EXCUSATIO NON PETITA
Ehi Sdangheri, qui la fine del decennio incombe e già tutti i siti professionali stanno preparando le loro belle classifichine ecumeniche dei dischi migliori. Noi cavalli pazzi del metal blogging vorremo mica farci trovare impreparati?In realtà sì, perché ad accendere le polveri è il sottoscritto, che per motivi personali e generazionali la scena l’ha seguita poco e dall’esterno, da dilettante un po’ annoiato anziché da pur piccolo ingranaggio della stessa (tutto un macinare di recensioni, interviste e live report) come aveva fatto nel decennio precedente.
Il titolo del pezzo dovrebbe però fungere da adeguato disclaimer del fatto che il panorama sia impressionistico e largamente incompleto, da integrare con auspicati contributi di chi commenta e flamma, giacché si da il caso particolare che chi legge probabilmente ne sa più di chi scrive. Insomma, come diceva nientemeno che Woytila, se sbaglio mi corrigerete.
ALWAYS HISTORICIZE!
Come anticipa la mia tipica citazione colta cifrata da accademico frustrato del titoletto qui sopra, sono tuttavia vittima del demone della storicizzazione, che mi porta a cercare un inquadramento complessivo di tendenze, sviluppi e mutamenti nel tempo di una forma d’arte, quale in questo caso la musica heavy metal.
Per il decennio in questione mi trovo però in difficoltà anche solo nell’abbozzare una simile analisi, e allora mi chiedo: dipende solo da me e dalla mia disinformazione o c’è una base solida all’ipotesi che il genere si sia stabilizzato in un panorama suddiviso tra recuperi del passato e sviluppo di sottogeneri di nicchia incapaci di fare egemonia e portare avanti l’evoluzione complessiva della scena?
Altresì detto, lancio subito la provocazione: nel 1980 usciva British Steel, nel 1989 Altars Of Madness; nel 1990 Rust In Peace e nel 1999 Calculating Infinity.
Si potrebbero fare omologhi esempi per quest’anno 2019 di dischi nuovi che sarebbero stati letteralmente inimmaginabili dieci anni prima? Qualcosa di popolare, che vada oltre una ristretta cerchia di nerd o di giornalisti di Pitchfork, intendo.
Mi metto in posizione d’ascolto delle vostre risposte e nel frattempo butto giù le seguenti noterelle sparse sui tanti bei dischi che purtuttavia sono usciti, seguendo il ben poco romantico filo dei ricordi di ascolti su Spotify free più che di ricerche e acquisti in negozi di dischi, ahimè.
BRAINSTORMING
Nella procedura asistematica adottata mi è parso coerente partire da un’associazione di idee automatica, letteralmente riassunta nella domanda rivolta a me stesso “parla delle prime cose che ti vengono in mente”. E allora faccio quattro nomi: Carcass, Ghost, Baroness, In Solitude.
Surgical Steel dei Carcass. Dovessi dire su due piedi il mio disco preferito del decennio direi questo. Perché mi piace tanto, e perché lo trovo rappresentativo dell’idea di metal che mi sembra prevalente oggi: la tradizione con piedi ben piantati negli anni ottanta ma aggiornata tecnologicamente, espansa nella durezza e nel minutaggio, con un’idea di prosecuzione e non di rottura come quella degli anni novanta. Titolo e artwork sono perfetti nella loro icasticità, i testi come sempre sopra la media, le armonie di chitarra dell’intro 1985 un manifesto d’intenti persino commovente.
Perché commovente? Perché il titolo cita l’anno centrale del decennio dell’heavy metal, per dirla nei termini assolutisti ma non illegittimi di Loria: il quintessenziale Steel. Ma non lo fa per banale retromania come questo video qua, bensì per rivendicare le origini della formazione dei Carcass stessi: il personalissimo e distintivo Surgical. Perché i Carcass con Heartwork sono stati tra gli attori principali del salto quantico che ha fuso metal estremo e classico, rendendo l’indurimento una norma generale. E con la splendida parsimonia di un solo disco in vent’anni hanno ribadito la loro maestosa centralità.
Leggo tuttavia con un certo sconcerto che, nella versione aggiornata a quando scrivo della chilometrica lista del decennio di Metal Hammer, Surgical Steel nemmeno c’è, e ne deduco che dovrei parlare di qualche nome più autoctono della nostra epoca: bene, vado lontano dal vero se dico che il gruppo anni dieci che ha ottenuto il maggior successo di pubblico sono i Ghost?
Peccato solo che non siano propriamente metal, come numerosi meme ci ricordano, però a renderli rilevanti ai miei occhi è l’ineguagliato numero di cristalline e ben congegnate hit che hanno rilasciato nel corso degli anni. Hit vecchio stile voglio dire, pop finto-metal come gemme incastonate in dischi non privi di filler. In un’epoca che qualche anno fa ebbi a definire più che avara in fatto di belle canzoni, un merito non da poco.
Belle canzoni che ho trovato anche in un altro dei miei dischi preferiti del decennio: Yellow And Green dei Baroness. Anche questo poco metal, ma indiscutibile opera d’arte.
Considerate le vicissitudini avute dalla band dopo l’incidente, i due dischi successivi si sono mantenuti su buoni livelli, ma senza eguagliare quella vetta a mio parere.
Parlo molto di canzoni perché sono un po’ canzonettaro, non lo nego. Ma per concludere questa prima sezione mi farò perdonare con un discorso più concettuale – quindi affine alla critica che conta – a proposito degli svedesi In Solitude: chi se li ricorda?
Con ogni probabilità erano il gruppo più dotato di quell’ondata retro-metal venuta fuori una decina di anni fa e che comprendeva Enforcer, Bullet, Cauldron, White Wizzard e altri che non ricordo o magari non avrò ascoltato.
Tutti gruppi che hanno avuto dei buoni momenti, ma che alla lunga hanno palesato orizzonti assai angusti nella loro pur conclamata e rivendicata derivatività.
Gli In Solitude però erano di un’altra pasta. Nei primi anni dieci hanno pubblicato due album: l’eccellente The World. The Flesh. The Devil, che perfezionava la loro lezione Obscure NWOBHM + Mercyful Fate con qualche lungaggine compositiva ma notevolissime parti di chitarra.
A rendere però ancor più interessante e unico il loro percorso è ciò che è successo due anni dopo: con Sister presentarono un’inattesa svolta di scarnificato e austero gothic rock metallizzato, con artwork alla Bauhaus e riffing alla primi Cult.
Un’evoluzione che ha rotto gli schemi del metal di questi anni, in cui i gruppi, tanto più quelli revivalisti, tendono a ripetersi per rassicurare il loro pubblico anziché sfidarlo. Come più volte scritto da Padrecavallo, la scelta di cambiare pelle rimanda invece agli anni novanta, quando davvero non avevi idea di che cazzo di disco avrebbero tirato fuori la prossima volta i Tiamat, i My Dying Bride o gli stessi Metallica.
Certo in Sister c’era anche qualche ingenuità da avventizi del nuovo genere, come del resto ce n’erano nelle scimmiottature Depeche Mode (e Sister Of Mercy npc) dei Moonspell o dei Paradise Lost, ma quanta genuina creatività, quanta voglia di andare oltre gli schemi!
Sarebbe stato di certo un bel disco di transizione verso una futura e sorprendente mutazione che… non c’è mai stata, perché nel 2015, laconicamente e senza preavviso, il gruppo dichiara lo scioglimento “due to changes in their personal lives”.
Da quel momento non si è avuta più nessuna traccia di loro. Un dolore, ma anche la bellezza di un ultimo atto da altri tempi, tempi in cui i gruppi si scioglievano davvero e non si trascinavano avanti all’infinito tra reunion delle reunion e tripli tour d’addio.
Romantica parabola alla Jack (più che John) Frusciante, o – per restare più vicini al nostro genere – che mi ha fatto rivivere i sentimenti provati con lo straziante Funeral Album dei Sentenced. Ragazzi, non so che state facendo di questi tempi (presumo lavori con guadagni mensili pari al mio reddito annuale), ma avete la mia stima.
Io invece non seguo il loro esempio e la finisco qua, sì, ma solo per oggi: dopo l’evidenziazione dei miei personali highlights (un po’ troppo sbilanciati sulla prima metà del decennio, mi accorgo rileggendo), il namedropping vero e proprio dei protagonisti degli anni dieci arriverà con la seconda parte.