Hot In The Shade è un disco dei Kiss uscito nel 1989 per la Polygram Records.
Manhattan, 1989
Paul era felice. Non divideva il palco con gli altri dei Kiss ma per la prima volta, e non ricordava da quanto, si sentiva bene. Del resto i Kiss non esistevano più. Sulla carta c’erano ancora ma nella realtà erano finiti da tempo. E avere il palco tutto per sé, una band al proprio servizio, il pubblico lì, erano tutte cose che lo facevano sentire dannatamente a posto con se stesso.
Solo una cosa non gli piaceva, quella sera: la faccia di Eric.
No. Non Eric Singer. Singer era il suo nuovo batterista e andava alla grande, là dietro. Non gli piaceva la faccia dell’altro Eric.
Eric Carr. C’era anche lui, al Ritz. E stava lì, in prima fila, con la testa appoggiata alla ringhiera, lo sguardo fisso sul palco, l’espressione indecifrabile. Paul si trattenne quasi dal chiedergli al microfono, davanti a tutti: “ehi Eric, qualcosa non va?”
Dopo l’esibizione Carr lo raggiunse in camerino. Aveva l’aria infelice da un pezzo. Paul lo sapeva. Ed era al corrente che Eric stava curando l’incendio dei suoi problemi interiori annaffiandoli di benzina superalcolica. Beveva troppo. E stava sempre peggio.
Quella sera però Eric non era semplicemente ubriaco. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Pareva deluso. Al punto che la domanda che Paul sentiva crescere dal petto alla gola era diventata: “ehi Eric, ma si può sapere che cosa ti ho fatto? Questa è la mia festa e ti presenti con l’aria da cane bastonato?”.

Eric sorrise appena a Paul, quasi avesse letto nella sua mente. Poi si avvicinò all’altro Eric e gli puntò il dito. “Tu mi sostituirai” disse.
Singer lo guardò accigliato e subito cercò Paul con gli occhi.
“Ma di che parli?” intervenne l’ex Starchild.
Eric fissò Paul e sorrise di nuovo. “Parlo del fatto che lui prenderà il mio posto nei Kiss” disse. Poi fece per avvicinarsi di nuovo a Singer. Paul si mise in mezzo ai due batteristi con la strana sensazione di una scazzottata imminente. “Eric, ma si può sapere che vai dicendo? Sei tu il batterista dei Kiss e non credo che questo teatrino sia…” .
Carr scoppiò a ridere, come se fosse tutto uno scherzo. Poi alzò le braccia come a dire, “ehi arbitro, non l’ho mica toccato!” e uscì dal camerino.
Paul lo sentì dire da fuori: “Vedrai se non sarà così”.

In una intervista a John Rubin che lo interpella proprio su quella serata, Eric esclama: Oh amico, ho adorato Paul, quella sera! Ho pensato che fosse fantastico e mi ha fatto molto emozionare. Guardavo un ragazzo come Paul che faceva la sua splendida performance. Mi trasmetteva una gran voglia di saltare e di suonare. Avrei desiderato essere lì sul palco con lui. Perché devi sapere che Paul voleva che facessi io il tour con lui, davvero! Ma poi si è reso conto che non sarebbe stato giusto. Non sarebbe più stato un tour da solista. Sarebbe sembrato un tour con metà dei KISS. Allora la gente avrebbe cominciato a chiedersi “perché suonano solo loro due?” e tutte quelle cose scomode, quindi Paul ha messo insieme una grande, grande band, e sono diventati subito davvero affiatati…
Forse un po’ troppo, vero Eric?
Mesi più tardi, durante il tour di supporto a Hot In The Shade, Carr smette praticamente di rivolgere la parola a Paul. Stanley se ne rammaricherà molti anni dopo, nella sua autobiografia, sapendo ovviamente cosa stava arrivando per il povero Carr. E i rimorsi nei confronti del batterista non finiscono certo qui.
Ma un passo indietro. 1990. Hot In The Shade è nei negozi e vende bene. Poco prima di partire per i concerti in Giappone e Australia, Carr rilascia alcune interviste promozionali di routine. Una è con il giornalista italiano Paolo Maiorino, pubblicata sul Metal Shock! a metà Gennaio; il numero con Paul in copertina che guarda un po’ inquieto i lettori, tenendo su il proprio mento con tre dita di pensieri.
“Si tratta del miglior disco dei Kiss da cinque anni a questa parte” esclama Carr, nell’intervista italiana. La solita sparata promozionale, ovvio.
“Cinque anni? lo asseconda Paolo, vale a dire da Asylum in poi. E il successo di Crazy Nights?
“Beh, già. Sai, nonostante le buone vendite non è che sia tanto soddisfatto di quel disco. E nemmeno gli altri ragazzi lo sono. Non del tutto. Hot In The Shade è davvero molto più fico…”
“E cos’ha di così fico Hot In The Shade?”, domanda Maiorino.
“Tutto quello che senti in Hot In The Shade è semplice” dice Eric fissando qualcosa oltre il testone del giornalista italiano. “Siamo tornati a fare le cose in modo più immediato, diretto. Quindi è migliore, per quanto mi riguarda”

Maiorino e i lettori non possono capire come mai Carr giudichi così male gli ultimi cinque anni dei Kiss. Ci sono cose che non sa nessuno e che si scopriranno troppo tempo dopo. I cinque anni a cui fa riferimento Carr sono davvero il momento peggiore della storia della band, ma non lo si può dedurre dalla qualità, per quanto non irresistibile dei dischi usciti. La realtà è che Kiss è ormai il nome di un progetto solista di Paul. Gene pensa a far soldi come discografico e si butta nel cinema, Bruce si limita al suo lavoro, e lui, Eric si ubriaca e si droga di altre cose.
Ufficialmente Stanley non lo sa che è diventato un tossico… ma lo sa. Segreto di Pulcinella. Paul non accetta drogati nella sua band, però vuol bene a Eric e così finge di non accorgersi, altrimenti è costretto a cacciarlo. Non se la sente proprio. Almeno fino a quando non si ritrova per le mani un altro Eric. Singer sa suonare alla grande e ha pure un’ottima voce. Stanley se ne accorge solo quando Carr si ammala che è perfetto per i Kiss. Eric invece lo capisce subito. Riconosce d’istinto chi minaccia il suo territorio, ma può farci davvero poco.

Un altro passo indietro. 1988. Il gruppo si prende una sosta dopo il tour promozionale di Crazy Nights e mette sul mercato la loffia antologia Smashes, Thrashes, Hits, una riedizione di classici con le parti di batteria sovraincise da Carr, più un paio di inediti clamorosamente brutti, considerando che Paul li ha scritti con il duo delle meraviglie Diane Warren e Desmond Child. Per tutto l’anno e quello successivo, la cosa più rilevante che tiene occupato il pubblico dei Kiss è se la band non sia davvero in crisi e se la versione canora di Beth, cantata da Eric su Smashes… non rappresenti una sorta di intollerabile blasfemia.
Oltre alla raccoltona inutile il gruppo pubblica una serie di modesti album solisti. Stavolta tre su quattro; Kulick evita. E così la band forse spera che nessuno si accorga che sono già passati quasi tre anni da Crazy Nights. Una sosta così lunga non era mai avvenuta dall’esordio del gruppo.
Sul finire del 1989, a sorpresa e in risposta alle voci di uno scioglimento, esce il nuovo album. Siamo al quindicesimo compleanno della band dalla nascita. Quattordici dischi in quindici anni, senza contare i due Alive. I Kiss non si sono praticamente mai fermati, superando il glam rock, il punk, la disco e il fenomeno Kiss stesso, rinunciando alle maschere e scivolando con grande naturalezza nel calderone duro anni 80 convenzionalmente raggrumato sotto la dicitura hair metal.
Hot In The Shade diviene disco d’oro già poco dopo l’uscita e la critica sembra molto soddisfatta del suo contenuto, salvo rimangiarsi la parola al tempo del successivo Revenge, album più pesante e in linea con i tempi really heavy di Creatures Of The Night.

I timori di Eric Carr non sono più causati dal suo omonimo Eric Singer, ma dal finale del video promozionale di Rise To Hit: il clip, a riguardarlo oggi, risulta abbastanza banale e in linea con le tendenze spomp metal di quegli anni, vale a dire: c’è il gruppo sul palco che suona davanti al proprio pubblico e tutto è bello e tutto è divertente. Però non si può ignorare la cornice sibillina. Paul e Gene chiacchierano davanti a uno specchio, pittandosi la faccia di bianco, come nulla fosse. Dopo il pezzo ritroviamo i due pronti con il make-up classico dei Kiss che si dirigono verso la scena.
Maiorino, nell’intervista a Metal Shock!, domanda ovviamente a Eric se non sia in programma un tour reunion della formazione originale dei Kiss. Il batterista risponde che probabilmente è così e che non ha nulla contro se succede ma evidentemente riesce a celare un piccolo terremoto intestinale mentre gli risponde.
Hot In The Shade ha una scaletta lunghissima. Uno dei problemi dell’album è proprio l’eccessivo numero di canzoni. E di autori coinvolti: Bob Halligan, Tommy Thrayer, Desmond Child, Holly Knight, Adam Mitchell, Vini Poncia e Michael Bolton. Questo gran dispiegamento di forze produce solo una hit. Forever. Per farvi capire quanto è annacquata la tracklist, basti notare che la ballad, solitamente posizionata entro le prime quattro posizioni, finisce alla settima.

I pezzi sono tutti abbastanza modesti. L’unica che spicca, a parte Forever, è Hide Your Heart, scritta da Stanley insieme a Holly Knight e l’immancabile Desmond Child. Curioso che questo pezzo, abbastanza ordinario sia stato inciso da una sfilza di artisti e tutti nello stesso periodo. Se escludiamo Bonnie Tayler, che la registra nel 1986 e ci intitola pure l’album, tra il 1989 e il 1990, Hide Your Heart esce quasi in contemporanea su quattro dischi e in quattro salse differenti: sta in quello di Robin Beck, di Ace Frehley, dei Molly Hatchet e per ultimo in quello dei Kiss stessi, che forse ne firmano la versione peggiore.
Come per 18 & Life degli Skid Row, uscita nel 1988 e All I Need dei Crue, datata 1987, Hide Your Heart racconta una storia urbana che finisce male. Ma rispetto agli altri due titoli citati è la sola che non convince granché. I due amanti sul tetto della città sono presi l’uno dall’altro e Tito, il tanghero dal grilletto facile, non si sa come, riesce a trovarli. Spara e uccide probabilmente tutti e due i fedifraghi, restando con un pugno di scorreggie e una fidanzata in meno. La sua canna è il solo pene che possa difendere il suo onore, visto che l’altro, quello di carne, è stato abbondantemente rimpiazzato dal temerario e incoscente Johnny.
Paul urla a più riprese “Johnny è meglio che scappi, è meglio che scappi” ma il personaggio non se lo fila proprio. Ciò che non riesco proprio a sopportare sono i cori alla Bon Jovi fatti di ah ah ah ed eh eh eh, dudduddudduurududududu!, farina del sacco di Desmond Child, c’è da scommettere.
Forever è un successo, il vero motivo per cui stiamo ancora parlando, in questo momento, almeno in cinque nel mondo, di Hot In The Shade. Il pezzo però non è mai stato considerato dai fan veramente una roba dei Kiss.
C’è un aneddoto curioso a tal proposito – dice Stanley – essendo una canzone insolita per lo stile della band, la gente l’ha sempre pensata di Michael Bolton. A sentire il pubblico io non avrei mai potuto scriverla. Eppure dopo l’iniziale e fulminea session di scrittura al Sunset Marquis, Michael aveva avuto pochissimo a che fare con quel brano, al punto che, una volta divenuto un successo, chiese all’ufficio dei Kiss di mandargli via Fax una copia del testo. Da allora ha eseguito il pezzo dal vivo, ovviamente introducendolo come il brano che LUI aveva scritto per i Kiss!
Forever ha un potenziale enorme e sia il gruppo che la casa discografica se ne rendono conto prima ancora dell’uscita dell’album. Dopo dieci anni che non succedeva – dice Paul – il direttore artistico dell’etichetta mi mandò a chiamare. Disse di accomodarmi nel suo ufficio e iniziò a parlarmi di “Forever”. Secondo lui avrei dovuto sfumare il finale e lasciare il ritornello in ripetizione fino al silenzio. Praticamente voleva darmi lezioni di arrangiamento. Ma per quanto potesse sembrare una soluzione efficace, secondo me, per “Forever”, non funzionava proprio. Il finale atipico era essenziale per un brano che reputo unico nel suo genere. Il tizio però mi disse come la pensava con un tono da ordine indiscutibile. E così ne ebbi abbastanza. Gli risposi: “Ehi bello, faccio questo mestiere da quando andavi alle elementari. Ero nella scuderia di questa etichetta prima di te e ci sarò ancora dopo che ti avranno mandato via. Perciò ti ringrazio ma non mi dire cosa devo fare con un mio brano”.
Forever arriva al numero 8 dei singoli più venduti e per i Kiss è il primo successo nella Billboard Hot 100 dai tempi di I Was Made... Inutile dire che il direttore artistico viene sostituito poco tempo dopo l’uscita del singolo.
Forever è senza dubbio un brano dei Kiss. Paul Stanley indossa perfettamente questa ballad. Chi proprio non ci vedo bene è Gene. Anche nel videoclip sembra entrarci come un orso in un armadio di intimo femminile. Mentre il suo comprimario si sgola urlando “Fooreeever!” lui dentro il petto pare avvertire giusto il rimbombo di un’altra voce che dice “Mooooooney!” Ecco l’unico motivo per cui Gene se ne sta lì, sullo schermo, a tubare di basso con una vaga espressione imbarazzata e divertita insieme. Non è un caso che abbia suonato Bruce Kulick le parti di Simmons in studio, perché Gene ha uno stile troppo rude per un pezzo così sofisticated.
Durante la serata in cui Carr accusa Paul di volerlo rimpiazzare con l’altro Eric, Gene è presente, distratto e inguaribilmente compiaciuto. Per lui è tutto ok. Per lui tutto va bene con i Kiss. La band gira alla grande e nel gruppo piovono più soldi di quelli che guadagnavano negli anni 70. – Potete non crederci ma è la verità – dice – al tempo di “Crazy Nights” e “Smashes…” guadagnavamo tanto perché ormai c’erano meno spese. Tutto gli eccessi del management ormai li avevamo eliminati. E questa politica low-cost fu la stessa che portammo avanti per registrare anche il nuovo album “Hot In The Shade”. Trovai io stesso uno studio a buon mercato e ci regitrammo tutto quanto. Spendemmo poco, anche perché lo producemmo da soli.

E si sente, Gene. Se c’è una cosa che non funziona in Hot In The Shade è proprio il suono debole e la produzione posticcia. Ma i risultati contabili danno ragione alla band, che decide stavolta di investire parecchio sul tour. – Al centro della scena – racconta Gene – avevamo fatto mettere una sfinge alta quasi dodici metri e noi spuntavamo dalla bocca. Quella cosa faceva fuoco e fiamme e per fartela breve, la band nel 1990 infilava il tutto esaurito come ai bei tempi e non solo quello!
Le preoccupazioni di Simmons, durante il tour di Hot In The Shade aumentano, ma esulano dalla band. Mentre Carr teme di essere fuori nell’arco dei successivi due anni – cosa che purtroppo avverrà per volere divino e non di Paul – Stanley si sente sempre più frustrato dal disinteresse del suo partner, il bassista linguacciuto si ritrova davanti alla cosa più terrificante che possa capitargli. Durante la pausa estiva del tour tornai a Los Angeles da Shannon. – dice – Avevo tutto. I Kiss andavano bene, vivevo con una regina, cos’altro potevo chiedere? Stavo per scoprirlo. Shannon e io andammo a una serata del Neil Bogart Memorial Cancer Fund, che si teneva all’ippodromo di Santa Monica. Stavo parlando con Sherry Lansing e Joyce Bogart e la conversazione virò sul matrimonio. Io spiegai che ero spaventato all’idea di sposarmi. “E i figli?” mi sentii domandare. Beh, prima che potessi rispondere mi arrivò nell’orecchio un sussurro. Era la voce di Shannon che mi diceva “sono incinta!”. Non la sentii, almeno non consapevolmente. Udii le parole ma non raggiunsero il mio cervello. Mi sentii come stordito. Mi salì il sangue alla testa.
Gene riparte per il tour e decide di portarsi dietro la compagna; ora che aspetta un bambino la vuole sempre al suo fianco. Non era mai capitato che mi facessi accompagnare dalla mia donna – racconta – ma andò tutto bene. Le spiegai ogni cosa. Vide le ragazze che si toglievano la maglietta e mostravano il seno durante i concerti. Rispose lei alle chiamate delle tipe che mi cercavano. Una sera a Londra, Shannon era andata un momento fuori dalla nostra stanza. Io vi entrai e trovai una donna che mi aspettava. Era una con cui forse avevo avuto una storia, non ricordo bene. Stava lì, con le gambe accavallate e una sigaretta accesa. Mi fissava. Poi si alzò, mise le braccia intorno al mio collo e mi suggerì di dare un calcio in pancia a Shannon… così da uccidere il bambino! Rimasi senza fiato e appena la pazza sentì arrivare la mia compagna si dileguò. Non la rividi più. Almeno mi pare!
Il tour di Hot In The Shade vede da una parte Gene sveglio, di notte, a fissare il soffitto mentre la sua regina visibilmente in cinta, russa accanto a lui. Shannon aveva le nausee mattutine – racconta Simmons – era tutto normale ma io ci impazzivo. Non volevo che stesse così male. Inoltre durante quelle notti pensavo e ripensavo: “oh mio dio, avrò un bambino. Sta arrivando. Cosa faccio? E se è una femmina? Come si parla a una femmina?”
Il 3 luglio 1990 si sfiora però la tragedia. I Kiss fanno un concerto a Springfield, Massachusetts. Il giorno dopo è in programma una pausa. Paul è vicino a casa e quindi pensa di andare a trascorrere il tempo libero nel suo appartamento. Noleggia una limo e parte. Purtroppo, giunti in autostrada, l’autista a un certo punto tenta un sorpasso e non calcola bene la distanza dall’altro mezzo. La macchina di Paul cozza sul fianco addosso al muso dell’altra e inizia un testacoda.
Stanley si aggrappa al sedile di fronte a lui e tiene premuta la testa contro lo schienale, come al tempo in cui gli prendevano le ansie sul pulmino della scuola. L’auto continua a girare su se stessa e finisce per abbattere alcuni lampioni a bordo strada prima di schiantarsi contro la massicciata. Paul all’impatto sente le lamiera accartocciarsi attorno a lui.
Non so come facemmo – dice – ma sia io che l’autista riuscimmo a divincolarci e uscire attraverso il parabrezza fracassato. Il polizziotto che arrivò sul posto indicò la macchina e chiese incredulo se noi eravamo stati là dentro. Il mattino dopo non riuscivo a muovermi dal letto. Dovetti assumere un fisioterapista che mi aiutasse a sciogliere i muscoli e farmi tornare in azione. Ebbene, dopo questo fatto, quando raggiunsi il resto della band, nessuno dei ragazzi venne a chiedermi come potessi sentirmi. Ero finito quasi ammazzato in un incidente ma nessuno di loro me ne parlò mai.
Non c’è da stupirsi che dietro gli occhialoni da sole della Sfinge, dietro la sfilza di serenate hard rock all’insegna del cinico Gene e i suoi motti da strada, le tarantelle lubriche di Paul e i colpi forsennati del cupo e depresso Carr, c’è giusto una tonnellata di professionalità e poco altro. Gli uomini che onorano al marchio dei Kiss sono in difficoltà tra loro ma l’album produce nella mente di chi ascolta spiagge, culi, strade assolate e macchinoni che filano dritti, senza sbandare.
Personalmente (io, Padrecavallo) credo che Hot In The Shade non sia un grande lavoro, però ci sono almeno tre pezzi da recuperare; minori quanto si vuole ma degni di un rewind.
1 – You Love Me To Hate Me, con quel chorus di Stanley talmente alto e tirato da procurare all’ascoltatore un’infiammazione scrotale senza nemmeno aprire bocca o muovere un dito.
2 – la becera Betrayed, brano che è come un cingolato su un tappeto di pechinesi. Simmons nel testo prende a pizze chi si commisera e che pensa di essere l’unico a cui la vita l’abbia messo al culo. La cosa imperdibile è l’impennata vocale di Gene alla fine. Lui sale nella polverosa soffitta del suo registro canoro.
3 – La terza canzone la cito per motivi affettivi. Little Ceaser è composta e cantata da Eric Carr. Nulla di speciale, ma è il suo lascito prima della scomparsa. Cazzo, sono sicuro che capirete se scelgo questa e non… che so, Read My Body.
You Love Me To Hate Me prosegue la tradizione tipica dei Kiss di usare turnisti durante nelle sessioni di registrazione. Già alla fine degli anni 70 buona parte delle incisioni di batteria dei dischi le sbrogliava un certo Anton Fig e non Peter Criss. Nel caso di You Love… Eric Carr è sostituito da Kevin Valentine dei futuri e abortiti Shadow King. Anche Tommy Thayer (Black N Blue e oggi Kiss) suona tutte le chitarre in due brani scritti da lui insieme a Simmons. Non so come potesse prenderla Bruce Kukick, ma immagino che se ne sbattesse. Per lui tutto il periodo di Hot In The Shade è piacevole da ricordare, se glielo chiedete, perché dopo il successo di Forever la band ha fatto un gran bel tour e nessuno può davvero immaginare ancora nulla di quel che si sarebbe diffuso nell’etere dallo sfintere di un’etichetta indipendente di nome Sub Pop. Nonostante questo, però – con il senno di poi – dice Bruce – essendo l’ultimo periodo con Carr, le cose non mi appaiono tanto spensierate come nel momento in cui le vissi.
Un’altra cosa piuttosto curiosa del tour di Hot In The Shade riguarda lo psicologo personale di Stanley. Il dottor Jesse Hilsen. Permettete che vi racconti anche questa. Anzi, sentite come riferisce Paul la stranissima situazione – Pensai di coinvolgere il mio psicologo personale nella gestione dell’ufficio dei ,come supervisore dell’organizzazione generale. Firmai un accordo secondo cui lui non era più mio terapista. Parlavamo di lavoro e basta. Durante il tour però iniziarono a girare strane voci sul suo conto. Si diceva che aveva mollato moglie e figli nello stesso periodo in cui si era aggregato ai Kiss. Iniziai a sentire che rifiutava di pagare gli alimenti a lei e il mantenimento ai piccoli ma pensai fossero chiacchiere, finché la cosa non divenne ufficiale, con denunce e il resto. Fu sconvolgente, per me. Proprio sotto i miei occhi, qualcuno che aveva rappresentato una fonte di stabilità e sicurezza, durante periodi molto complessi della mia vita, adesso perdeva terreno nella propria di vita, fino a disfarsi e scomparire. Hilsen si diede letteralmente alla macchia nel 1994 e mai più ho avuto sue notizie da allora.
Verso la fine del 1990 Paul non ha granché da fare. Il tour è finito e tutto sembra essere andato per il verso giusto. La situazione nella band resta incasinata e Jesse il terapista continua a uscire di testa e poi di scena. Hot In The Shade è più che altro un brutto pasticcio…
“La prova ulteriore” pensò Paul “che il gruppo sta andando a pezzi. Ma è ora di iniziare a farsene una ragione”.
Entrò nel piccolo studio. “Fanculo tutto, per stasera” disse sotto voce. Si trovava a New York, in un confortevole salotto d’incisione che aveva noleggiato solo per pasticciare un po’ con alcuni demo personali. Niente di speciale. Gli piacevano gli studi di registrazione. Erano come i Casinò, niente finestre. Ti immergevi nel tuo lavoro e te ne fregavi del tempo, di tutto. Ogni cosa rimaneva fuori e tu te ne stavi al sicuro nel tuo rifugio.
Quella notte però, mentre da qualche ora cercava di sistemare i suoni al mixer, un pensiero lo colse all’improvviso. “Non sei qui perché ti serve” gli disse una voce da qualche parte. “La verità è che non c’è un altro posto dove potresti andare”.
E in effetti era la verità. Gene aveva Shannon e il bambino in arrivo. Eric e Bruce la loro vita… ma lui? Niente donne. O meglio, nessuna di speciale. La band? Uff… Una volta sì che sentiva di essere parte di qualcosa, tipo i primi anni con i Kiss, ma ora? Poteva pagare uno studio e chiudercisi dentro. Possibile che la sua vita, con tutti i soldi, il successo, fosse però ridotta solo a quello?
In risposta gli arrivò una telefonata. Sollevò il ricevitore e ascoltò. C’era la possibilità di produrre una band, se era interessato. Bastava prenotare un volo per la West Coast e alzare il culo da lì, dal rifugio e dai suoi demo. Assolutamente sì, tutto pur di non rimanere dove sono, si disse.
E poche ore più tardi Paul era seduto in una comoda poltrona, guardando fuori dall’oblò l’asfalto della pista di decollo. Era stato migliaia di ore su uno di quei cosi, pensò, secoli in mezzo alle nuvole.
Si accorse di una cosa. Gli stavano tremando le mani. Non molto, però un po’ sì. E le labbra erano come intorpidite. E poi l’aria. Iniziò a mancargli l’aria. Che cazzo succede, pensò mentre si cercava di alzarsi in piedi. Afferrò la borsa e scese di corsa dall’aereo senza guardare in faccia nessuno.
Poco dopo era in uno studio medico, un valium già in corpo e la convinzione di aver avuto un infarto. Il dottore lo visitò e lo lasciò parlare: Paul disse del senso di asfissia, delle mani tremanti e chissà perché si ritrovò a parlare anche dei demo, lo studio… stava persino per confessargli della domanda che si era rivolto sulla sua vita.
Il medico si sfilò lo stetoscopio dalle orecchie e alzò una mano. Giusto in tempo, prima che iniziasse a blaterare una confessione psicanalitica a quello sconosciuto in camice bianco.
Paul lo guardò e deglutì a farica mentre il dottore lo fissava sorridendo appena. “Non si preoccupi, signor Stanley. Il suo cuore è ok”
“Allora cosa è stato, se non il cuore?”
“Panico”
“Panico?”
“Esatto”.
“E cosa devo fare con il panico?”
“Nulla. Andare avanti. E magari capire cosa non va nella sua vita”
“Cosa non va nella mia vita…?”
Paul iniziò a pensarci e dopo una settimana trovò la soluzione.
E se fosse semplicemente arrivato il momento di sposarsi?