Così muore il cinecomic, sotto scroscianti applausi. Gli applausi del pubblico, che decreta il successo mondiale al botteghino di un kolossal come Avengers: Endgame, ma anche quelli della critica e della giuria di Venezia 76 che premia con uno dei più prestigiosi premi internazionali, l’agognato Leone d’oro, il Joker di Todd Philips. In entrambi i casi l’affermazione sembra paradossale. Dal punto di vista economico e mediatico, il ‘genere’ cinecomic – e se sia un genere, è tutto da stabilire – è più vivo che mai. Non però, dal punto di vista teoretico e concettuale. Sia chiara, per l’appunto, la natura teoretica della nostra affermazione. Film tratti dai fumetti se ne continueranno a fare, con particolare prevalenza della tematica super-eroistica e continueranno probabilmente a incassare bene e a ottenere successi per altri venti o trent’anni, se non di più.
Ma è da considerare invece il termine ‘cinecomic’ nel suo concetto intrinseco di ‘film tratto da un fumetto’. Il Joker di Philips, per esempio, non lo è affatto. In maniera radicale. Non perché se ne discosti. Non li prende proprio in considerazione. Forte anche della ‘scusante’ circa il passato enigmatico e poco definito del personaggio protagonista – eppure abbastanza definito, per i lettori di fumetti, da capire che quello che vediamo nella premiata pellicola con il Joker dei fumetti non ha niente a che vedere – costruisce una storia drammatica del tutto autonoma, che avrebbe potuto essere tranquillamente venduta – e qui sta il punto – con qualsiasi altro titolo, se non fosse per alcuni labili riferimenti al complesso narrativo batmaniano (il nome della città, Gotham, e il richiamo alla famiglia Wayne) che non hanno forte rilevanza sulla vicenda narrata.
Joker il film
Il film, gradevole da vedere e sorretto da una grande prova del protagonista Joaquin Phoenix, è piuttosto fortemente debitore del cinema di Martin Scorsese (che produce ed è, in qualche modo, la mente dietro alla costruzione intera del progetto). I richiami a Re per una notte e Taxi Driver, in particolare, sono talmente forti che si può quasi parlare di un remake misto dei due capolavori in questione.
Joker è un film derivativo, e questo basterebbe a mettere in discussione il suo stesso status di potenziale capolavoro, ma la premiazione a Venezia è comunque importante, proprio in quanto si tratta – per come è venduta e comunicata l’intera faccenda – del primo film tratto da un fumetto premiato a un festival internazionale.
Solo che non è vero. Si pensi alla Palma d’oro data a La vita di Adèle, tratto dal fumetto Il blu è un colore caldo, a Cannes nel 2013 (con il precedente di Persepolis, premio della giuria nel 2007, anche se si trattava di un caso ancora più specifico in quanto film d’animazione). Quindi, bisogna definire innanzitutto il concetto di ‘cinecomic’, e prendere per buona la generica percezione, sebbene errata, che ‘cinecomic’ sia per il pubblico soprattutto sinonimo di film di supereroi (e ancora di più, oggi, di film di supereroi Marvel).
In Joker niente super e niente eroi
Ma anche questo, rispetto al Joker, regge poco. Perché non ci sono ‘super’ e non ci sono ‘eroi’. Perfino il villain compare solo alla fine. Si tratta soprattutto della storia di un uomo, che una serie di circostanze portano alla follia. Ma non è come in The Killing Joke, la storica graphic novel di Alan Moore dove si delineava che per fare impazzire un uomo basta una giornata storta. No. Sebbene la citazione venga puntualmente sciorinata, qui non si tratta di una giornata.
Il problema Arthur Fleck – chiunque egli sia. Nei fumetti la vulgata vuole che il nome del Joker sia Jack Napier, ma nessuno ne è poi così sicuro – è la sua maledetta vita. Solo come un cane, con una mamma disabile e mentalmente instabile a carico, è affetto da una malattia psichiatrica che lo costringere a esplodere in inquietanti risate anche quando non c’è niente da ridere. E’ un tipo parecchio strano, che soffre, e questo non gli conferisce poteri speciali come, ad esempio, al Kevin Wendell di Split e Glass. Lo rende solo un reietto, unitamente alla condizione di comico fallito che lo accompagna. A margine, questo personaggio del villain batmaniano non ha neanche l’aspetto, né ne conserva il concetto di fondo.
Il clown mimo
Il vestito, quello iconico, è diverso. Rosso piuttosto che viola. Il trucco è diverso. Il Joker non indossa un naso da clown. Anche perché, se non per elaborati processi di associazione, il Joker non è un clown. Né un mimo. Fleck, invece, si comporta spesso da mimo nel film. Il Joker è il buffone delle carte, il Jolly, l’anarchia, l’imprevedibile. Tutt’altra categoria. Tanto che nel Batman di Tim Burton, il Joker di Nicholson si truccava da mimo in un momento in cui non voleva farsi riconoscere. E, per quel paradosso ironico che è possibile solo attraverso il filtro dello schermo e della sospensione dell’incredulità, nessuno, nel film, lo riconosceva. Ma noi spettatori sì. Questo Joker non ha questa raffinatezza. Non può. Non è una fine mente criminale. Né è un agente del Caos, come in Nolan, ma una sua vittima. Insomma, per farla breve, è un Joker. Ma non è Il Joker.
Ma quello che interessa, per chiudere il cerchio, è la reazione del pubblico, che mostra di approvare questo ‘slegarsi’ totale dal materiale di origine per seguire strade del tutto nuove. Si può considerare la cosa da un punto di vista artistico o prettamente commerciale. Se la si vede sotto la prima luce, è chiaramente ampio spazio per il regista e la sua visione. Se la si vede sotto il secondo, ricorda tanto quei videogiochi degli anni ’90. Quelli che venivano costruiti senza una particolare direzione di brand e a cui era poi affibbiato un titolo ‘forte’ legato a qualche film in uscita, solo perché la software house ne aveva acquisito i diritti. Ad esempio, Turrican 2, nato su Amiga, che nelle versioni per console si chiamava Universal Soldier, come il film con Jean-Claude Van Damme.
Ci rifletteremo un giorno, come dovremo anche riflettere sul motivo che spinge un pubblico sostanzialmente non interessato ai fumetti – i dati dicono che mentre i supereroi diventano popolarissimi grazie a cinema e serie tv, le vendite dei comic book non aumentano e anzi risultano in calo – a stravedere per film che con i fumetti hanno poco a che spartire ma che portano il ‘nome’ di quei personaggi e di quei brand.
Estendiamo le riflessioni.
Se fino a poco tempo fa i film Marvel-Disney mantenevano nel titolo un riferimento diretto a una specifica ‘run’ fumettistica – Age of Ultron, Civil War, Infinity War e perfino Homecoming, che era la prima storia dell’Uomo Ragno di ritorno dalle Guerre Segrete con indosso il costume nero simbiotico destinato a diventare Venom – salvo poi ribaltare e rimescolare del tutto gli eventi, senza tenere conto della trama originale, oggi i titoli dei film annunciati per la successiva fase dell’universo Marvel cinematografico non offrono al lettore tradizionale di fumetti nemmeno questa concessione, preferendo soluzioni indipendenti e originali come Love and Thunder o Multiverse of Madness.
Se fino a qualche anno fa il pubblico di riferimento restava comunque quello dei lettori di fumetti, con il tentativo di espanderlo tramite la presenza di attori particolarmente graditi ad altre fasce (ad esempio Chris Evans e Tom Hiddleston, molto apprezzati dal pubblico femminile) oppure di registi portatori di una ‘firma’ che potesse attrarre la critica (Tim Burton, Sam Raimi, Ang Lee o, per fare un esempio ‘interno’ all’era Marvel-Disney, Kenneth Branagh) oggi la gran parte di coloro che riempiono le sale di un film di supereroi non solo non sono particolarmente interessati ai fumetti, ma anzi li rifuggono, magari poco vogliosi di recuperare anni e anni di storie pregresse.
Ovviamente, è un diritto dello spettatore poter seguire un film senza conoscere i fumetti, ma se fino a pochi anni fa sarebbe stato assurdo dichiararsi un ‘Marvel fan’ senza aver mai aperto un fumetto Marvel, oggi la cosa è di ordinaria amministrazione, diffusa, accettata e spesso anche motivo di orgoglio, come se il riferirsi ai fumetti fosse una vecchia zavorra da cui liberarsi. Dunque, l’aderenza al fumetto è un problema che nemmeno si pone più, considerato anche il fatto che chi invece i fumetti li legge (una minoranza, stando anche ai dati di vendita che vengono diffusi) comunque tende a vedere ugualmente i film, o perché sinceramente aperto al cambiamento, oppure semplicemente per curiosità, abitudine o bisogno indotto.
Insomma, basta il marchio a far contenti tutti. Si rivendica sempre più spesso il diritto a svincolarsi dalla fonte, e si fa strada l’idea che il ‘vero’ universo Marvel (qualsiasi cosa significhi) sia da considerarsi oggi quello più popolare, ovvero quello del grande schermo, e i fumetti come un succedaneo. Il che ha un senso. E questo senso significa che i film non hanno più bisogno di appoggiarsi ai fumetti. Ovvero che al ‘cine’ non serve il ‘comic’. Quelle che vediamo al cinema sono storie parallele, con personaggi e situazioni che sempre più spesso somigliano solo blandamente alle controparti cartacee, riferendosi piuttosto agli elementi in grado di catturare più fasce di pubblico possibile (l’umorismo forsennato, la tecnologia, il romance e così via).
I labili confini del Cinecomic
Sono opere di grandissimo successo che portano alla popolarità la figura del supereroe, e per convenzione, dato che molti fumetti hanno per protagonisti i supereroi, si usa ‘cinecomic’ come sinonimo di film di supereroi. Ma il confine è labile. Se per essere tale, un cinecomic deve avere come base un fumetto, e se ci sono esempi di insindacabile appartenenza come l’estremo Watchmen di Zack Snyder, che ripete in maniera quasi pedissequa le inquadrature dell’opera di Alan Moore, vien da chiedersi se lo stesso si possa definire un cinecomic un Joker, o ad esempio, un Logan – debolissimi i punti di contatto con l’’Old Man Logan’ fumettistico al quale il film viene collegato – o tante altre analoghe pellicole.
E viene anche da chiedersi in virtù di cosa il ‘cinecomic’ costituisca genere, dato che nessuno chiama ‘cinelibro’ un film tratto da un romanzo e a nessuno è mai venuto in mente di chiamare ‘cinetoy’ il Transformers di Michael Bay. Si potrebbe in effetti dire che il cinecomic è un genere non solo morto, ma forse mai nato. Esiste invece, forte e chiaro, il film di supereroi. Sempre meno super e sempre più umanizzati, goffi, fallaci, sempre meno in maschera e costume, sempre più in borghese, sempre meno invincibili, sempre meno in ballo con i propri specifici poteri.
Al lettore di fumetti tradizionale è ancora concessa la citazione e la strizzata d’occhio. Non è fedeltà quanto piuttosto un ‘pagare pegno’, sempre e regolarmente posizionato in modo marginale (per esempio nelle scene dopo i titoli di coda, o in qualche inquadratura dispersa all’interno del film) in modo da non disturbare lo spettatore generic, che rappresenta l’obiettivo da raggiungere, e che fa il grande successo di questo genere di film. Il cinecomic è morto nel momento in cui il legame – e il rapporto di necessità – tra cinema e fumetto è venuto meno.
Joker non fa che elaborare la lezione e portarle in mano a un pubblico di tipo diverso. Più raffinato forse, e più esigente, ma comunque altrettanto lontano dalle nuvole di carta quanto quello di Endgame.