Cronache del dopobomba #3: Vedo la gente morta a.k.a. Static X reunion tour
Sono seduto a casa, in stato semi-comatoso davanti al pc con Diadem of 12 Stars a palla nello stereo. Sorseggio una tazza di brodo come il peggior piccolo borghese con attitudine da leone da tastiera. Mentre scrivo, le immagini di brulicante e rigogliosa paludosità dei boschi dello stato di Washington che i fratelli Weaver già cesellavano nell’ormai musicalmente paleolitico anno domini 2006 mi accompagnano in progressive riflessioni.
Da un lato, l’ennesima conferma che “sono troppo vecchio per queste stronzate”, visto che la trasferta in quel di Pinarella di Cervia, la piadina al volo e il rientro in piena notte mi hanno piegato: oggi mi sento un incrocio tra Lo-Pan e Oscar Luigi Scalfaro, per dire.
Dall’altro, la consapevolezza che nell’anno 2019 ho visto circa altri 300 personaggi radunarsi in un club ricordandosi chi è stato Wayne Static e cosa ha regalato al verbo del rock: nel nostro italico stivale, terra degli Airon Maiden e dei Gods of Metal generalisti non è mica niente, sapete.
Static X e il vecchio nu metal
Il nu-metal, con tutto il suo fulmineo carrozzone che si è creato attorno, è diventato ormai la nuova roba vecchia un po’ dovunque e a me questa cosa fa ancora abbastanza specie, figuriamoci da noi. Comunque: in attesa sempiterna che il fusion-funk-metal torni ad essere la next-big-thing dei recuperi archeologici (Mordred, sono qua che vi aspetto! Dai dai dai) godiamoci questo tuffo nel passato e morta lì. Analisi della situazione: trentacinquenni electro-goth-dark con le stesse microgonnine e calze a rete del tour di Manson 1997, check. Quarantenni con l’occhialetto steampunk, check. Rispettabili commercialisti con un filo di obesità in cerca della perduta gioventù, check. Davanti a tutti noi, un bill con Dope, Soil, Wednesday 13 e gli Static X. Grazie della domanda. Sì, Wayne Static è ancora stecchito da fine 2015. Ma non è un grosso problema. E sì, non hanno chiamato né Blaze Bayley né Ripper Owens a sostituirlo, tranquilli.
I Dope
Di quello che succede prima degli Static X è facile farne un sunto: smuovono le acque i Dope, per più o meno metà quelli “de na vorta”, e fanno quei cinque sei pezzi per cui tutti li sopportiamo agevolmente. I Dope, tirati al netto dei singoli o di quello che nel tempo gli è venuto bene, tengono in piedi la baracca e comincio a sentire vibrazioni positive: forse non siamo venuti a vedere una patetica mise-en-abime da canotte di rete e invadenti basi pre-registrate.
Soil
Poco dopo, i Soil si dimostrano paraculi al giusto, facendoci credere che il loro disco nuovo sia ancora Scars, ma tutti stiamo il gioco perché è quello che vogliamo. Dopo un’oretta di musica emerge rapida una considerazione: queste al tempo erano rock bands dalla patina moderna e poco altro, in fondo: la selezione naturale del tempo ci mette davanti a musicisti che girano da vent’anni e hanno tiro a sufficienza per farti passare una serata piacevole, qualunque sia la proposta. I Soil, al netto delle produzione leccate, dei filtri e degli effetti da studio hanno dimostrato di esserci.
Wednesday 13
Terzo antipasto, Wednesday 13, che magari molti di voi si ricordano per i singoletti del periodo Roadrunner. Ecco, pensarla così oggi come oggi è tipo spendere 80 euri per vedere i Judas Priest aspettandosi la band di Sin After Sin. Gli ultimi dischi del nostro sono decisamente più metal, tra l’heavy e spunti thrash, una versione moderna che in ambito shock/horror rock involontariamente lo fa avvicinare alla proposta di un Lizzy Borden o i Death SS dei periodo modernista. Noto le trentacinquenni goth-dark avvicinarsi all’uscita e un po’ a dir la verità ne godo. Il commercialista invece sembra non risentirne più di tanto.
E finalmente gli Static X
Gli Static X, con le loro strutture moderne ed elettroniche di nu-metal non è che avessero chissà a che spartire, ma vennero arruolati nella gang e a loro giustamente non dispiacque. Quando a metà anni 90 ascoltavo Pierced From Within pensavo di essere davanti alla cosa più atroce e violenta di sempre. Col tempo il ricordo del disco si scontra con i dati oggettivi che, forse, poteva esserlo allora, ma di sicuro non lo è più.
Riascoltare Wisconsin Death Trip oggi invece mi regala la sensazione opposta: era molto meno commerciale di come me lo ricordo. La costruzione dei pezzi, la metrica, le basi elettroniche: tutto rimanda a una concezione di rock pesante assolutamente liminare: ha le sue melodie, i suoi ganci per attirare lo spettatore, ma poi tanto facile non è. Musicalmente, è questo che fondamentalmente porto a casa da Pinarella di Cervia. Wayne Static, almeno con il suddetto debutto e il successivo Machine, ha scritto grandi pezzi rock a trazione in parte elettronica e in parte industriale che sono poi serviti come bignamino per un sacco di altra gente. Campos, Jay e Koichi più un simbolico simulacro di Wayne alla voce, con tanto di maschera e parrucca, ieri sera ci hanno ricordato proprio questo: Wisconsin Death Trip non ha avuto l’impatto di Back in Black, ma è ancora un cazzo di gran disco.
Il resto è routine
Il resto è routine: la testa che ciondola sul sedile al ritorno all’altezza di Bologna, l’inutile caffè dell’autogrill, l’alzabandiera mattutino probabilmente spinto dai ricordi delle coscione goth-dark. E la riflessione che, mettila come vuoi, il rock non muore mai. Anche quando è davvero freddo sul tavolo dell’obitorio. Il biz è così: c’è chi mette un ologramma sul palco al posto di un morto, c’è chi sostituisce membri originali pagando musicisti più giovani per imitarli quanto più possibile, c’è chi non si cura di ricreare un’atmosfera ma semplicemente sfrutta un nome per fare qualche soldo e passa per i club di provincia.
Non so davvero dirvi con quali intenzioni sia nata questa reunion: semplicemente io ieri sera ho dato a Tony Campos (sì, è lui l’artefice di tutto) 30 euri per risentire Push it, Get to the gone, This is not come dovevano essere fatte. Punto.
Tra una birra e l’altra, ho avvertito l’aria del tributo/celebrazione vera più che un tentativo di far soldi, perché diciamocelo, quando sei di Los Angeles, suonare in un club come il Rock Planet di Pinarella di Cervia non è propriamente un gran modo di fare soldi facili. E no, non mi interessa fare altri conti su una cosa di cui non sappiamo i dati economici ben precisi. Ah sì, il tizio mascherato da Wayne Static ha cantato come Wayne Static, si è mosso come Wayne Static e ci ha ridato, per una sera, Wayne Static. A me basta. E pure alle coscione goth-dark, credo. Se poi siete degli hunters della rete e volete sapere chi c’è dietro la maschera, googlate. Si è già capito e ha un senso, logisticamente parlando.