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Tenebrose presenze – Un tentativo di approfondimento su Il segno del comando insieme a Diego Banchero

Diego Banchero è un musicista di notevole talento ma se c’è una cosa in cui ha davvero avuto il colpo di genio è nella scelta di chiamare la propria band Il segno del comando. Oltre all’assonanza sintattica con i monicker delle vecchie progressive band italiane (Il rovescio della medaglia, Il balletto di Bronzo, Biglietto per l’Inferno), il bassista genovese ha saputo scovare e attingere a una fonte culturale rimasta praticamente sconosciuta alle tante band rock e metal italiane in quasi cinquant’anni. Mi riferisco a tutte quelle realtà musicalmente aggressive che hanno finito per rifarsi a un certo tipo di cinema e di musica nostrani, ignorando però la TV.

Sappiamo il rapporto conflittuale che il rockettaro e il metallaro italiano hanno sempre avuto con la televisione. Ricordo che negli anni 90, i risultati del referendum annuale di Metal Shock, dava Blob come unico programma decente che il pubblico metal arrivasse a gradire. E Blob era la TV che divorava se stessa, il ché la dice lunga sulla considerazione che il metalhead italiano avesse della televisione negli anni 80/90. E non a torto. In quegli anni c’erano le risse tra D’Agostino e Sgarbi nella trasmissione di Ferrara e Le ragazze di non è la rai sulle reti Fininvest mentre la RAI si spegneva sempre di più a colpi di Scommettiamo che? e Fantastici vari.

La TV era il nemico e il paese catodico nazionale considerava con ancor più diffidenza la musica heavy, offrendole spazio solo quando si trattava in modo sensazionale e preconcetto il disagio giovanile e la perdizione dell’anima cristiana.

Eppure c’è stato un tempo lontano in cui la TV pubblica trasmetteva cose fiche. E non parlo di Goldrake e Ai confini della realtà. Io mi riferisco a prodotti creati dalla RAI stessa: gli sceneggiati dal 1971 al 1977, circa. Se vi dico sceneggiato voi magari pensate a Barbara De Rossi che si ammala di tumore o le disdicevoli avventure terra terra di Commesse, le indagini piacione del Commissario Montalbano e quelle robe lì. Niente di più lontano. Gli sceneggiati a puntate RAI degli anni 70 erano incentrati su storie che tenevano il paese col fiato mozzo a colpi di stregoneria, omicidi, fantasmi e mostri.

Traendo spunto dal traumatizzante prototipo francese Belfagor, uno sceneggiato in sei puntate che tanti incubi fece venire ai sessantenni di oggi da bambini, il vero prototipo dello sceneggiato di successo italiano fu appunto Il segno del comando. Se non l’avete mai visto vi invito a farlo subito. Oltre a suscitare in voi la cara e vecchia paura del buio, il segno vi darà un’idea di come le cose fossero davvero luciferine e inprevedibili nella TV di 40 anni fa.

Banchero e la sua band riconducono a quell’humus nazional-popolare inaspettatamente e ne fanno un programma di recupero culturale. Parleremmo in ogni caso di una pregevole band progressiva, ma con tutto questo bagaglio esoterico e thrilling (che va poi ben oltre la storia di D’Agata) oso dirvi che questo gruppo consuma definitivamente l’unione tra rock e oscurità, riprendendo le profondità magiche e anarchiche del progetto Jacula e conducendole nei lidi più rigorosi, accessibili ma assassini dei Goblin, sposando le complessità dell’occulto di Antonius Rex alla potenza della band romana, che concettualmente non fu mai all’altezza dell’evocazione stregonesca che era in grado di creare a livello musicale.

Il segno del comando e le tenebrose assonanze

Non fu però Banchero a ricordarsi dello sceneggiato. L’idea venne al suo amico e comprimario Mercy. I due stavano vivendo un periodo piuttosto deprimente. L’Italia sprofondava verso il gorgo del Millennium Bug, e l’epilogo anni 90 era impantanato in una melassa priva di contenuti mediatici. Si faticava a capire come il paese, che solo vent’anni prima aveva visto spuntare alcuni dei più significativi autori cinematografici mondiali e dato vita a una stagione così controversa e seducente in TV, ora vivacchiasse tra fiction televisive ridicole, Forza Italia e i fratelli Muccino.

L’uscita dell’omonimo album, tutto incentrato sullo sceneggiato con Ugo Pagliai e Carla Gravina, anticipò la riscoperta del filone creato dalla Rai, poi uscito in edicola in una collana apposita  prima in VHS e poi in DVD. La cosa paradossale era che sia Diego che Mercy, dovettero accontentarsi del romanzo scritto quasi vent’anni dopo dallo sceneggiatore Giuseppe D’Agata perché non era possibile per i due accedere alle puntate originali. Alle soglie del nuovo millennio non era così facile recuperare vecchi film o telefilm.

Il libro, con un finale più vicino alle intenzioni originali rispetto a quello che poi venne mostrato in TV, fu la base per le musiche, ideate dal bassista, e dei testi scritti e poi interpretati da Mercy. Le composizioni del disco sono tutte originali, se escludiamo il Salmo XVII di Baldassarre Vitali, ideato per lo sceneggiato da Luis Bacalov e trascritto però da Banchero dalla versione del remake di fine anni 80. Questo è un po’ un peccato. Sarebbe stato bello ascoltare una versione più heavy del tema Cento campane, miracolo che mise in testa agli italiani una nenia popolana romanesca di streghe e amori perduti, con arrangiamenti prog.

L’album Il segno del comando riesce a sfruttare le suggestioni della storia a cui si ispira, ma non convince del tutto come resa produttiva. Va detto che nel 1997 non era facile uscire con un disco del genere in Italia. Non esisteva più uno sfondo discografico come quello che aveva forgiato le band a cui Banchero si ispirava. Forse di tutti e quattro i lavori realizzati fino a oggi, il primo non a caso è quello più inopportunamente metallico. E non intendo con questo dire che Diego e i suoi fossero estranei a un background metal. Esprimevano e continuano a esprimere alla grande quell’influenza, ma la veste sonora non poteva essere così cruda e piatta per dei contenuti così potenzialmente suggestivi. L’esordio di Banchero e Mercy guarda giustamente a un passato antecedente alla NWOBHM, ovvero al progressive di ispirazione immaginifica e al dark sound meno occultista e a dar di cesello sui suoni ci sarebbe stato bisogno di Mauro Pagani.

Come scrittura, Il segno presenta già alcune delle composizioni più ispirate e incisive mai venute fuori dal progetto. La taverna dell’Angelo e Ghost Lovers in Villa Piuma aprono varchi temporali, esattamente come ne capitavano nello sceneggiato RAI. Al punto che possiamo quasi parlare di solchi dimensionali verso mondi sonori e immaginifici dimenticati. E questi scorci temporali, pazienti come spettri, hanno atteso che qualcuno riuscisse a rievocarne l’essenza, caracollandone dentro gli ascoltatori prigionieri in eterno.

In fondo si tratta di un buon album heavy prog, e in assoluto quello che vaglia la traduzione pop delle complessità spiritiste e occulte dello sceneggiato. La scelta di riproporlo ancora, in una nuova edizione nel 2019 e con l’aggiunta di un inedito (di cui parlerò più avanti) non è semplicemente un meritato omaggio che la band e l’etichetta Black Widow concedono a se stesse, ma il rilancio di un esperimento unico di grande rilevanza culturale.

Der Golem

Il segno del comando, in quanto calderone musicale di Banchero e Mercy, avrebbe potuto seguitare a mettere in musica gli sceneggiati RAI più controversi (per esempio La porta sul buio, Charlie e l’uomo nero o magari quel Ritratto di donna velata già citato di cuore da Banchero in uno strumentale del primo album).

E invece no. Rinunciando alla sicura serializzazione di un’idea vincente, il progetto SDC, vira su qualcosa di molto più tosto e intrigante. La trasposizione del più celebre romanzo di Gustav Meyrink: Der Golem.

Probabilmente molti di voi avranno presente il film muto di Paul Wegener del 1915 o la versione a fumetti del grande Dino Battaglia, ma quelle versioni della storia sono basate su un frammento del complesso e ambiguo romanzo dell’autore praghese. Senza averlo letto non potrete quindi raccapezzarvi con i testi di Komplott Charousek o Dal diario di un tagliatore di pietre. Come genere la produzione è più a ricca e soda rispetto all’evanescente esordio e di sicuro è più centrata sul prog rock che l’heavy, ma senza perdere in tiro e oscurità.

Un lavoro del genere sfida il pubblico fregandosene delle convenzioni sempre più cablate della commercialità. E negli anni 70 non ci sarebbe stato nulla di strano a venirsene fuori con un concept simile. Purtroppo oggi c’è un mondo fruitivo più settorializzato e sebbene i Segno del comando abbiano tutte le carte giuste per fare leva su gente in cerca di un ritorno alla dimensione personale del vintage, tanta altra umanità si fermerà alle apparenze e girerà al largo.

Il volto verde

E se Der Golem resta un lavoro apprezzato ma difficile, Il volto verde lo sarà anche di più. Forse dei primi tre album è il più audace e astruso, ma anche quello che raggiunge apici assoluti di scrittura. Su tutti vi basterà sentire Threnodia delle dolci parole, in cui l’interpretazione di Sophya Baccini, si erge su una suite degna di Queensryche e certa mediterraneità più inquieta di Teresa De Sio. Brano che spreme il cuore dell’ascoltatore in un abbraccio stregonesco. E se ne volete ancora, prendete come pillola di arsenico prima di andare a letto e non svegliarvi più, Retrospettiva di un amore, in cui l’interprete principale dell’album, l’aspra e severa Maethlyiah, vi lascerà nel mezzo di una desolata alba dimenticante.

Purtroppo Il volto verde, album davvero ricco di ospiti prestigiosi del panorama dark rock italiano (Claudio Simonetti, Freddy Delirio, la già citata Baccini e moltissimi altri) risulta piuttosto ostico e spigoloso a livello di sound. È troppo freddo. Fa pensare sì, al verde, ma quello delle sale operatorie e non i melmosi anfratti di un fontanile abbandonato in qualche antica villa padana.

Dice Banchero: “Il paradosso de Il volto verde è la gran quantità di ospiti illustri per una produzione troppo casalinga. Quindi la parte audio ha risentito di determinate scelte che si sono dovute fare in corso d’opera, pur restando a mio avviso un disco con ottime composizioni e con un impianto concettuale molto maturo”.

Di sicuro però, anche in questo caso, l’impresa di mettere in musica Meyrink riesce alla grande. Dispiace che l’Italia non sia all’altezza di un prodotto del genere. Nelle mani di uno Steve Wilson e con qualche soldo in più, oggi parleremmo di un’opera decisiva per il progressive più esoterico, e invece dobbiamo accontentarci di valutarlo usando la fantasia prospettica. Stiamo parlando comunque di una grandissima prova, sia chiaro, ma non il miracolo che poteva essere.

Diego, persona molto disponibile e gentile, ha sempre coltivato interessi per la letteratura più occulta e satanica. Non è un caso che il precedente progetto al Segno sia nato come Malombra, titolo ripreso da un romanzo cupo e misterioso di Fogazzaro.

Di sicuro Gustav Meyrink è autore più sofisticato e per molti versi da sempre poco capito in Italia. Borges ci andava in brodo di giuggiole e anche Gianni Pilo e Sebastiano Fusco tentarono, per la Newton & Compton di farlo conoscere durante la stagione dei supertascabili da edicola dei primi anni 90. Peccato che il pubblico, e mi ci metto anche io, l’abbia percepito solo come un altro, e nemmeno tanto bravo, autore di storie di spettri. Ci spiega bene invece Banchero che Mayrink è molto di più.

“I suoi romanzi sono per buona parte a doppio fondo. Una narrazione sicuramente apprezzabile per chi si limita al contenuto letterale e alle suggestioni gotiche della trama, ma scavando in profondità, la simbologia e i risvolti meno evidenti ci riportano a concezioni molto evolute dal punto di vista esoterico. Un vero e proprio testamento. Quanto da lui scritto circa l’evoluzione che avrebbe vissuto l’umanità era sotto i nostri occhi. La sua, per molti versi, era stata una visione profetica”

Diego mi ha scritto in coda a una risposta su Meyrink una cosa che esprime bene il suo modo di vivere lasciando che sia l’intuizione a determinare certe scelte artistiche e – presumo – anche esistenziali. Nel senso che la decisione di cimentarsi con il vecchio e irrequieto zio Gustav è tutto tranne che meditata. E che dopo anni, come talvolta accade, a Banchero è divenuto chiaro che la scelta di puntare sull’autore del Golem, non poteva che essere giusta e necessaria, per ragioni evidenti solo col senno di poi.

L’esoterico Banchero!

“All’epoca avevamo un calderone sterminato di possibilità e invece abbiamo optato per un taglio netto già a quei tempi. Ovviamente avevamo scelto Meyrink con cognizione di causa, sapendo che egli aveva preso le distanze rispetto a tutto il filone legato alla Via della Mano Sinistra, allo spiritismo e all’occultismo.
L’evoluzione spirituale e la crescita interiore sono obiettivi che non si raggiungono con le scorciatoie che vorrebbe propinarci tutta la corrente New Age. Ci vuole una vita di dedizione per cercare di perseguirli. Sbagliare strada è davvero molto molto semplice. Qualcosa di inspiegabile ci mise sulla direzione giusta e oggi sono grato all’intuizione che ci ha guidato in quella scelta”.

Ormai è chiaro a Banchero che Meyrink aprisse a trilogia discografica per la band, ma al tempo di Der Golem non era scontato il proseguo verso Il volto verde.

L’oscuro dottor Banchero!

“Il volto verde l’ho letto subito dopo il romanzo Il Golem, agli inizi degli anni 2000. Ho un paio di edizioni. Una piuttosto antica intitolata “La Faccia Verde” e una più recente pubblicata da Adelphi. Rimasi molto colpito nel leggerlo a causa del fatto che era strettamente collegato agli studi di psichiatria da me condotti (soprattutto alle teorie psicodinamiche che sono state la mia formazione principale). Compresi, grazie a quell’opera, che questi approcci scientifici erano solo una parte di un più grande bacino di conoscenze. Ogni romanzo di Meyrink è per certi versi l’anello di una catena.  Quindi decisi di scrivere un concept su Il Volto Verde soddisfacendo le richieste della Black Widow, che dopo anni di stallo mi chiese di far ripartire il progetto prendendomi in toto la responsabilità della composizione, della direzione artistica e di quella esecutiva”.

Da questa dichiarazione si evince che Diego, a dieci anni da Der Golem, non aveva ancora tutta questa gran smania di ripartire con Il segno. La Black Widow ha dovuto insistere e forse la sua esitazione è dovuta al fatto di dover scoperchiare di nuovo il progetto SDC senza più il solito Mercy al suo fianco. Di sicuro però il momento in cui Banchero ha deciso di ripartire il gruppo in pista si è dimostrato giusto.

Negli anni in cui l’idea era stata in fase d’incubazione, coltivata con Mercy, e poi quelli dei primi due album (1997-2002), il bassista non aveva mai smesso di ampliare le sue possibilità creative, sperimentando in generi sempre diversi e accumulando nuove conoscenze teoriche, sia per una via professionale che esistenziale. È come se Diego avesse implicitamente riconosciuto dentro di sé un limite rispetto al progetto SDC. E da lì ecco la decisione di soddisfare un bisogno di migliorare. Di attrezzarsi per spingere Il segno ai livelli che intuiva potesse permettergli di arrivare. E dove oggi, con L’incanto dello zero, lui e il suo affiatato pugno di comprimari, veleggia in modo sicuro e quasi spavaldo, tra coacervi di fantasia mitteleuropea e invettive più meridionali e sanguigne.

L’Incanto dello zero

Il quarto album di inediti, tratto dall’inquieto romanzo di Cristian Raimondi dal titolo ominimo, è senza dubbio il più maturo, anche grazie a una produzione davvero corposa e azzeccata. Merito del gruppo ma soprattutto dell’apporto in studio di Tommy Talamanca dei Sadist. C’è solo una cosa un po’ naif che personalmente mi fa impazzire ma potrebbe non essere gradita da alcuni fan. Mi riferisco all’associazione mentale che certe soluzioni tastieristiche e sonore (Al cospetto dell’inatteso e Metamorfosi) mi spingono a compiere quasi a forza con le atmosfere della serie cult Don Tonino, con Gigi e Andrea. E quindi al lavoro del grande Franco Godi autore di colonne sonore stracult come Paolo il freddo e l’Esorciccio e dei jingle di Carosello che hanno fatto storia.

Personalmente incoraggerei una piccola escursione della band, magari in una bonus track, nella produzione televisiva di Don Tonino, sottovalutata rielaborazione in chiave comedy, delle atmosfere inquietanti degli sceneggiati gialli della Rai. In attesa di un riscontro vi faccio sognare con questi meme appositamente creato su mia commissione da Ruggiero Cavallo Goloso.

E già che stiamo parlando di influenze e assonanze, credo sia giusto citare non solo i Goblin ma anche il compositore jazz Giorgio Gaslini, autore di buona parte della colonna sonora di Profondo Rosso, oltre alle musiche splendide e misconosciute degli episodi scritti e in parte diretti da Argento per la serie Rai del 1973, La porta sul buio.

Il professor Banchero

Il mago Diego

Oggi creiamo noi stessi in seno a una singola e settorialissima specializzazione. Ma non solo oggi. Il professor Foster, interpretato da Pagliai ne Il segno del comando era SOLO erudito su Byron e la letteratura romantica e giusto uscendo da quella dimensione e buttandosi in territori più sdrucciolevoli e vasti dell’ineffabile, finiva per risolvere il mistero e salvarsi la pelle, oltre a divenire un uomo più grande in senso intellettuale e sensitivo. Banchero in controtendenza sulla collettiva segmentazione del sapere ha unito nel tempo varie discipline e ognuna di esse è solo un tassello, come dice lui stesso, “utile a raggiungere una visione d’insieme”.

“Io credo che più che “sapere” sia necessario “essere”. Essere comporta andare oltre una specializzazione su qualche materia o disciplina. Serve apprendere l’essenza delle cose rielaborandole per trasformarle in materie prime della propria interiorità profonda. Intendo dire che la conoscenza che viene acquisita nello studio, per essere utile, dovrebbe diventare parte della nostra struttura profonda. Ovviamente scegliendo solo ciò che veramente può rappresentare un elemento necessario a formare le fondamenta della nostra interiorità. L’autenticità è di sicuro una conseguenza di tutto ciò. Il “sapere” può equivalere a indossare una maschera, mentre l'”essere” è aver integrato al nostro interno parti che ne hanno causato il definitivo cambiamento strutturale”.

Nei testi de Il segno del comando, traspare una certa insofferenza nei confronti di chi vive la propria vita inconsapevolmente, lontano da quelle intuizioni e quelle evoluzioni intime che nascono dalla pratica di una realtà più profonda. Un’attitudine ben più aggressiva e conflittuale del mansueto e umile approccio esterno di Diego.

“Io sono sempre stato un inguaribile ottimista sulle capacità delle persone di apprendere e crescere (forse anche per deformazione professionale). Purtroppo, con il passare del tempo, mi sono dovuto spesso ricredere su tutto ciò. In ogni caso non provo disprezzo. Amo e ho molto amato anche le persone più semplici, quelle lontane da ogni proposito di crescita interiore, ma che, per paradosso, sono ben più fertili dal punto di vista animico di tanti eruditi e studiosi che si ritengono a qualche titolo illuminati”.

Certo, così come tanta musica esoterica, citando Gavin Baddeley, è molto meno evocativa di tanta musica creata senza alcun indottrinamento occulto alle spalle…

“Ci sarebbe da parlare molto su questi aspetti. Anche perché il lavoro legato alla crescita spirituale è perlopiù condotto con una spasmodica ricerca che produce una vera e propria accelerazione ideatoria e un utilizzo massiccio della razionalizzazione, che ammazzano del tutto l’intuizione. Le trappole non mancano anche per coloro che vorrebbero a ogni costo progredire. La vita è un esattore molto paziente. Sembra che non presenti mai il conto ma prima o dopo ognuno “tira la riga” e deve fare le somme. La cosa che sempre maggiormente sento è semmai la difficoltà di integrarmi con gli altri, di restare sintonizzato sul sentire comune e questo mi sta spingendo verso un sempre maggiore isolamento”.

E tornando alla band o al progetto. Immagino che ormai sia giusto considerare Il segno del comando più la prima che il secondo. Non si possono realizzare dischi come L’incanto, limitandosi a incidere la propria parte da un culo all’altro del mondo, no?

“Il Segno è nato come un progetto in cui inserire le idee che facevano capo a un approccio compositivo non adatto ad altri progetti. Un progetto che doveva riunirsi occasionalmente per realizzare un nuovo album, ma da Il Volto Verde in poi è diventato una band a tutti gli effetti.
Oggi è una band vera e propria che lavora in modo continuativo ed è fortemente legata ai musicisti che la compongono”.

Per completezza…

Per completezza dobbiamo citare anche il disco …al passato, al presente, al futuro… Live in Studio del 2017 che è un’auto-produzione in cui la formazione più recente si è cimentata in brani estratti dai primi tre dischi.

E soprattutto ricordiamo un trio di composizioni pubblicate separatamente dalla band. Cominciamo dalla lunga Macabro Suite, presente nella compilation della Black Widow …E tu vivrai nel terrore.

“Macabro suite è un brano nato nel periodo delle prime sperimentazioni che hanno preceduto l’album di esordio de Il Segno del Comando. In realtà esistono solo due take di questa composizione. Furono suonate in presa diretta nel corso di una session in cui vennero realizzati 3 brani. Oltre a Macabro suite, ci sono infatti altre due tracce. Una di queste è stata riarrangiata e usata successivamente nell’album Der Golem, mentre la terza è aggiunta come bonus track alla ristampa del primo album in uscita dal 22 novembre 2019”.

Questo materiale antecedente al primo disco de Il segno del comando, ha un tipo di songwriting molto vicino all’approccio soundtrack. Nello specifico di Macabro Suite, non si tratta di una riproposizione gonfiata dello score del film Macabro, diretto da Lamberto Bava e ideato da Pupi Avati. La musica è infatti legata all’assonanza della parola con il modo che Diego ha di intendere la composizione in generale.

“La Danza Macabra è un titolo attribuito a più opere d’arte. Ad esempio il brano per pianoforte ed orchestra di Listz. Inoltre come hai ricordato è anche stato usato il termine Macabro da Bava che è stato a me molto caro. L’ho messo quasi per caso. Più come titolo provvisorio ma poi è rimasto”

La traccia presente nella riedizione del primo disco è Magia Postuma. Si tratta, nella definizione di Diego, di un pezzo di Horror/BeBop/elettrico con il tema eseguito dal basso.

“Il mio quartetto di jazz elettrico veniva dall’hard bop. Quindi lo abbiamo suonato come si suonerebbe un pezzo jazz in quello stile ma con strumenti elettrici. Quando ho scritto “Magia postuma” non dovevo musicare un film. Quindi ho sperimentato delle soluzioni per trovare nuovi approcci per musiche future. Se ci pensi i Goblin hanno saputo far musica Horror partendo dal Funk. Usando a volte un riff blues maggiore in modo ossessivo. Morricone è stato maestro nell’associare le musiche più disparate alle immagini per generare emozioni. Il mio linguaggio dell’epoca aveva una grossa influenza jazz e il Segno del Comando ha attinto in larga parte anche da quella”.

Del resto…

“Del resto, pare che il sabba fosse musicato da ritmiche in 3/4 che con la loro circolarità avevano una grossa carica ipnotica. “Magia postuma” ha a sua volta un tempo ternario. Accompagnato a certe immagini potrebbe diventare particolarmente psichedelico”.

Grazie a Diego Banchero per la gentile collaborazione, la disponibilità a rispondere alle mie infinite domande e per il materiale che mi ha passato. Soprattutto grazie per ciò che sta facendo con Il segno del comando. Il mio articolo è solo un piccolo contributo che spero sia utile a diffonderne i meriti.