Deliverance
Deliverance

Deliverance – Un romanzo tra avventura e gotico!

Deliverance è un libro di James Dickey, uscito nel 1970 e pubblicato in Italia con lo sciapo titolo Dove porta il fiume.

Conosco il film di John Boorman a memoria. Alla base di quasi tutto il cinema horror degli anni 70 e in particolare del filone Survivalism, inaugurato da Non aprite quella porta, c’è Deliverance, conosciuto da noi come Un tranquillo week-end di paura.

Il libro non è un mediocre best-seller che finito nelle mani di un grande cineasta è diventato un cultissimo del cinema. Si tratta di un romanzo di qualità, tradotto maluccio da Bruno Oddera per Mondadori, ma non abbastanza da impedire che me ne rendessi conto.

Deliverance il libro

Il romanzo per molti versi è più inquietante del film. Il confronto è quasi inevitabile ma vorrei ridurlo al minimo. Mi basta rimarcare che James Dickey inserisce spezie terrifiche prima del fattaccio. John Boorman al contrario ci serve la mattanza quasi a tradimento.

Sì, claro, accade qualcosa alla fine del duetto da antologia tra il ragazzo Down e Ronnie Cox (Drew). Questo pezzone di cinema è divenuto negli anni la sigla di un cazzo di spot pubblicitario. Ok, cose che capitano. Ma c’è un momento di imbarazzo tra la gente del posto e gli intrusi di città alla fine del duetto. La musica li unisce ai villici e il silenzio rimette tutti al proprio posto.

Nel romanzo invece i momenti cupi sono di più e vengono tutti dalla voce e la percettività dell’Io narrante Ed (nel film John Voight). Lui è una sorta di moderno eroe londoniano, ma piuttosto riluttante e polemico nei confronti della natura selvaggia e il richiamo della foresta. Risponderà al “richiamo della foresta”. Farà cose impensabili per il pubblicitario inquadrato e dilettantesco tiratore d’arco che è all’inizio. Non nasconde però di percepire strani segni ammonitori e sinistri.

Per esempio la scena di quando Ed deve spingersi nella sudicia officina di due fratelli giganteschi per incaricarli di condurre a valle le auto mentre lui e gli altri affrontano il fiume in canoa. “Non ne uscirete vivi” dice uno dei due bifolchi. Con quella frase il protagonista ci resta di merda. E noi con lui. Abbiamo un trasalimento.

Ed e Lewis

Il rapporto tra Ed e Lewis (Burt Reynolds nel film) è di una “fascinata amicizia”. Ed crede nell’amico e ammira, anche se criticandolo un po’, il superomismo e le menate sull’essere in grado di sopravvivere all’alba di una nuova era. Lewis crede davvero che il mondo sprofonderà in una specie di caos irreversibile.

Nel momento dell’incontro con i montanari Ed avverte un’istintività lasciva e becera che lo spaventa a morte. La frase sul non uscirne vivi gli fa stringere il culo. La natura che si veste da sera diventa poi una chiara metafora della nera signora. La natura selvaggia come la morte guarda affamata i quattro sempliciotti al suo cospetto.

“I luoghi cominciavano a risultare molto solitari e silenziosi. Ricordai che potevano spaventarmi e subito mi spaventai. Era la splendida impersonalità del posto a colpirmi più forte; non avrei mai creduto che potesse colpirmi tutto a un tratto in quel modo, o con tanta forza. Il silenzio e il suono-silenzio del fiume non avevano niente a che vedere con noi”.

Il richiamo di Jack London

In un certo senso è quello che scrive anche Jack London. La visione di Ed però è meno poetica e più fragile. Scrive il vecchio Jack: “Non è abitudine del mondo selvaggio amare il movimento. La vita lo offende poiché la vita è movimento… S’accanisce con incredibile ferocia contro l’uomo, tentando in ogni modo di sottometterlo e annientarlo, poiché l’uomo è la forma più inquieta di vita, sempre in rivolta contro l’ineluttabile destino che ogni movimento alla fine debba cessare”.

Le descrizioni ambientali del libro di Dickey sono molto più minacciose e romantiche rispetto a quelle che ci offre lo sguardo di Boorman. Nel libro siamo nei paraggi del gotico moderno. Specie durante la notte passata all’aperto, con gufi giganteschi che si posano sulla tenda e vi si appollaiano, incerti ma pronti a cantare la loro canzone.

E la musica, nel film come nel libro è fondamentale. Drew e la sua chitarra sembrano quasi tentare prima una fusione con la “folkitudine” dei paeselli isolati. Dopo invece ingaggiano una specie di lotta contro il pesante silenzio che opprime i protagonisti. La musica come il fuoco, serve a tener lontano, il buio angosciante che striscia intorno a loro dai vecchi rami e si riversa in loro. La fiamma respinge quello esterno e le note l’interno.

Deliverance è un romanzo d’inquietudine

L’inquietudine viene in realtà da dentro e non da fuori. Qui Dickey è bravo a farcelo notare. La foresta è un risuono dell’inconscia giungla tremenda del protagonista. C’è molta più ambiguità nell’Ed letterario che nel personaggio interpretato da Voight. Quello del film è più pacioccone e maschio beta.

Per dire, una volta che Bobby il ciccione ha subito violenza dai montanari, Ed confessa a se stesso un disprezzo per la passività con cui se l’è fatto fare. Rimugina sugli strani gemiti e ululati che ha emesso nel momento clou dello stupro il suo amico e li giudica.

Inoltre, quando pensa a un possibile inconveniente nel piano che elabora, per salvare il culo a tutti, finisce per inventarsene uno al volo per parare il culo a se stesso. Solo nel caso qualcosa vada storto. Il momento clou di questa oscurità interiore nel protagonista è quando inaspettatamente punta lui il fucile sui suoi amici. Esatto, dopo che ha impedito al montanaro di sparare loro finge di essere il nemico e immagina. Recupera l’arma e si trastulla a puntarla lui, dalla posizione in alto, sui due compagni che si danno alla fuga nel fiume.

Badate bene, li sta proteggendo, copre loro le spalle ma ipotizza di essere il carnefice che lui ha disinnescato. Nel caso non vi fosse riuscito, pensa mentre li tiene sotto tiro, sarebbero stati spacciati! E li disprezza, perché dopo tutto il culo che lui si è fatto, Bobby alla fine ha scelto il momento sbagliato per fuggire. Se il montanaro avesse avuto la meglio su Ed, anche gli altri due si sarebbero ritrovati nel fondo del lago.

La questione dei montanari ingroppaculi in Deliverance

Ciò che molti non realizzano a proposito di Un tranquillo week-end di paura/Deliverance è che la faccenda dei montanari ingroppaculi è solo un piccolo incasinamento di una situazione brutta già di suo. Con molta probabilità i protagonisti non avrebbero avuto la loro bella gita. La loro guida/leader Lewis, filtrata dalla fiducia incondizionata del protagonista, finisce per conquistare anche la nostra fiducia. I suoi muscoli guizzanti, che Ed osserva spesso ammirato (in modo quasi gay, direbbe Seth Putnam) ci ispirano protezione. Il bellimbusto però nella selva selvaggia non ci capisce un cazzo. Le rapide che attendono i vogatori di città sono forse peggio degli stupratori seriali delle montagne.

Ovvio, dopo aver chiuso il libro (e aver finito il film) quello che resta impresso è il sipario sodomita nel bosco. I due cacciatori sottopongono un povero turista a una rude cavalcata carnale. Ed nota che dal modo in cui la coppia di violentatori immobilizza lui all’albero, usando la sua stessa cinta, sembrano averlo fatto decine di altre volte. E probabilmente quei due sono dei serial killer, perché dopo una cosa del genere, c’è da aspettarsi il peggio. Anche se bisogna aggiungere che le vittime, essendo uomini etero-sessuali, forse non riescono a correre dalla polizia e denunciare l’accaduto. Si tratta della stessa omertosa vergogna che lo impedisce a tante donne.

L’esecuzione e le colpe dell’America

La scena di stupro fa seguito a una esecuzione. Lewis, l’eroe che arriva tardi, fa fuori uno dei due stupratori piantandogli una freccia in mezzo alla schiena. Sia il film che il libro mostrano la morte in modo estremamente dilatato. Non è come gli innumerevoli cowboy colpiti dalle frecce degli indiani, sui film di John Ford. Qui si muore con calma. Il montanaro si accascia al rallentatore e anche dopo che è in terra, sembra avere lo sguardo cosciente.

Poco prima, Ed stava per fare la stessa cosa a un giovane cervo. Lo manca non si sa bene se per incapacità o per tenerezza verso il Bambi, ma l’animale scappa ed è salvo. Poco dopo vediamo la freccia fare il proprio lavoro su un uomo. Per il protagonista la morte ha tutto un altro senso ma in fondo è la stessa, vista dagli occhi della morte. Anziché il cerbiatto, lei esce dalla foresta e si piglia prima il montanaro, poi Drew e infine l’altro montanaro. Tre corpi che non saranno mai portati alle autorità ma occultati in quel territorio selvatico. Questo con la speranza che la diga, una volta inaugurata, sommerga la zona fino alle cime degli alberi di acqua.

Il libro negli anni 70 ha avuto successo (e ancor più il film) perché è una metafora perfetta della politica estera americana: fanno i casini e nascondono i cadaveri. Quindi vai di Vietnam. Ma oggi Deliverance è soprattutto un romanzo d’avventura dal sapore quasi horror.

Il ritorno dell’uomo peloso

Ed trova per magia nel proprio bagaglio genetico, la capacità di sopravvivere. Uccide, si arrampica, affronta il fiume e le sue insidie tremende. Non è come il protagonista di Into The Wild.  

Il protagonista di Deliverance è felice nella natura incontaminata ma odia dover tornare a quello stadio primitivo che London descrive in modo molto significativo in  Il richiamo della foresta.

Leggete qui cosa diceva il vecchio Jack: “quell’uomo peloso che dormiva accanto al fuoco, la testa fra le ginocchia e le mani raccolte su di essa. Quel sonno era irrequieto, pieno di sussulti e di risvegli, durante i quali egli spiava pauroso l’oscurità e gettava altra legna sul fuoco. Se camminava lungo le rive del mare, dove l’uomo raccoglieva i molluschi e li divorava, i suoi occhi si volgevano dappertutto cercando pericoli nascosti, e le sue gambe erano pronte a correre come il vento al loro primo apparire”.

Dickey in Deliverance realizza una versione aggiornata di quello stesso uomo londoniano, tornato alla natura dalla sua coltre protetta di modernità, drive-in, ristoranti, negozi e vita domestica. Ma caro gli costa a quell’uomo il ritorno alle origini. I quattro guasconi di città vorrebbero assaggiare un po’ di avventura a buon mercato, e invece pagano un conto salatissimo.