Feel It è un disco dei Bible Of The Devil uscito nel 2019.
Questo è il posto in cui è nato Feel It. Si tratta dell’Electrical Audio e Jamdek Studios di Chicago. Qua dentro, Greg Spalding, Nate Perry, Darren Amaya e Cristopher Grubbs hanno sudato, scorreggiato, ruttato e imprecato, cavato fuori le rape dall’anima e portato a casa il loro ottavo album.
Si tratta della loro prima esperienza all’Electrical. Per gli altri sette lavori, i Bible Of The Devil non hanno quasi mai mosso il culo da Chicago (il primo album None More Raw lo fecero al Torture Chamber di Seattle) ma chissà per quale ragione, forse i costi più bassi o magari l’impossibilità di prenotare i mesi che gli servivano al Phantom Manor (dove sono di casa) li ha portati lì.
La decisione di imbottire la sala mixer con quel color vinaccia (vedi foto) deve essere stata l’idea della compagna del proprietario degli studio. Di solito queste bizzarrie vengono alle donne. Immaginate di fissare quel colore un po’ infantile, da gomme da masticare o coniglietti pasquali venuti da Marte, per tutto l’autunno e la primavera mentre il vostro disco degenera sempre più in una specie di pastrocchio fonico irrecuperabile.
Come vedete qui la band ha preferito darsi all’alcol piuttosto che affrontare la faccenda da un punto di vista razionale. Ma ammetto che Ultra Boys, la traccia conclusiva che i Bible si stanno sparando in mixer mentre brindano e berciano cose incomprensibili su culi rotti e madonne porche, è una colonna sonora di per sé piuttosto esaltante in termini di svacco goliardico.
Ok, vi presento i Bible Of The Devil partendo dal più anziano dei militanti al nuovo innesto in formazione. Greg Spalding:
A vederlo si direbbe un entusiasta. Si trova invischiato in questa band dal 1999, un anno prima dell’esordio discografico. La pancia pronunciata parla di lavori turnari, dieta iperproteica e ad alto contenuti di lipidi e tanta birra. Se osservate la foto non ci vuole molto a capire che è felice in quello che fa. Suonare è la sua vita. E di sicuro durante le sessioni di registrazione, Capitan Spalding deve aver spronato i suoi e sputato in terra in ogni angolo dello studio catarri succosi di tabacco a buon mercato e compromessi esistenziali. Non ammetterebbe neanche sotto tortura che un nuovo lavoro dei Bible Of The Devil non sia la cosa più importante e cazzuta del mondo. Soprattutto il suo futuro nel mondo.
Sempre per anzianità nel gruppo, dopo Spalding viene Nate Perry. Lui canta, suona la chitarra (yep), all’occorrenza le tastiere e si occupa dei cori. Sta nel gruppo dal 2003, al tempo di Tight Empire, ma non è sempre stato il frontman. A guardarlo non si fatica a crederlo il tipo giusto per inveire contro le madri grasse degli esagitati nelle prime (e ultime file) però fino a Feel It non gli è mai stato concesso di tenere da solo il timone. Nel 2012, i cantanti, nei Bible Of The Devil erano ancora in due. E prima di Nate, vale a dire proprio agli esordi, ai microfoni c’erano Mark Hoffmann, alla voce e alla chitarra, e Nathan Weathers, alla chitarra e alla voce.
Essendo un trio potete arguire che nei primissimi Bible non c’era un bassista. Nate sostituì Nathan Weathers dimissionario e con lui la formazione si fece in quattro grazie all’aggiunta di Matt Perry (fratello o cugino?) a occuparsi del basso. Deve essere stato poco divertente per Matt suonare con la band perché già un anno dopo era fuori e da lì si è dileguato per sempre dal mondo del rock and roll.
Il terzo in ordine di tempo è Darren Amaya:
Lui è nel gruppo dal 2005, probabilmente a sostituire cugino Perry (o frate Perry). Da quel dì non ha più schiodato. Questi tre sono probabilmente una famiglia, e se glielo chiedete, vi diranno qualcosa del genere, facendovi intenerire o annoiare o tutte e due le cose assieme. Le solite sparate sentimentali (e legimittime) che si dicono quando un pugno di individui non riescono più a venir fuori da un pantano di emozioni e speranze che sintetizzano con la brontolalìa racherol.
I Bible Of The Devil hanno pure un quarto elemento. Christopher Grubbs.
Pelato e con la barba, diciamo che questo è ormai il volto tipico di un rockerroler nel 2019. L’asticella dell’età media si è alzata e sebbene Grubbs mostri meno di quarant’anni, se li porta abbastanza male e può starci. Il suo apporto è solo su Feel It. Prima di lui il gemello di Spaulding, Mark Hoffmann, deve aver combinato un bel po’ di problemi alla band. Dopo averla fondata e alimentata, il paparino ha perso la motivazione cardine (perchessì) e deve aver lottato con l’istinto infanticida che coglie i genitori depressi. Il suo contributo risulta ufficialmente fino al 2012. Poi ha mollato dicendo agli altri, vedete un po’ voi. E la band ci ha messo sei anni per tornare in giro. Possiamo parlare di successo?
E non ci vuole una scienza dell’acustica per capire che l’assenza di Mark ha pesato. Un casino. Perché a sentire l’album Feel It, non sono i pezzi a lasciare interdetti e tantomeno l’attitudine, ma la resa dei suoni, in particolare delle vocals. Non vorrei fare lo psicologo da tre soldi (e lo faccio eccome) però nella musica rock la perdita di un elemento fondamentale viene metabolizzata come si può e se lo sbaraglio è proprio lì, nelle voci, è facile capire il perché. Voglio dire, Nate urla tutto quello che ha, ma deve essersi maledetto più di una volta per aver accettato di affrontare da solo i licaoni delle tenebre, perché è proprio nell’ugola che i Bible Of The Devil dovevano esorcizzare di più la separazione.
Nate non è un cattivo singer. Ha quel tipo di voce piena e un po’ carabolante alla Bruce Dickinson. Non lo paragono al cantante dei Maiden per potenza e tecnica, non sarebbe in grado nemmeno di reggergli le backing vocals, ma come stile è più o meno polmoni pieni e dove arrivo arrivo. Nate è anche un po’ Ozzy della molta birra.
Ci vogliono palle per cantare pezzi come Ride Steel o Lifeline. Si deve svuotare l’intero caricatore e sperare che basti a far fuori tutte le belve feroci. E di questo parliamo con Feel It, un salto nella giungla con un misero machete e qualche fuoco d’avvistamento, più tanti spettri con le facce di Nathan Weathers e Mark Hoffman (ragazzi ma non vi sembra ora di crescere? Purtroppo è andata così. Eravamo destinati a fare quel poco e quel poco abbiamo fa…)
FANCULO!
Non credo che gli Electrical Studios non fossero all’altezza. E quel truzzo di Sanford Parker:
già produttore della band dal 2006, non ha finito per non capirci un cazzo tutto insieme. Però deve essere stata dura per lui, da ottobre 2017 ad aprile 2018, sopportare la band. Cinque anni senza incidere nulla, la prima volta in cui mancava Mark… Leader, compositore… non deve essere stato semplice. Tanto più che, guardate le date: le registrazioni risalgono a un anno fa esatto. Che cazzo è successo da quel punto in poi?
E l’etichetta che alla fine ha pubblicato l’album Feel It non è la romana Cruz Del Sur, casa della band dal 2008, ma la neonata Bible Of The Devil Records. L’etichetta è talmente efficiente che sul nuovo Rock Hard non c’è traccia della band. E su Metalitalia non li hanno ancora neanche recensiti.
Insomma, Feel It sembra più un lavoro da teste dure. Fissare l’obiettivo e pedalare senza considerare ciò che arriva dai lati. Ce ne sono state di incognite che hanno segnato la realizzazione del disco. Probabilmente per la band è già una vittoria aver messo un punto al termine di sei anni di incertezze, scazzi e confusioni varie. Oggi si rischia di sparire nel nulla. Le buste del latte di Greenville o di Portland hanno la foto di gente come Valient Thorr o Barn Burner.
Tornando a Feel It e provando a chiudere gli occhi in balìa della musica, durante l’ascolto vi sembrerà di attraversare i caccolosi corridoi di un liceo pieno di odori mestruali e succhi gastrici all’inseguimento mentre una posse di pulli vo corre dietro per strapparvi le toppe dal gilet di denim. Poi se chiudete ancora per bene gli occhietti e non sbirciate sotto le gonne della bidella, appresso alle scaloppe armonizzate di (Love At) The Speed Of Night sarete carambolati in un campo giochi sudicio, proprio dove i nazisti dell’Illinois furono presi a calci nel culo da Gene Simmons e i suoi comprimascara dei Kiss, nel lontano 1981.
Quello che torna, dall’ascolto di Feel It è l’amore per un tipo di sound epico, solenne da una parte ma anche ruvido e irrequieto, punkettone con la cappa e la spada della vecchia onda britannica. Tergiverserete tra sogni e rutti liberi, lungo i canali di scolo di Chicago, mentre le ombre voraci e cruente raccontate da Rex Miller cercheranno di portarsi via le vostre logore scarpe da tennis. E durante queste fughe dal nulla che mangia e dal faccione pittato di John Gacy, le orecchie vi si riempiranno di urla al miocardio del vecchio Howlin’ Wolf, mentre il vento incessante che nasce nei bassifondi lovecraftiani della città urla gli oooooh della buttera Ultra Boys.
I Bible Of The Devil si chiamano così dalla fine del vecchio millennio. Scegliere il Codex Gigas mentre tutti aspettavano il Millennium Bug deve dirla lunga sull’euforia anarco-punk di tre ragazzini un po’ fatti e molto da fare. Oggi sono quattro adulti con un hobby costoso, mogli amareggiate e figli confusi. Insomma, il contesto è diverso ma l’intento è sempre quello di spaccare il salame di dio in quattro.
Nel 2019 c’è la resurrezione pagana in corso: si dice che il mondo sia già finito, come volevano le profezie, ma siamo troppo distratti per accorgercene. E su google, se scrivete Bible Of The Devil, prima di beccare foto che riguardano la band vengono fuori un sacco di Nergal che ghigna, vecchi manoscritti dall’aria barbuta e un libro autoprodotto sull’occult rock.
Vent’anni di rock and roll. E sentirli tutti nel culo. Se c’è una cosa che resta dopo l’ascolto della sbarazzina e tosta Lifeline è la sensazione di una gran fregatura. Pensavate di trovare altro dietro l’incerata con gli orsetti dei vostri sogni di ragazzi?