 anni nel 1992 dalla cronaca per citata causa overdose di eroina ma non avvenne proprio così…
Halsall non era affatto un tossicomane, suo malgrado non disdegnasse la bottiglia, tuttavia incontrò una banda di giovani balordi che gli diedero un po’ di roba: memore dei tempi trascorsi durante i primi Seventies con l’eroina di moda specie nella sua Londra grazie a Keith Richards, lo sventurato si fumò la sostanza con il risultato che fu colto da un infarto fulminante. Esiste una sorta in rete di archivio di Halsall curato da un suo vecchio amico, tale Barry Monks, sito completo e minuzioso qualora vogliate approfondire.
Altro chitarrista dimenticato è Tommy Bolin (foto sopra), nativo dello Iowa e famoso solo per aver sostituito Blackmore nei Deep Purple di Come Taste the Band del 1975, album con Hughes & Coverdale, da rivalutare appieno.
Bolin, bambino prodigio alla chitarra fin dall’adolescenza dove si fece le ossa con gli Zephyr del Colorado (Hard Rock settantiano), fu un “trasgressivo” nel senso esatto del termine, ovvero che anticipò i tempi a venire della chitarra introducendo innovazioni di natura funky con licks e tempistiche improntate sulla nascitura onda “reggae”. L’album Spectrum dell’illustre batterista jazz Billy Cobham, che disse di lui quando lo osservò la prima volta: “He wasn’t playing many notes, he was playing the right notes!”, lo colloca tra i primi shredder virtuosi da sempre già prima dell’esplosione del fenomeno. Purtroppo morì a Miami in un Hotel a soli 25 anni questa volta davvero a causa overdose eroina per endovena sommata a cocaina ed alcolici. (Fine prima parte)