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Cronache Del Dopobomba – Issue #1 – Me, myself and la Guerra dei Cloni

Ovvero “Perché dovrei criticare una band clone, se poi gli regalo i miei soldi regolarmente a.k.a. compulsività, originalità e carta carbone nel mondo del metallone”

 

Coordinate nello spazio/tempo: Monaco, Backstage Club. Dark Easter Metal Meeting in corso, domenica sera sul tardi.

Situazione specifica: balconata del palco piccolo, sotto di me i Lik stanno per iniziare. Pungenti odori di luppolo, flatulenza e ghiandola sudoripara.

Altro di notevole da dichiarare: sono appena stato a degli stand del merch e ho investito un deca nel primo disco degli Entrails, “Tales from the morgue”. È stato l’ultimo acquisto di tanti altri, in questa due giorni. Il tizio a fianco a me in balconata ha una battlevest con una toppa dei Blind Melon.

Primo momento catartico: i Lik attaccano. Il palco è piccolo, quasi un pub (il locale è ben più grande e tre sono gli stages, ma ai Lik è stato assegnato quello “minore”, che accentua la dimensione claustrofobicamente positiva), ma il suono è efficace fin da subito: su in balconata le rasoiate di chitarra grassa e porosa arrivano fin dal primissimo pezzo. Respiro profondamente e mi sento rinfrancato, per l’ennesima volta a casa. È una sensazione che non passa mai, grazie al cielo. Nel club gli odori abbastanza pungenti di ascella, birra e scorreggia trovano la loro quadratura del cerchio serviti su un feedback acustico di grande tradizione: tutto ciò che  sentiamo esce dritto dalla combinazione musicale guidata dal pedale Boss HM-2 volume 11 di inizio anni Novanta. Sapete tutti di cosa stiamo parlando; in caso contrario, Daniel Ekeroth potrebbe darvi una dritta, tipo qui . Il pubblico è fin da subito partecipe e come in una reiterata liturgia, il set dei Lik prosegue liscio per una trentina di minuti, con pochissime pause: la maggior parte dei pezzi escono dritti dal secondo disco, fuori da un annetto su Metal Blade, dall’intellettuale titolo di “Carnage”. La cosa che mi colpisce di più, complice forse la stanchezza e la sec…uarta birra, è che i nostri non fanno alcun tentativo, ripeto, alcuno, di rendere il loro sound personale. Quello che sento è fondamentalmente una miscela di vecchio swedeath in porzioni quasi uguali di “Left Hand Path”, “Like An Everflowing Stream”,“You’ll never see” e“Dark Recollections”. Se poi volete perdere due secondi a esaminare chi sono effettivamente i Lik, esce la loro nazionalità e le seguenti militanze studio o live: Bloodbath, Grave, Witchery, Kaamos, Katatonia, Face Down, Nightrage, Repugnant e mille altri. Non credo serva aggiungere granché: i Lik sono dei turnisti di lusso o delle seconde linee di band famose che

si sono decisi a proporre, a un certo punto, musica propria. Il primo di voi che dice invece originale si becca due pizze in faccia perché, come il mio illustre compaesano Renè Ferretti, il sottoscritto è “de Fiano Romano”. Durante il loro set, sia chiudendo gli occhi che tenendoli aperti, i Lik risultano in buona sostanza indistinguibili da almeno un paio di altre centinaia di band old school swedish death metal. E, visti i personaggi coinvolti, i nostri non lo fanno certo per inesperienza e sono ben lontani dal loro primo demo; lo fanno invece per una consapevole scelta. A legittimare la loro direzione, la Metal Blade ci crede a sufficienza per mettere il disco in catalogo (al di là di qualsiasi tipo di considerazione su quanto “reale” possa essere il contratto e quanto stia rischiando effettivamente la suddetta label con questa pubblicazione, ma sono questioni da gentiluomini che non sta bene discutere così brutalmente, anche su blog semi-anarcoidi come Sdangher).

Secondo momento catartico: lunedì mattina, periferia di Monaco. In un momento di pausa, dopo l’abbondante colazione continentale crucca che spiega il subitaneo successo della Blitzkrieg più di tanti altri discorsi storico-tattici, torno in stanza d’albergo e metto un po’ a posto i dischi presi, le t-shirt, i memorabilia che conserverò del fest. Escono, dai vari sacchetti, tre titoli in particolare: il già citato “Tales From The Morgue” degli Entrails, il primo Skeletal Remains e la ristampa del primo mini dei Bloodbath, “Breeding Death”, presa a due spicci in un Mediamarkt qualche giorno prima. Degli Entrails si è detto e scritto parecchio, vista la loro onnipresenza sul mercato da qualche anno: il massimo dell’originalità che hanno è usare qualche volta il suono di scuola Gothenburg invece che quello di Stoccolma. Anvedi! Band godibilissima, i nostri, di cui adoro il secondo “The Tomb Awaits”, che è un bel bignamino di swedeath ignorante (un po’ il disco che i Fleshcrawl non hanno più fatto) ma tra loro e una qualsiasi parvenza di originalità ce ne passa. Ah, anche se di un sotto-genere diverso dal nostro discorso, mi colpisce anche l’unica t-shirt che alla fine ho comprato al fest, quella dei Thulcandra (che, come anche Paolo Brosio saprà, suonano volutamente tali e quali ai Dissection al punto di clonargli le copertine). Per la Madonna, investo regolarmente i miei soldi in band-fotocopia! E cosa mi succederà poi, sto diventando forse ricchione?

Terzo momento catartico-riflessivo di sintesi, in puro stile Hegeliano o forse più vicino al terzo atto delle peggio fiction di Rai Due:

Da qualunque angolatura si guardi il quadro complessivo, dire che il metal estremo è un genere derivativo, inflazionato e che non ci sono più i gruppi di una volta significa spostare la questione e non volerla vedere per quello che è. Non mi sento di chiamarlo problema, ma è evidente che nel mercato metal c’è un sacco di gente che si accontenta di suonare il proprio genere preferito (di quelli che un minimo tirano, eh, se no sono veri martiri/eroi), senza alcuna velleità di portare chissà quale innovazione. Giusto per citare solo i nomi coinvolti in questo post, sia Lik che Entrails, sia Skeletal Remains che Thulcandra sono musicisti professionisti o quasi. Ovvero  vivono sommando i proventi di tutte le proprie bands – maggiori o minori – incastrati con qualche lavoretto “comune” part-time o saltuario o, se sono più fortunati, con professioni vere e proprie legate all’ambiente (tour manager, studi di registrazione, turnista anche in generi molto lontani, tecnico del suono, distro musicali e altro ancora). Nessuno di loro, dico nessuno, è ricco: in generale molti dei nostri musicisti sono professionisti del mondo della musica con redditi al massimo da piccolo borghesi (Bloodbath compresi, non fatevi ingannare dalla presenza di certi nomi in giro da molti anni) al minimo da divano in cantina a casa de mammà.

Nel momento in cui legittimiamo in qualche modo l’esistenza di una squadra di cloni – dotati stavolta sia di arte che di parte – giustifichiamo la loro presenza nelle righe intermedie dei poster dei festival estivi, tanto quanto le loro uscite discografiche a cadenza pressoché continua su etichette piccole, medio e pure medio-grosse. Se c’è qualcuno che suona musica clone, lo fa perché c’è qualcuno che ascolta e che richiede musica clone, altrimenti sarebbe tornato di moda pure il funk metal. Grazie per la domanda. No, il funk metal non è tornato, potete stare tranquilli, almeno per adesso. Le cose che hanno fatto i Mordred al tempo restano morte e sepolte fino a prova contraria. Dicevamo: se c’è offerta, c’è pure domanda, e fin qua ci arriva anche vostro cugino iscritto fuori corso a economia dall’anno del triplete dell’Inter.

A questo punto le possibili riflessioni si moltiplicano e possono partire da una sempliciotta: “le note sono sette e quando tutti suonano…” fino a qualcosa

di più strutturato.  Io ci metto il carico, così, perché c’ho voglia di scrivere: sono un ascoltatore avido, sia a livello di originalità che di quantità. Quindi ogni mese ho bisogno di avere sia i miei Giant Squid e i miei Extol tanto quanto una manciata di cloni di Asphyx, Entombed e Cannibal Corpse. È un po’ come il comfort food o la Peroni – Buone ‘ste ipa fruttate del microbirrificio de tu’ sorella, ma ogni tanto datemi la rassicurante mediocrità industriale – . Ma il mio profilo mica è unico, eh: di sicuro ci sarà chi invece vuole solo cloni perché si è affezionato a un genere particolare e desidera ascoltarlo ancora e ancora e ancora (ho diversi amici dediti al più maleodorante brutalgore che hanno dozzine di dischi fondamentalmente indistinguibili fra loro e ne sono più che soddisfatti. Il fatto che molti siano dei tossici è irrilevante. O forse no).

Quello che magari non siamo abituati a pensare è che la musica clone c’è, esiste ed esisterà sempre. Un po’ come Red Ronnie. Vorresti far finta di no, ma non puoi. Fermi lì. Negli anni Ottanta, in un mercato proporzionalmente più piccolo in fatto di uscite, c’erano comunque i cloni e i cultori dei generi specifici lo sanno bene, visto che si sono comprati vinili rarissimi e costosissimi di gruppi rivelatisi poi ben di merda, in proporzione al prezzo pagato. Codesti gruppi di merda avranno pure avuto meno risonanza mediatica in un mercato pre-internet, ma c’erano eccome. Con l’esplosione della rete, l’abbassamento dei costi e della difficoltà di crearsi un mini-studio di registrazione in casa sono aumentate le uscite in modo esponenziale e i cloni semplicemente sono continuati ad esistere e a prosperare. Considerando poi la gratuità della rete e le legioni di casual listeners, gente da mix di youtube e da 15 minuti su bandcamp, il professionismo musicale diventa sempre più difficile da ottenere (come si è detto per le bands “normali” citate in questo articolo). Nessuna apocalisse in arrivo, tranquilli. Ieri come oggi, abbiamo un sacco di bands tutte uguali o quasi, che non emergeranno mai più di tanto, tra cui poter scegliere il nostro personale guilty pleasure. Ognuno ha il suo: personalmente, datemi gente che si è tatuata Nicke Andersson sulla schiena e gli regalerò sempre dei soldi. E quindi? E quindi ‘sti cazzi. Il mercato della diffusione musicale ha semplicemente cambiato forma e ciò che è crisi per alcuni suoi elementi (la distribuzione fisica coi grandi numeri, i diritti e i dividendi musicali) è prosperità per altri (libertà di pubblicazione, genuinità del prodotto – non originalità, leggete bene -). Forse è il caso di smetterla di sentirsi nati “tardi”, esponenti di un mercato morente o compagnia bella, magari raddoppiando l’errore e considerando i gruppi di oggi minori rispetto a quelli di ieri. Magari va semplicemente tutto bene così, solo che tutto funziona in modo diverso da una volta: chi non vuole vederlo ed accettarlo magari è pure un po’ in malafede perché ha perso i privilegi di essere il “giornalista”, il “discografico”, il “manager”, altro che sogni di gloria rock’n’roll. Forse non va cambiato nulla, va solo accettato in quanto diverso. Se proprio siamo persone davvero appassionate, magari faremo il possibile per valorizzare quello che c’è. Forse magari, potreste qualche volta evitare di dire “che gruppo di merda, gli [inserisci nome qui]: sono uguali ai [inserisci nome qui]” (esattamente come non lo faccio io, tipo dieci righe più in su), perché forse è esattamente quello che questi tizi vogliono essere e quello che vogliono suonare. E se il mercato gli da una minima ragione, anche se per ora fanno ancora gli spedizionieri e i ragionieri coi tatuaggi nascosti sotto le maniche della camicia, forse è giusto così. Se non ti chiedono soldi, potranno pur fare il cazzo che gli pare, o no?