High Crimes è un album dei The Damned Things, uscito per Nuclear Blast nel 2019.
Due dischi in un decennio per il progetto parallelo – supergruppo mi pare termine eccessivo – composto dal cantante degli Every Time I Die, un paio di tizi dei Fall Out Boy e – così, de botto, senza senso – nientemeno che Scott Ian alla chitarra ritmica. Nel mutevole ruolo di bassista, da cui è passato anche Prezzemolino Rob Caggiano, stavolta tocca a quello degli Alkaline Trio, buon gruppo emo-punk a inizio millennio.
A quegli anni rimandano anche le biografie degli altri componenti, tranne ovviamente il buon vecchio Scott che immagino avrà familiarizzato con il resto dei coinvolti, in qualcuna delle sue ospitate su VH1.
Chiederanno subito i lettori di questo blog: c’è qualcosa di Anthrax qui dentro? Poco o nulla, se non una patina di generico sound metal contemporaneo, non troppo compresso. In tal senso credo che il progetto serva come valvola di sfogo per chitarrista e batterista di quei Fall Out Boy ormai instradati verso il pop dal narciso leader Patrick Stump.
In veste di solista va detto che Joe Trohman in effetti piazza un paio di buoni assoli qua e là, fornendo un contributo superiore rispetto a quello di uno Ian poco ispirato nei riff (ma ormai è poco ispirato anche negli Anthrax, eh?).
Una soluzione cui si ricorre spesso nel disco è quella di bloccare improvvisamente il pezzo per lasciare in evidenza le chitarre alle prese con brevi giri blues: mi sa che vorrebbe essere un omaggio ai Thin Lizzy, ma quando va bene sembrano più i QOTSA e quando va male i Volbeat.
E anche l’approccio vocale di Keith Buckley, in certi punti convincentemente hetfieldiano, si lascia talvolta andare a gigionismi degni di quel pallone gonfiato di Michael Poulsen.
Piuttosto, la cosa che mi colpisce in positivo è la sveltezza della sezione ritmica: in particolare il batterista fa valere la sua formazione melodic-core in termini appunto di velocità, garantendo al contempo una maggiore varietà di soluzioni rispetto alla tetragona lezione californiana.
Sul piano compositivo, abbiamo una selezione di canzoni abbastanza varie ma non troppo entusiasmanti, se si eccettua forse il singolo Cells. Già nel primo disco del 2010, We’ve Got A Situation Here si innalzava di parecchio sopra la media però – hey! – vale la pena mettere su un gruppo per due pezzi belli in dieci anni?
Ma forse sono un po’ troppo severo. Anche Omen in fondo non è male, peccato solo che ricordi troppo Uprising dei Muse.
Già, i Muse: un po’ come il gruppo del diversamente simpatico Matt Bellamy, i Damned Things si tengono aperte varie soluzioni espressive, mancando purtroppo del fiuto (invero ormai un po’ spento) da hit dei britannici.
Gli altri pezzi appartengono alla nutrita categoria “essere abbastanza ben strutturati da ricevere menzioni abbastanza favorevoli su recensioni scritte e lette di fretta, per poi essere abbastanza dimenticati il mese successivo”.