SLIPKNOT – We Are Not Your Kind (Roadrunner)
– Pipponcino storicizzante per introdurre gli Slipknot in modo solo apparentemente oggettivo:
Nonostante la persistenza di hater e detrattori, i numeri dicono che gli Slipknot sono uno dei pochissimi gruppi metal a essere diventati veramente grandi nel nuovo millennio. L’ascesa allo status di classici si colloca nel periodo di Subliminal Verses e All Hope Is Gone, due ottimi lavori di metal variegato il giusto per compiacere tutte o quasi le tipologie di ascoltatori del genere, che si erano precedentemente polarizzate sull’esplosivo ma divisivo esordio, mentre il pur creativamente meno brillante Iowa era servito a guadagnare street cred grazie alla sua impostazione più estrema.
Le successive dipartite di Jordison, Gray e da ultimo Fehn hanno tuttavia destabilizzato più del preventivabile il gruppo, che negli ultimi dieci anni ha pubblicato solo il poco brillante Gray Chapter, facendosi notare meno per la musica che per l’esposizione mediatica del tuttologo Corey Taylor, bersaglio prediletto di quel magnifico covo di troll che è la pagina facebook di Blabbermouth.net.
– Contestualizzazione del disco recensito nella carriera del suddetto gruppo:
Ma ormai per loro fortuna gli Slipknot avevano già raggiunto il ristretto club di gruppi che quando fanno un disco nuovo prima lo si compra (o si scarica), poi nel caso lo si critica e se ne resta delusi. Questo da parte degli ascoltatori, mentre i giornalisti accoglieranno ogni nuovo album con grandi acclamazioni, salvo poi parlarne male quando uscirà il successivo, anch’esso accolto con grandi acclamazioni e comparato in positivo rispetto al precedente che in effetti ripensandoci non era un granché ma stavolta fidatevi è il loro miglior disco dai tempi di [inserire nome di classico di inizio carriera] e così via di volta in volta.
We Are Not Your Kind è infatti acclamatissimo dalla stampa internazionale, definito molto superiore a The Gray Chapter che… ehm, anche quello era stato acclamatissimo infatti.
Ma vabbè, qui su Sdangher che si dice, invece? In sintesi: è vero, il disco nuovo è bello, mentre quello prima era bruttino. Ma non è bello come quelli prima ancora. Diciamo subito che se fossimo su metal shock gli darei quattro pipistrellini, via.
– Analisi stilistica generale del disco:
Entrando più nel dettaglio, quali sono le caratteristiche di We Are Not Your Kind? Intanto è un po’ più heavy del precedente, disco nel quale troppe volte si finiva per confondere ‘Knot e Stone Sour. Stavolta anche i pezzi che partono come ballad o melodici (A Liar’s Funeral e Not Long For This World), così come i singoli più orecchiabili (Unsainted o Critical Darling) rivelano in corso d’opera insospettate spigolosità.
Non siamo ai tentativi oltranzisti di Iowa, ma hit levigate tipo Before I Forget o Dead Memories qui non ci sono, ballatone strappamutande goth di pizzo nero come Vermilion pt. 2 e Snuff nemmeno. Il fatto che le melodie del disco non siano fortissime pare in qualche modo essere una scelta, così come una scelta è certamente la rinuncia alle parti di chitarra soliste che avevano fatto capolino nei loro dischi dello scorso decennio. Ciò ha probabilmente a che fare con quello che mi sembra essere un parziale ritorno alle origini extreme-nu metal, evidente soprattutto in uno dei pezzi di punta del disco, Nero Forte, in cui il riffing circolare è versione vitaminizzata dei Korn e il cantato di Taylor ha tratti davisiani come non accadeva dai tempi del debutto.
Ulteriore caratteristica del lavoro è quella di essere troppo lungo; elemento del resto comune anche a tutti gli altri loro dischi e a ben vedere a un po’ tutti i dischi dei gruppi metal più in vista degli ultimi venticinque anni.
Per fornire un piccolo contributo alla lotta contro questo annoso problema seguirà quindi una cernita tra pezzi buoni e meno buoni del disco, in forma fittiziamente dialogica di servizio direttamente rivolto da Sdangher a Taylor e compagni per rendere più equilibrati e compatti i loro album.
– Una specie di track by track per separare il grano dal loglio:
Dunque cari Slipknot, il vostro disco è troppo lungo, quindi cominciamo a eliminare i tre intermezzi atmosferici che servono solo ad allungare il brodo. Attenzione però, non è che doveva essere per forza così, perché in passato le intro di (sic) e Gematria avevano creato un gran bell’effetto in apertura. Sfortunamente qui non avviene lo stesso con Insert Coin, così come non dicono un cazzo Death Because Of Death e What’s Next.
Cancelliamo poi le altre canzoni atmosferiche: soprattutto My Pain, oltre sei minuti di rimuginazioni di Taylor. Amico, non ce ne frega niente dei tuoi malesseri e delle dissonanzine dei tuoi chitarristi, ché già ci aveva rotto le palle Robb Flynn l’anno scorso con quel disco emo-thrash. Post-Metal confessionale va bene se è Daddy dei Korn, altrimenti no. No anche a Spiders, che chissà perché con quel titolo tutti, vedi anche Ozzy in Bark At The Moon, si sentono in dovere di fare roba un po’ liquida, zampettante, proliferante. Ok è chiaro, volete dare l’impressione di una torma di ragni che ti ricopre il viso e ti entra nel cervello da naso e altri orifizi, ma non funziona, capito?
Bene, già da 63 minuti siamo scesi sotto i 50, ora basta togliere quei minuti di inutile effettistica in coda a Critical Darling e Not Long For This World e siamo arrivati alla durata che il 95% degli album non dovrebbe superare.
Finalmente possiamo passare a descrivere un bel disco compatto e tirato di nove canzoni tutte sotto i sei minuti, aperto da uno dei potenziali singoloni: Unsainted, introdotta da cori trionfali alla Bloodstone & Diamonds dei Machine Head. È una canzone veloce e pesante, ma con quel coro virale I’ve never killed myself to kill my sooouuuul che già lo vedo al sing-along ( ma la cosa migliore è il break thrash a 3.22). Segue Birth Of The Cruel, uno di quei pezzi gregari tipo la vecchia Sulfur, non particolarmente ispirati ma che hanno la funzione di tenere alto il ritmo tra un highlight e altro (dello stesso tipo nel disco c’è anche Red Flag).
I successivi instant-classic sono infatti la già citata Nero Forte, che vince il premio per il miglior impatto iniziale ma è a mio gusto parzialmente rovinata da un coro in pulito posticcio alla Five Finger Death Punch del quale non si sentiva il bisogno. Buono invece l’uso della melodia in Critical Darling, che ricorda le cose migliori del disco precedente. Ancor più buono quando, come in The Orphan, non serve ricorrere alla melodia per piantare nel coro un hook come si deve; trattasi di pezzo groove thrash un po’ stilizzato ma costruito magistralmente.
Di A Liar’s Funeral (belli certi arpeggi acustici alla Metallica) e Not Long For This World si è già detto: abbastanza orecchiabili e costruite in modo non banale, anche se personalmente non mi emozionano molto. Mi emoziona invece quello che dopo un po’ di ascolti finisce per risultare il pezzo di maggior spessore del disco degli Slipknot, la conclusiva Solway Firth, che parte in chiaroscuro ma progressivamente cresce con Taylor ai massimi storici di espressività in un’avvincente alternanza tra midtempo e staffilate slayeriane (i migliori Slipknot sono quelli slayeriani, ricordiamolo).
– Bilancio finale per chi non ha voglia di leggere tutto il resto:
Più che col disco precedente e nonostante le loro vicissitudini extramusicali, gli Slipknot si dimostrano maturi abbastanza per rivestire senza defaillances il ruolo di leader della scena che in passato si sono costruiti grazie a dischi che certo avevano maggiore urgenza espressiva e facilità compositiva di questo.
Tuttavia We Are Not Your Kind non è disco declinante, al contrario è lavoro consacratorio allo status di venerati maestri. Per quel che mi riguarda mi fa venir voglia di riascoltarlo più volte, e vi assicuro che alla mia età non è poco.