Sono un artista e quindi pagami o uccido l’underground!

Negli anni ho visto la scena underground cambiare. L’artista emergente ha iniziato a pretendere sempre più. Questo atteggiamento ha mutato la scena e a mio modo di vedere l’ha in parte distrutta. Chi voleva coltivare il sogno di possedere una piccola etichetta, ha dovuto abbandonarlo.

Non sto parlando dell’underground alla Darkthrone. Mi riferisco a un livello ancora minore. Parlo di me che faccio un disco noise-porn-nazi-core a casa mia, usando un programma d’incisione, ordino su Ebay uno stock di TDK dalla Russia e incido copie del mio lavoro. Poi le invio a una label che le prende e le distribuisce con un marchio sopra, tipo Violentsburra Records. Due persone le acquistano, una dal Giappone e una dall’Ucraina e finisce lì. Potete pensare che sia patetico ma vi invito a rispettare i sogni degli altri. Per loro potrebbero essere patetici i vostri.

Partiamo da questo: a nessuno piace essere pagato in visibilità. Non piace a te, non piace a me, non piace a nessuno che si definisca artista. Se lavoro mi paghi, se ci sono degli incassi io voglio la mia fetta di torta. Ma se non c’è la torta?

Quando mi cimentai io come artista nel mondo dell’underground avevo un progetto musicale estremo. Una piccola etichetta mi fece “siamo interessati ma lo possiamo pubblicare solo a spese tue”.

Momento di smarrimento. Perché dovrei pagare per farmi produrre da una label qualcosa che ho creato io? Appunto perché la voglio pubblicare. Penso davvero che esista un mercato per un progetto noise-nazi-core-grind-torso-grind?

L’artista (non) paga il proprio sogno bagnato

Non è che basti dire “guardatemi, ho registrato un album” e subito la gente inizia a sganciare la pecunia per sentirlo. Ammesso che esista qualche esemplare umano interessato a capire di che si tratti, ci vuole anche una pubblicazione coi fiocchi, che lo alletti. E qui casca l’asino…

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Sbam!

Per una confezione fica ci vogliono soldi. Ci vuole una spesa in anticipo prima del guadagno. E la verità è che di solito queste cose le paga la label. Se un artista, a parte le tracce non mette altro sul piatto, ha diritto, per dire, a chiedere copie gratuite? Può pretenderle se basteranno quelle copie gratis a mandare il bilancio complessivo in negativo?

Mi sono ritrovato per una volta a vedere la faccenda da fuori. Non ero io artista e non ero io la label. Ho letto commenti del tipo: “lui deruba un artista, non gli dà il compenso che gli spetta”. Fermi un attimo!

Enrico Fermi

La label pubblica l’artista

Una label, che si dice abbia commesso “il furto” ai danni dell’artista, pubblica un album in una serie di cassette, poche copie. Le cifre sono queste.

I tipi che gestiscono l’etichetta pagano di tasca propria le cassette. Le doppiano a mano in puro stile DIY. Parliamo di una logistica davvero minima.

La grafica? Sempre la label paga un artista per la creazione della cover.

Le custodie, la stampa, etc? Ho già risposto prima, credo.

Qualcuno può dire: “però lo studio di registrazione l’artista se l’è pagato da solo, come anche la strumentazione e/o gli apparecchi usati per la registrazione stessa!”.

Vero o falso?

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Vero e falso, perché la spesa è relativa. Se uso il mio pc, la mia chitarra, un programma scaricato illegalmente ho davvero speso qualcosa, a parte la mia creatività?

Io stesso ho deciso di aprire una mia label e tentare un percorso in questo micromondo underground. Già però ne sono deluso. Un artista ti chiama per sapere quando gli regalerai le copie free, invece di domandarsi quante ne siano state effettivamente vendute. C’è gente che davvero è sicura che entrare in una sala prove sia lo step finale per sfondare. La gavetta è pubblicare gratuitamente i propri dischi in digitale, pensa lui. Finché si parla di virtualità digitale poi sono tutti pronti ad accontentarsi della visibilità. Appena si passa al formato fisico, con qualche soldo vero investito, subito battono cassa reclamando copie in omaggio.

Dove finisce il lavoro e inizia la truffa?

Io ho una piccola label e sono immerso in questo schifoso microcosmo. Lavoro senza badare ai profitti. Lo faccio perché mi piace produrre musica altrui. Si tratta del mio hobby.

Non voglio, in quanto micro-label, muovermi come i bulli della discografia indie, che tirano su debiti enormi per dimostrare al mondo di raggiungere risultati. Allo stesso tempo non sono nemmeno il gestore virtuale dell’ennesima pagina bandcamp che si vende la musica solo in digitale. Quel mercato è morto da tempo.

In conclusione

In conclusione, chi ha ragione? La label che non elargisce copie omaggio all’artista o l’artista che le pretende? Nessuno, per me. Perché se decido di entrare in questo mondo ne seguo le regole. Se mi sobbarco spese maggiori di quelle che possibilmente posso sostenere, devo fare in modo di andare incontro a un artista che mi offre la sua materia creativa. E questo deve fare lui con me.

Come disse un’etichetta che conoscevo: “non posso spedire niente, quindi eccoti le grafiche e produciti da solo i cdr”.

Una label che mi ha pubblicato di recente: “sono cdr semplici? Dammi la grafica via mail che ti risparmi questa spesa inutile”.

Qual è il problema? Il culto del DIY è anche questo, altrimenti è solo capitalismo mascherato da finto socialismo.

Io ho smesso di chiedere copie artista, perché capisco le spese. Sento la paura del produttore pronto a sobbarcarsi un gravame economico che lo costringerà a chiudere appena scoprirà che le entrate non superano mai le uscite.

Ricordo ancora poi il banchetto di quei miei amici che vendevano il proprio EP. Mi spiegavano quanto e come avevano investito in quel lavoro. Un album è sopratutto auto-produzione. Se ti aspetti la gloria giusto perché l’hai registrato, come neanche fossi la nuova scoperta della scena underground, semplicemente hai mischiato passione con accattonaggio. Per tutto il resto c’è Spotify.