“Come cambia il mondo” dicevano i vecchietti, strafatti di barbera, al bar sotto casa mia quando ero giovane e andavo in giro coi capelli lunghi e le borchie. Si trovavano, poveri allegri beoni, ad affrontare un fenomeno di costume al quale erano impreparati. Gente vestita così, che non rispetta i dogmi sociali imposti dalla Chiesa (e che nemmeno ci va in chiesa, Don Franco manco mi conosceva) era, per la loro ridotta capacità di comprensione del mondo, un vero shock. E si che mi conoscevano da che ero piccolo, i miei erano brava gente e andavo pure a scuola tutti i giorni!
Per anni ho riso di loro, dei loro dubbi espressi a mezza frase, delle occhiate di commiserazione, del malcelato rimprovero nei loro sguardi. Credevo di essere davvero diverso da loro, cari equinidi di vario genere che leggete Sdangher, pensavo non sarei mai diventato a mia volta un giudicatore etilico delle gesta altrui. E invece eccomi qui, ad osservare l’andamento del mondo che credevo di capire tanto bene, con occhi non così diversi dalla plebaglia geriatrico avvinazzata del bar sotto casa di quegli anni ormai lontani.
Ho digerito cose che non credevo avrei trovato sulla mia strada, accettato che il metal divenisse genere di consumo (si, io c’ero quando tutti avevano la maglietta dei Nirvana con la faccina stonata di droghe e si, la faccina era sballata, facciamocene una ragione) e quando il mio genere preferito si sputtanava diventando commerciale per una stagione, venendo dimenticato subito dopo. L’onda del “rendiamolo vendibile” ci sfracellò le palle per un po’, solo per lasciarci a fare i dinosauri che si stanno estinguendo, con le stesse magliette e le stesse borchie di prima. E con la frase “ah, te ascolti quella roba lì, pensa che anche io avevo un cugino/fratello/zio che sentiva i Metallica” detta da ogni sconosciuto fuori dal giro metal (e grazie che me lo hai detto, i Metallica li mettevano anche alla bocciofila di zia Mariabelarda).
Ho accettato che Rob Halford gradisca il pene più del pane, che Hetfield sia un ciuccattone, che Ozzy abbia fatto The Osbourne diventando l’icona vivente della mediocrità di lusso oltre ad essere l’unico inglese astemio. Ho sopportato con dolore il lutto per Lemmy (lacrimuccia) e tollerato persino i nuovi dischi degli Iron Maiden (che fanno cagare, basta con la lagna di quanto sono sottovalutati. Lo sono perché mediocri e i fasti di The Number Of The Beast e Powerslave son lontani svariate decadi). Anche i tristi Metagnica di Load e ReLoad mi sono ciupato senza dire nulla, mandando giù con una lacrima amara e una smorfia.
Ma i concerti al cinema mi hanno spiazzato.
Ma tanto.
Al punto che mi sono ritrovato al pub, parlando con altri metallari senza più i capelli lunghi ma ancora borchiati e incorruttibili.
E vi dirò che il tono della conversazione mi ha allarmato assai. Vi ho ritrovato un non so che di deja vu che non ho identificato subito, ma mi ha fatto rimuginare a lungo.
I Metallica registrano un disco con l’orchestra – fa uno.
Di nuovo? -dico io – ma va di moda?
No, ma ci fanno il film da dare al cine – dice l’altro.
Un altro? – chiedo di nuovo io, riferendomi al tristo filmetto Metallica: Trought The Never del 2013.
Ma è stato quando mi hanno spiegato che oggi i gruppi fanno video di concerti e li mandano al cinema, in date precise, creando “eventi”, che devo aver avuto proprio la faccia dei vecchietti del bar sotto casa. Scuotendo la testa con aria triste ho mugugnato un “ma non ce l’hanno il dvd, a casa che vanno a vedere un video al cinema?” e trangugiato un’altra birra con lo stesso stile dei succitati ottuagenari giudici di vita.
Mi si è aperto un mondo triste, fatto di grandi nomi che mandano i loro live nei cinema, e di gente che va a vedere i propri beniamini comodamente seduta in poltrona, in un locale climatizzato, sgranocchiando pop corn. Attendiamo anche la stessa cosa da parte degli Slayer, pare.
Piango.
Ok, rieccomi, scusate. Ora, con tutta la buona volontà del mondo, sono sconvolto come se un pischello mi avesse lasciato il posto sul bus. Mi tornano in mente concerti del passato, epiche gesta da raccontare per decenni riferendosi alle trasferte più avventurose, sbronze colossali, vagoni sovraffollati, casino e risate, chilometri macinati, notti insonni, qualche rissa e poi tutti amici a sbevazzare birra nei locali ancora aperti dopo il concerto. E tutto questo dove finisce? Mi hanno fatto notare che oggi i locali chiudono presto e dopo il concerto vai a dormire, che i ragazzini non ascoltano più metal come un tempo, che i musicisti fanno queste cose pensando ai fans. Balle. I discografici fanno queste cose, i musicisti pigliano quello che resta dei guadagni e fanno silenzio. Sì perché io ricordo che la gente suonava anche perché era divertente farlo. Per loro, dico. Stare sul palco, interagire col pubblico, essere delle cazzo di star insomma!
In questo mondo fatto di streaming gratis, di troppi dischi fatti male e di roba bella che passa inosservata siamo arrivati a questo? Ai concerti live per finta? Ma come fai a guardare gli Slayer sul grande schermo stando seduto? Ma che stiamo diventando, come i giapponesi che ai concerti stanno composti e applaudono ordinatamente?
Ecco, ora interviene quella terribile parte del mio carattere da cui credevo di essere immune, che mi porta a dire la frase che segna il passo tra età adulta e senilità precoce:
Ma dove andremo a finire?
Prontamente l’amico stronzo interviene con la storia trita e ritrita del progetto di un R.J.Dio olografico sul palco, mai accettata e abortita “per ora” dal popolo metal. Un ologramma che canta le canzoni di un morto che abbiamo amato a tal punto da resuscitarlo, per finta, solo per farlo suonare ancora.
Sì, è proprio vero, al peggio non c’è mai fine ma questo rasenta la necrofilia artistica e riesce a farmi rabbrividire ogni volta, giuro.
La domanda più terribile però non riguarda il revival di artisti scomparsi, per il quale sarebbe anche comprensibile una registrazione live nelle sale cinematografiche in stile “in memory of”, ma il trasmettere concerti di gruppi vivi e sani, in piena attività.
Passi il disco live, senti il pubblico, la potenza che permea il tessuto stesso del concerto, un assembramento di gente che tributa un omaggio agli artisti immortalata in un album. Bello.
Passi anche il video live, i musicisti che amiamo impegnati nel loro meraviglioso lavoro, al massimo delle proprie potenzialità, il pubblico adorante, le luci, i costumi… Ok, ci sta.
Ma davvero siamo diventati così “culi pesanti” da non aver più voglia di vedere i concerti “live” al punto di guardare i gruppi suonare… al cinema? Ma lo stage diving? Il moshpit? Ma il cazzo di pogo che fine ha fatto? Volete davvero guardare i grandi del metal seduti con cola e pop corn in mano come se foste di fronte ad un film qualsiasi?
Io sono uno che vive e lascia vivere, lo sapete, ma certe cose mi danno davvero da pensare. Un live non live è come una bambola gonfiabile, puoi metterle la maschera che preferisci ma non sarà mai una partner. Ed il solito amico stronzo parte con la menata del bordello con le bambole a Torino, che ora lo hanno chiuso ma per mesi ha lavorato e che… Stop. Io sono un metallaro sano. Non bevo birra analcolica, non trombo bambole (ma sono di silicone! Non mi interessa, no. No.) ad effige di qualsivoglia creatura e non accetto l’idea dei concerti metal al cinema.
Eventi, sagre o festicciole che siano, non sono concerti.
Il termine “Live” determina da sé che si tratta di una situazione nella quale ascoltatore e artista si trovano in un contesto condiviso (dal vivo, per l’appunto) e il primo può ammirare il secondo a breve distanza mentre questi si adopera per presentare uno spettacolo. La magia del concerto è l’atmosfera che si crea, il pubblico che preme, il conquistarsi uno spazio fisico davanti ad un palco e diventare parte di quella massa compatta nota come “pubblico” che si agita, freme e suda mentre a pochi metri i musicisti ci danno dentro alla grande infondendo energia nella performance. Il concerto, per noi metallari più che per qualsiasi altro genere di pubblico, è il rinnovarsi di un rito ogni volta, è diverso ad ogni data e non è massificabile né ripetibile.
Non basterà certo uno schermo grande per proiettare emotivamente il pubblico sul palco, qualunque cosa se ne dica. Per carità, si tratta sempre di molte persone che guardano uno spettacolo che amano, ci si potrà ritrovare tra amici (cosa facciamo stasera? Cosa danno al cinema? I Pantera a Waco nel 96. Ok, vada per il cinema), potranno indossare la magliettina nuova pagata come il biglietto di un concerto vero, ma è il concetto stesso che stride fastidiosamente. Insomma, tra un live act ed un video c’è la differenza tra del gran sesso fatto bene e guardare un film porno con le mani legate.
Sono cose che non si possono paragonare in nessuna maniera, due mondi diversi (il cinema e la musica live) che possono sfiorarsi ma non invadere i propri ambiti reciprocamente.
L’unica scusa possibile e plausibile che mi sento di accettare è che, vista la penuria di date in Italia (organizzare i tour costa caro e i biglietti dei concerti pure, pertanto si fanno meno concerti e la gente diserta spesso quelli che ci sono) il poco è meglio che niente.
Peccato che se ragionassimo così finiremmo per accontentarci sempre di più e divertirci sempre di meno, perdendo la parte migliore del nostro genere preferito. Il metal senza concerti dal vivo è inutile, sarebbe come una moto elettrica (si, lo so che le fanno, fanno anche cose peggiori ma non vuol dire che sia giusto!), una cosa che fa ciò che deve, fredda e morta.
Il metal, si sa, è un genere strano, fatto di contraddizioni ma anche di dogmi quasi tribali che rendono accettabili anche cose al limite del ridicolo a volte. A me piace così, questo carrozzone di musicisti strani, diversi tra loro, eccessivi ed esagerati. Mi piacciono le luci in faccia, il girone infernale del pogo sotto i palchi, il tremore del terremo quando migliaia di persone seguono il ritmo del metallo più furioso.
Mi piace la sensazione di fisicità che nessun video potrà mai trasmettere, la fottuta polvere dei festival estivi che ti si appiccica alla pelle, il sudore e la birra fredda quando arrivi al banco bar sempre troppo affollato. Fa tutto parte del gioco, è tutto “fottuto rock’n’roll”.
Già mi vedo le mammine dei teenager brufolosi che dicono ai propri figli “vai al cinema se proprio vuoi vedere il concerto, ma non dal vivo che poi sudi e ti ammali” e rabbrividisco. Oggi che viviamo connessi via smartphone come tanti numeri senza faccia e siamo sempre più portati a scegliere le cose “meno faticose”il vedere anche il concerto, nella sua veste spettacolare, ridotto a mero prodotto commerciabile una volta spogliato di tutto il fascino del contorno avventuroso (comico, delirante e spesso assurdo rappresentato dalle trasferte connesse, ad esempio) mi lascia basito e pure un po’ incazzato a dirla tutta.
Sì perché una mossa commerciale (prendi una cosa bella, sezionala,taglia tutto ciò che non puoi vendere, ricuci e vendi in offerta smerciandola per la stessa cosa bella da cui sei partito mi puzza anche un po’ di truffa) che riduce tutto quello che di più bello il rock (non solo metal) può offrire ad un semplice filmato di un’ora o poco più mi sembra un abominio intollerabile. Mi sbaglio? Forse.
In fondo anche i vecchietti bevitori di Barbera e Frizzantino che bivaccavano nel vecchio bar trovavano intollerabile me e il mio modo di vedere le cose. Chiamiamolo anche progresso, volendo, il nuovo che avanza e ci porta a comprare qualunque cosa risulti semplice e comoda. Per uno che non abbia mai vissuto i festival alla Monsters of Rock, Wacken Open Air e via dicendo, il vederli in video è di certo una bella esperienza, ma il tremore alle gambe durante una intro attesa per ore, col volume che sale ed il sole che picchia duro, l’urlo della folla che va in delirio, il sentirsi parte di qualcosa di memorabile non potrà mai passare dallo schermo. Certo che chi non ha mai conosciuto tutto questo potrà anche credere di vivere la stessa esperienza di chi era al concerto, questo è indubbio, ma io inviterei tutti coloro che invece sanno benissimo di cosa parlo a ricordarsene bene mentre giudicano certe iniziative.
La musica è arte, l’arte non deve essere condizionata dalla propria vendibilità. Laddove questo capita si rischia di farla diventare un semplice bene commerciabile che perde la propria spontaneità, diventando un prodotto molto meno nobile benché più redditizio. Ok, ora l’ho detto, la parte “utopia for friends”del mio carattere è soddisfatta. Adesso tutto sta nel capire se il successo di queste attività parallele dei grandi gruppi sia interpretabile come amore dei fans o come semplice scelta dettata dalla comodità dilagante tra i metallari di oggi.
E ora basta, la mia l’ho detta, ora prendo la moto e vado al bar coi vecchietti superstiti, il primo giro di barbera lo offro io e no, ai cantieri non ci sono ancora arrivato.
Ma ci sto lavorando.