Prologo
Quanti metallari hanno mai pensato che qualche pezzo da classifica sentito per caso in radio potrebbe suonare bene in versione heavy metal? Probabilmente tutti. Quanti metallari hanno mai pensato di scrivere un intero articolo su ’sta roba? No, quello solo noi di Sdangher.
Bisogna intenderci però, giacché il confine tra heavy metal e rock è assai labile, le aree intermedie sono porose, e niente è più noioso che disquisire sul tema “i Tesla sono metal e i Black Crowes no perché non hanno le chitarre doppiate”. Affinché il gioco non risulti prevedibile è necessario quindi allontanarsi dal rock e dalle chitarre distorte.
Ma attenzione, perché anche nel grande mondo del pop possiamo imbatterci in aree ormai considerate geneticamente affini al metal. In particolare il pop anni ’80, l’area post-new wave ed electro che, a dirla tutta, all’epoca era l’esatto contrario del metal coevo ma tant’è, a partire da metà anni ’90 gli scaffali si sono riempiti di gruppi gothic metal che riarrangiavano i Depeche Mode coi chitarroni e la cover di You Spin Me Round dei Dead Or Alive non se la faceva mancare nessuno. Quindi niente Sweet Dreams degli Eurythmics, niente Planet Earth dei Duran Duran, niente Two Tribes dei Frankie Goes To Hollywood, niente Shout dei Tears For Fears. Niente roba da violoncellista in latex a gambe aperte sulla copertina di vecchi porcelloni tedeschi, insomma.
Per fare una cosa sorprendente e degna di Sdangher dobbiamo andare su qualcosa di più abbrutente; quindi facciamo rotta sulla musica del nostro paese.
«Rock italiano. La coppia di parole più tremenda dell’universo. Perché il rock è una cosa grandissima, è il motivo numero uno che mi fa alzare dal letto la mattina, e anche “italiano” è un aggettivo che di suo non aggiunge e non toglie niente. Ma messi insieme, “rock” e “italiano”, diventano una roba spaventosa che solo a pensarci mi sento affogare in una vasca di concime».
Così, in modo un po’ tranchant ma non lontano dal vero, scrive Fabio Genovesi in Esche vive (2011). Ma non abbiate paura, non è certo mia intenzione farvi perdere tempo coi Negrita o con Pelù che canta SEI SEI SUUUUEEEIIIIII!!!
La regola niente chitarre distorte vige anche qua, quindi non valgono Urna o Omosessualità di Elio e Le Storie Tese, non vale il riff di Eptadone degli Skiantos che sì, lo sappiamo, è uscito prima di quello di Heavy Metal Thunder dei Saxon.
Quando un gruppo col background metallaro ebbe l’occasione di espugnare Sanremo del resto si mise a fare uno scadentissimo rock italiano, quindi tanto vale mantenere separati i due mondi e cercare il corto circuito tra heavy metal e… il pop melodico mainstream italiano. Roba da denuncia, ne convengo.
Signore e signori, siete pronti per un viaggio agli antipodi della buona musica e del buon giornalismo? Ecco il pezzo che mi farà togliere l’amicizia su facebook dalle più stimate firme della stampa metal tricolore, ecco il delirante, divagante, disturbante, deragliante…
Canzoni non metal che sono metal (the italian Files)
Forse però è il caso di chiarire preventivamente cosa si intende qui con l’essere metal in assenza dichiarata di metal: fondamentalmente serve un certo tiro di base, quindi ritmica sostenuta, suoni cromati, se possibile vocals high-pitched, testi oltre la giusta misura e ai confini col ridicolo. In generale un’enfasi eccessiva e degna di miglior causa. Insomma, tutto ciò che caratterizza Rock You To Hell dei Grim Reaper.
Per assicurarsi di far comprendere al meglio cominciamo con un pezzo facile, già in tempi diversi trasposto in chiave spaghetti-power dai Labyrinth e in chiave Guano Apes dal gruppo del figliolo di Galliani. Si sarebbero potute citare canzoni precedenti, tipo Nel Ghetto di Radius, E Io Ci Sto di Rino Gaetano (più alla Toto, però), il klausbyroniano Faust’O, qualcosa di Fortis o di Battiato, ma ‘sto pezzo è proprio quintessenziale già a partire dall’anno in cui esce: 1985, al centro del decennio dorato metallico e quello in cui si registra The Murderess Metal Road Show dei Lizzy Borden, non so se rendo l’idea.
Ascoltate le parole: un brivido lungo la schiena, un colpo che fa pieno centro, bellissima statua sommersa, Atlantide isola persa, la sabbia che vuole accecarmi, nell’aria un amore selvaggio. Analogie sfrenate ed evocazioni fuori scala di un sublime spontaneamente kitsch: ovvero, il metal.
Guardate il video: Antonella Ruggiero con una cotonatura che nemmeno Steve Grimmett sale a ottave siderali mentre sullo sfondo la band accenna un headbanging e il batterista alza in aria le bacchette.
Fermatevi a 3.32: quello è il momento in cui la buona regola di una canzone sanremese imporrebbe uno smorzamento, un abbassamento di tono. Invece no: siamo alla fine del pezzo ma il combinato voce-chitarra erompe per un ultimo innalzamento enfatico che squarcia definitivamente il quadro pop per affacciarsi nel cosmo metallico.
I Matia Bazar hanno sempre avuto uno statuto incerto nella storia della nostra musica leggera: le vette tardo-prog di Cavallo Bianco e gli abissi di Mister Mandarino, l’obliquo pop postmoderno di Vacanze romane e storiacce di indagini per giri di corruzione a Sanremo. Questa canzone non so come viene considerata dalla critica che conta: probabilmente tronfia, troppo pacchiana, troppo metallara. Quindi perfetta per noi.
Disco in cui sarebbe potuta comparire: Labyrinth, Return To Heaven Denied (il miglior disco di una delle peggiori scene, quella del power-prog italiano fine anni ’90)
Edoardo Bennato, Ok Italia (1987)
Il criterio dell’ordine cronologico ci pone subito di fronte a un’inclusione tra le più difficili da giustificare: intanto perché ci sono le chitarrine distorte, seppur esili come in una versione da poveracci di Huey Lewis; poi perché il gracile pezzo più che metal sembra proprio un perfetto esempio di finto rock anniottanta, con annesso il solo di sax d’ordinanza.
Ma vediamo di contestualizzare: Edoardo Bennato, che negli anni settanta aveva prodotto canzoni di buon livello e veramente rockeggianti, sta attraversando la fase più risolutamente commerciale della sua carriera, quella che un paio d’anni dopo culminerà nel mefitico hit Viva la mamma e in Notti magicheee/inseguendo un goool. Un periodo economicamente fortunato per lui, ma suppongo da lui stesso rinnegato (termine bennatiano) se in un concerto che vidi in piazza un paio d’anni fa l’ha completamente ignorato.
Ok Italia è un tipico esemplare di canzone che vorrebbe essere di denuncia o satira sociale, pur presentandosi formalmente aderente a ciò che si intende criticare. Ma di certo – dicono i cantanti – chi ascolta saprà cogliere il grado ironico sottostante anche se poi invece no, a dire il vero il grande pubblico non lo coglie e apprezza la canzone per quello che comunica a livello epidermico. Quindi il puntuto messaggio di critica sociale del cantante è andato a vuoto, però intanto il cantante si è fatto i soldi con le vendite. A chi non ha capito il suddetto messaggio di critica sociale peggio per illo. E che ci può fare lui se non viene compreso insomma, alla fine “io faccio solo il cantante”, dice, “mica sono un politico”.
Grande interprete di questa forma di paraculaggine è Caparezza, che si arrabbiava se in discoteca ballavano al ritmo acchiappone di Fuori Dal Tunnel, che – hey! – era in realtà una critica all’industria del divertimento e che riteneva la taranta-hipster di Vieni A Ballare In Puglia il modo più adeguato per parlare di Ilva e tumori.
Ma sto divagando. In un video pieno zeppo di fica, lustrini e luci al neon, Bennato vuol sfottere l’illusione di grandezza dell’Italia di quell’epoca, coi politici arraffoni raffigurati con le maschere disegnate da Forattini. Ma ciò che immediatamente si percepiva era un’apologia anziché una denuncia del fatuo edonismo craxiano (sintagma derivante dai giornali del gruppo Espresso periodo ’91-’93), e figuriamoci oggi che quei tempi di quinta potenza industriale del mondo ci sembrano un eldorado irripetibile. Il pezzo è quello che appare, quando invece vorrebbe essere l’opposto della sua apparenza.
Cosa c’entra tutto questo col metal? Beh, caratteristica non secondaria del metal da alta classifica di quegli anni era l’insincerità. L’insincerità di Bennato che nel video recita un ruolo tra il finto annoiato e il finto ribelle, con quelle chitarrine che vorrebbero venir fuori ma devono restare basse perché in radio non usavano, è la stessa di tutti quei gruppi metal che entravano nei giri dei grandi produttori e iniziavano a farsi scrivere le hit da Desmond Child o Diane Warren. Ok Italia è un non metal che sembra false metal (lo so che non riuscite a seguirmi nei miei contorcimenti logici, lo so). È come quel metal talmente levigato e iperprodotto che cessa di essere tale. È Shot In The Dark di Ozzy, è The Secret Of My Success dei Nightranger, è Unskinny Bop dei Poison. È un prodotto paradigmatico di quegli anni. Che anni, quegli anni…
Disco in cui sarebbe potuta comparire: Alice Cooper, Trash.
Antonello Venditti, 21 Modi Per Dirti Ti Amo
Qui niente discussioni: questo videoclip è tra le cose più metallare mai prodotte nel nostro disgraziato paese, e Venditti con gli occhialoni alla Mario Brega che a 3.24 punta il dito contro la camera gridando “In nome dell’amore io combatterò!!!” è più ‘tallo di Mark Shelton.
Musicalmente abbiamo: un intro di archi che forse vorrebbe evocare Eleanor Rigby ma che sembra più una roba dei Therion, anche perché a dirigere l’orchestrina c’è un beccamorto barbuto vestito di nero che sembra Paul Chain; un rotondo e melodico riff di synth come usava a quei tempi (tipo Domino Dancing dei Pet Shop Boys) che sembra pensato apposta per essere rifatto con le chitarre distorte; un ritmo sempre teso con bridge ben scandito che esplode in un ritornello parecchio aggressivo.
Il testo, basato su arcana numerologia sword & sorcery, verte intorno a una lettura bellica dell’amore tipo Search & Destroy degli Stooges, elemento esaltato dal questionabile video che traspone la rassicurante icona testaccina dell’Antonellone nazionale in un improbabile scenario vietnamita con citazioni da Apocalypse Now e Il cacciatore. Un Venditti che nel video è sempre metallicamente truce e incazzato come quando faceva i sermoni politici da Santoro. Completa lo scenario la figura di una ragazza con la pistola dal look tipicamente video tardo-hair metal.
Non so perché Venditti se ne uscì con una roba di questo genere: un po’ come per Bennato, stiamo parlando di un rispettabile cantautore dei Settanta (Sotto Il Segno Dei Pesci è una delle canzoni italiane più belle) che a fine ottanta sta garantendosi la pensione con la standardizzazione radiofonica di In Questo Mondo Di Ladri. A quanto pare, accanto al qualunquismo pre-grillino della title track e a Ricordati Di Me, rinomato stock di citazioni profonde da mettere qualche decennio dopo sotto le foto dei culi di Instagram, nel mainstream italiano dell’epoca ci stava come terzo singolo questo buffo esemplare di overproduced slick rock internazionale che per qualche strana congiunzione astrale ha assunto veste latamente war metal.
Disco in cui sarebbe potuta comparire: Bolt Thrower, War Master.
Vasco Rossi, Gli Spari Sopra (1992)
Va bene, va bene, avevo detto niente chitarre distorte ma per questa serve una deroga perché è di una tale metallicità che non si può sottacere. Intanto va premesso che i metallari italiani si suddividono in due categorie: quelli che apprezzano Vasco e quelli che non hanno senso dell’umorismo.
Il bistrattato rocker di Zocca è infatti il personaggio del mainstream italiano che più di tutti e a più riprese ha flirtato con suoni, stile ed estetica metallara. Non sarà necessario rammemorare qui Sono Ancora In Coma, il rip-off di Living After Midnight in Dimentichiamoci Questa Città, il punk incendiario di Asilo Republic, per limitarci ai primi e più felici anni di carriera.
Parliamo invece del dicembre 1992, all’uscita di questo singolo. L’heavy metal nel mondo è in caduta libera, ma in Italia, per una consueta dinamica da periferia dell’impero, sta trovando insospettati punti d’aggancio nel mainstream. Heavy metal in forma liofilizzata come quella del Black Album, certo, che si confonde con un generico tardo-ribellismo rock. Sono gli anni di El Diablo e Terremoto dei Litfiba, di 2020 Speedball dei Timoria, degli album rock di Enrico Ruggeri che va in giro col chiodo, ma anche del personaggio Lorenzo di Corrado Guzzanti, camicia di flanella e t-shirt di Iron Maiden o Metallica. C’era poi anche Il Popolo Rock dei Tazenda che avrebbe tutte le carte in regola per far parte della nostra rubrica di freak, ma che è già stata esaurientemente riesumata da Orrore a 33 giri.
In questo contesto il Blasco che fa? Se ne esce con un combinato pezzo-testo-video che è tra le cose più tamarre (e perciò stesso metallare) che siano mai state concepite. I primi trenta secondi del video paiono Terminator 2: grattacieli losangeleni sfocati nella livida luce del tramonto e schitarrate thrash che sferragliano in sottofondo. Poi parte il celebre giro di basso alla Ace Of Spades che si scoprirà introdurre una cover badass del rock psichedelico Celebrate degli An Emotional Fish, magistralmente guidata dalla chitarra di Maurizio Solieri, simpatico metallarone di provincia che in quel periodo perorava la nostra causa nei dibattitti su Videomusic dicendo che lui andava ogni anno al Monsters Of Rock trovandovi pace, amicizia e buona musica mentre il problema dell’ecstasy nelle discoteche derivava dal fatto che il tunz tunz della techno era talmente noioso che per sopportarlo era necessario impasticcarsi.
L’estetica da metallaro di strapaese s’impossessa in questo videoclip anche dello stesso Vasco, fresco quarantenne con aspetto da rockstar consumata dagli eccessi. Dentatura in dubbio stato di conservazione, occhi spiritati, preoccupante stempiatura stentatamente occultata da bandana, lo seguiamo nella vestizione in denim & leather mentre spalanca a calci porte di ferro, letteralmente ruggisce alla telecamera (1.56) e si staglia sullo sfondo di carceri in fiamme, mentre minaccia che se si girano gli eserciti e spariscono gli eroi, che se poi la guerra adesso cominciamo a farla noi…. intanto scorrono immagini del pestaggio di Rodney King e della rivolta di Los Angeles. Un ribellismo estetizzato, artefatto, pacchiano, perciò meravigliosamente metal.
Ah, la scena più iconica del video è a 2.51, Vasco in piedi sul tetto con l’elicottero che si alza dietro di lui. Vi dico già che la metterò come immagine del profilo su facebook il giorno – ovviamente si spera il più lontano possibile – in cui Vasco ci lascerà.
Disco in cui sarebbe potuta comparire: Megadeth, Countdown To Extinction (perché coeva e per i temi politici).
Raf, Il battito animale (1993)
Questa è invece un’occasione mancata di essere metal perché – lo dico subito – non lo è, e stavolta non provo a convincervi del contrario. Ed è anche una canzone singolarmente brutta. Mi è venuta in mente perché ricordo una curiosa intervista situazionista su una rivista specializzata dell’epoca (credo fosse Metal Shock) in cui si chiedeva ad alcuni gruppi italiani se in cambio di tanti soldi avrebbero acconsentito a pubblicare una versione metal del Battito Animale, che in quell’anno era stato uno dei maggiori successi in Italia. In mezzo a una serie di rifiuti sdegnati, i magnifici Tossic rispondevano giustamente che non ci avrebbero pensato due volte e che cazzo gliene fregava a loro di una supposta etica o coerenza metallara.
Non so perché il giornalista avesse pensato proprio a quel pezzo per la brillante provocazione, però alcuni passi del testo in effetti lascerebbero margine a una lettura metal, come emergerà dal seguente dibattito immaginario:
Raf: Il battito animale che batte come un martello pneumatico, il tiro micidiale [manco fosse Reign In Blood] che ti prende e ti porta via con sé, no che non smette di picchiare fino a quando non sarà il tuo battito normale…
Io: Wow, a leggerlo così mi esalta.
Raf: Batte più forte, batte fino alla morte, batte ogni volta che suono con la mia band…
Io: Vai, allora vi ascolto!
Raf: A volte batte nella musica pop…
Io: No aspetta, come nella musica pop? Ma come Raffaele Riefoli in arte Raf, perché tutto ‘sto bendiddio di martelli pneumatici morte e tiro micidiale batterebbe nella zuccherosa musica pop?
Raf: Batte e ribatte che sa di tribale.
Io: Ah, ho capito, forse ti riferisci a un po’ di world music addomesticata, Youssou ‘N Dour, roba così. Immagino tu ancora non sappia che di lì a qualche mese uscirà Kaiowas, vero? Sì, in effetti il videoclip ha un’estetica tribal-esotica con ambientazione simile ai video dei Duran Duran periodo Rio però virata color seppia alla Sade, più sobria, più anni novanta, più politicamente corretta e meno imperialisticamente orientalista. Il suono è blandamente black, pop screziato di R&B ripulito per il Festivalbar. Niente da fare Raf, amici come prima ma qui di metal neanche l’ombra.
Già che tanto ci separiamo colgo però l’occasione di chiederti: il battito sano/ che ci prende la mano/ come una moto che va/che va controvento in velocità/è un rischio si sa. Perché quell’”è un rischio” e soprattutto quel più che superfluo “si sa”? Esigenze di metrica e di rima? Non senti come suona insopportabilmente filisteo? Così mi rovini Easy Rider.
In un gustosissimo articolo di qualche anno fa, Francesco Farabegoli ipotizzava che Raf in quegli anni fosse un ottimo autore di canzoni massacrato dal pessimo standard produttivo nazionale. Non so, ad ascoltare qualche canzone come il primevo italo-disco di Self Control o la molto bella L’Infinito sì, gli va riconosciuta qualche qualità. Ma non quella di essere metal inconsapevole.
Disco in cui sarebbe potuta comparire: Sepultura, Roots (seee, col cazzo).
Orbene, i venticinque lettori che mi hanno seguito fin qui saranno ormai sazi di paradossi e layer di ironia post-postmoderna, quindi è il momento di interromperci e darvi appuntamento al prossimo episodio di canzoni non metal che sono metal (the italian files).
Incontreremo Pezzali, Pausini, Antonacci, Nek e altri mostri. Il suono si fa sempre più morbido, il gioco sempre più duro.