Premetto fin da subito che sono anni che non mastico i dischi death metal fatti in questo modo. Mi sembrano spesso troppo chirurgici e laccati, dei selfie musicali ritoccati male, e di solito tendono ad esagerare coi gingilli sulla batteria e i “cut and paste” per tutto il resto. Nei casi più gravi, lo fanno per compensare alcune lacune nella basica formula che conosciamo tutti, fatta di furia, melodia e architetture sonore massicce ed imprevedibili. Fortunatamente, nel caso dei Cattle Decapitation, il ritocchino c’è – e parecchio evidente: grazie Dave Otero – ma convince e rientra pienamente nella loro personale cifra stilistica votata al parossismo senza ritegno. Io li avevo apprezzati con Monolith Of ‘Inhumanity, disco del 2012 che, a parte i deliri nazi-vegan dei testi, mi aveva convinto per la sua vena moderna e intransigente al tempo stesso: niente breakdown stupidini, niente cacatine deathcore o vocalizzi senza testosterone, ma semplice death metal tecnico e spietato, di chiara matrice americana.
Ora me li ritrovo in questo caldissimo autunno con Death Atlas, e riscopro una band matura, di quelle a cui piace evolversi e sperimentare cose nuove, seppur ancora ostinata a parlare di animalismo, catastrofismi assortiti e scarsa fiducia nel genere umano.
Nel mezzo ci sono stati dei cambi interni (i vegetariani ora sono rimasti in due) e un lavoro interlocutorio come The Anthropocene Extinction, che aveva snellito i passaggi più tecnici in favore di quelli più melodici e allucinati.
Per la band californiana questo disco è forse un passo più calibrato rispetto al predecessore e prosegue sulla stessa traiettoria; certo, aggiunge qualche cosa in più in termini di atmosfera – anche grazie a interludi ad hoc, come le due Dying Light o The Ineraseable Past –, ma tutto sommato si rimane da quelle parti, limando e perfezionando una formula già da molti salutata come clamorosa.
Di primo acchito, il sound esageratamente chirurgico e definito, riconducibile al feeling un po’ asettico di molti dischi death e grind odierni, rischierebbe di mandare in vacca tutta l’esperienza, ma poi ti rendi conto che la vera ciccia in questo caso sta tutta nelle composizioni molto ben articolate, nella perizia degli incastri ritmici, nel susseguirsi repentino di umori diversi, che partono dalla mattanza di brani come Vulturous e Finish Them, e sfociano quasi sempre in una catarsi liberatoria di qualche tipo: la melodia tragica di Be Still Our Bleeding Hearts, le pulsioni dal flavour black di Bring Back The Plague, o, ancora, le dilatazioni quasi post-metal che chiudono la title track.
Su tutto si staglia il particolarissimo timbro di Travis Ryan, qui ancor più che vario ed espressivo, capace di giostrarsi in modo impeccabile tra passaggi cavernosi e singing vero e proprio. Sostanzialmente, stiamo parlando di un ottimo lavoro, perfettamente a fuoco nei suoi intenti, e sinceramente non credo io debba sottolineare l’ovvio (compratelo), anche se, per quel che mi riguarda, non c’è quel quid che possa farmelo amare sulla lunga distanza, un po’ per l’attitudine da salvatori del mondo dei protagonisti, un po’ per la sensazione da bello senz’anima che nonostante tutto continua a trasmettermi questo tipo di lavori.