La band americana dei Blood Incantation è forse la cosa più interessante venuta fuori in ambito estremo negli ultimi anni. Le ragioni sono sia nei dischi, quindi le musiche proposte, sia l’attitudine. Per quanto riguarda i brani, la band non cerca assolutamente di inventare roba nuova. Morris Kolontyrsky (cognome impossibile senza il copia e incolla) chitarrista e principale compositore del gruppo, è certo che non sia più possibile crare un riff che qualcuno non abbia già usato; almeno in ambito death metal. Quello che conta, secondo lui, è come si possa prendere l’idea e usarla di nuovo. Se la si usa bene, mi viene di aggiungere, nessuno si accorgerà di nulla e tutti grideranno: ficata!
Adorno lo scriveva già nel dopo-guerra: “l’industrializzazione ha trasformato ogni cosa in merce”. L’arte lo è quanto le stampanti o i computer. E in tutti i casi c’è sempre la richiesta di qualcosa di nuovo. Chiaramente è impossibile realizzare quello che non è stato già fatto perché la produzione è talmente forsennata che sarebbe assurdo pretenderlo con ritmi simili. Inoltre bisogna dire che il nuovo è un concetto illusorio. Quindi per vendere il solito vecchio come qualcosa di innovativo, ecco la soluzione: fare in modo che lo sembri.
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La ricerca del nuovo, secondo Adorno, ha sostituito la ricerca di dio. Diciamo che questo tedescone aveva l’umore un po’ tetro, visto che doveva vivere sulle macerie della più terribile guerra occidentale di sempre; sempre che sia moralmente sensato comparare le guerre. Oggi io non la farei tanto pessimistica. Però c’è un fondo di verità. Tutti noi metallari cerchiamo ogni giorno un gruppo nuovo, un disco nuovo. Eppure queste band non fanno che proporci sempre la stessa solfa. E guai se non fosse così. Nonostante ciò, se arrivano i Blood Incantation, capaci di illuderci che vi sia qualcosa di nuovo in ciò che fanno, anche se nell’ambito di un’ortodossia tenace, allora siamo felici. E noi finiamo per crederci.
I Blood Incantation tentano una contaminazione con qualcosa che con il metal ha poco a che spartire. Questo è vero. Non lo mescolano a un altro sottogenere del metal ma a un genere che vive fuori dal metal. Uniscono il death con la psichedelia. Questo genere dopato e “visionesco”, ha già sporcato molti sottogeneri dell’heavy. Il doom, lo sludge, persino il black, ma il death è una novità.
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E non è tutto qui. Se lo fosse, non avremmo ancora nulla. Io domani potrei alzarmi e mettere assieme il black e il Reggaeton… (ehm, già, qualcuno l’ha fatto davvero e con esiti su cui si discuterà a lungo) ma se alla base di questi segmenti di genere non c’è una necessità che parta dalla canzone, tutto è vano. I Blood Incantation non è che una mattina si sono alzati e hanno dato una scorsa a tutta la marea di etichette e sotto-etichette combinate dicendo, ehi, manca lo psych-death, facciamolo! No, loro hanno fatto la propria musica e poi si sono accorti che le digressioni immaginifiche frequenti in ogni pezzo che gli servivano per mettere in pratica le cose che avevano da dire, erano di per se stesse una ficata. L’autocoscienza di stile è l’inizio della maniera, ma direi che un passo simile, a un certo punto sia inevitabile per chiunque.
E il mondo ha gradito la mistura della band. I Blood Incantation inoltre sono tradizionalisti. Non vanno con i piedi pari su tutta la vecchia scuola per farsi uno spazio anche a costo di spazzar via chi c’era prima. Loro si siedono e si stiracchiano con calma, rispettosamente. Soprattutto prendono dalla vecchia scuola quello che è sensato sul piano pratico e non il dogma scemo da seguire a prescindere. E quindi, per esempio, registrano tutti insieme e in analogico. Se c’è una cosa intelligente che la tradizione ci insegna è questa. Il genere estremo sta morendo a causa dell’eccessiva tecnologia impiegata per realizzarlo… oltre la totale mancanza di idee. Capiamo che oggi suonare a ritmi vertiginosi sia una cosa inutile. Data la grande possibilità di farlo senza andare da un ortopedico, usando dei trucchi da studio, è inevitabile scegliere le scorciatoie digitali. Ma facendo così, il death ha perso ciò che lo rendeva vivo e sanguinante. Mick Harris dei Napalm Death era davvero una polvere con la batteria. John Tardy ha sul serio quella voce che sembra una palude che rutta. Trey Azagthoth suonava tutte le assurdita che sentivamo nei primi dischi dei Morbid Angel. Questi tizi erano al limite umano ma onestamente. Si ammazzavano però senza aiutini. Purtroppo certe prodezze tecniche sono diventate lo standard con cui misurarsi e tanta gente, troppa, deve farlo usando i computer, disumanizzando la musica.
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Tante band hanno capito questo e sono tornate all’analogico e al “tutti insieme” e si sono allontanate dalla modernità, rifacendosi alla lezione della vecchia Svezia. Purtroppo hanno commesso l’errore di riprendere pari pari quei riff, sperando che sotto ci fosse l’anima e la ricetta geniale di chi li aveva creati. Quei riff erano già stati usati da Celtic Frost e Motorhead, solo non a quella tonalità, non con quel suono e non con quella furia ritmica. Come dice Giovanni Loria, il metal lo fa il suono. E per il death svedese valse la stessa regola.
I Blood Incantation sono soprattutti dei ragazzi intelligenti. Non si votano ciecamente alla tradizione. Sanno che bisogna crearsi uno spazio, tentando di sviluppare e spingere al massimo la propria personalità artistica, ma allo stesso tempo non si illudono che nell’antro della tecnologia vi sia il futuro del metal. Probabilmente più ci voteremo alle macchine e più ci appiattiremo. Non sto parlando di Industrial. Parlo di usare programmi e loop, campionamenti e taglia e cuci informatici al posto delle nostre cellule mortali. Attacca la spina e suona, cazzo. E cerca di farlo con altri umani.
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Una cosa impagabile dei Blood Incantation poi è la durata. Non quella dei singoli brani. Lì esagerano con il minutaggio, ma riescono, e qui c’è la misura di quanto siano bravi, a non annoiare. Però non allungano troppo la durata del disco in sé. Non sono come gli Opeth o i Mastodon, per capirci. Gli album della band entrerebbero in una TDK da 46 minuti. E questa, secondo me, dovrebbe essere la durata giusta per un buon disco metal. Tante formazioni ortodosse la fanno tanto lunga sull’old school e poi se ne escono con dischi di un’ora.
Inoltre mantengono alcuni requisiti di superficie ma fondamentali, nel segno dell’intransigenza: la negazione del brand alla nascita, con l’uso di un logo illegibile. Ed è una cosa che rassicura molti metallari, anche se c’è tempo per deludere tutti con un nuovo logo accessibile alle nostre sorelle.