Band heavy doom di Avellino, La Janara debuttano con Tenebra, album uscito per Black Widow Records a due anni dall’omonimo EP.
La Janara è una bella realtà. Prendete i riffoni dei Black Sabbath anni 80 e infilateli in un disco di De André. Avete fatto? Bene. Ecco qui.
Ovviamente sto semplificando ma bisogna farlo se si vuole attirare l’attenzione del lettore. E tu lettore, ritieniti attirato. Sto tentando un incantesimo, proprio come riesce a farne la bella squinzia Raffaella Càngero, voce e interprete convincente dei coraggiosi testi di La Janara.
Mi perdoni la band se per comodità da ora in poi li chiamo “gli” Janara.
Insomma, gli Janara sono un incantesimo, dolente, olezzante di bruma e fumo che sprigiona da ceppi antichi, e per certi versi è un canto che sa di resistenza e poesia.
La stregoneria, che è il tema centrale del disco, è trattata in modo complice, in linea con la nuova scuola pagana di Occult Rock Anglo-Canadese; sapete, no, band come Alunah e Blood Ceremony.
Tenebra è un inno all’amore selvaggio e alla terra, alla sensualità della natura e l’insopprimibile bisogno di libertà. Non ci sono baracconate o sulfurismi d’accatto ed è un bene.
Violante aveva un osso di capra, per esempio è una ballata di gran pregio con un pizzico di oscurità. Nell’incedere aspro di Raffaella sul cammino di accordi sembra quasi stia arrivando la pena e il terrore, ma nel ritornello tutto si fa lieve e dolce, come un solare mattino primaverile che sorprende le membra stanche di un esausto viandante proveniente da qualche segreto sposalizio silvano. Il diavolo c’è ma è ben impastoiato nel cordone romantico che lega insieme poesia Pascoliana, il muschio dei sassi, qualche goccia di sangue ovino e il freddo della solitudine.
La solitudine è quella austera di chi ha scelto una via diversa dalla massa, chi ha bisogno di risalire sentieri semi-nascosti che conducono ad antichi sepolcri familiari, dove sono nascoste le ossa ataviche di una conoscienza cruda e temuta da tutti.
La Tenebra, che apparentemente sembra fatta di ghiaccio e cattiveria, finisce per accogliere l’animo errabondo della protagonista, lei che dal buio assai più pericoloso e dilagante dell’omologazione spicca il volo a cavalcioni di giganteschi capri elettrici, forgiati dalla chitarra di Nicola Euplio Vitale, e vira dritta tra le cosce del demonio, senza dubbi o pensieri.
Nicola detto Il boia, è il sacerdote-chitarrista di questo denso anfratto sonoro. Le sue trame fanno strada tra monti di foglie marce. I suoi arpeggi e le impennate distorte scuotono la selva, scoprendo sotto le coltri di rovi e vecchie carcasse, corpi ribolenti di desiderio avvolti nel fango che nutre e disinfetta.