In più di vent’anni di militanza nel mondo del metal ho acquisito poche sicurezze: una di queste è che il metallaro è una creatura difficile da soddisfare. Ma mica perché ha chissà quali pretese, molto spesso lo è perché nemmeno lui sa cosa vuole. Un elogio all’incoerenza di proporzioni blibliche.
Esempio classico: se una band fa tutti i dischi uguali non ha più idee e si deve ritirare, ma se a un certo punto prende una strada diversa o si è venduta o, come minimo, doveva cambiare nome.
Altro evergreen: ci si lamenta della poca affluenza ai concerti, ma si muove il culo solo se vengono in Italia i grandi nomi (Iron Maiden, Metallica).
E poi i discorsi da vecchi: “Ormai non c’è più nulla di interessante/questi qui sono gli ennesimi cloni di X/meno male che ci sono i Tool, loro si che sono super intelligenti”.
Ci si lamenta che non c’è ricambio generazionale, ma quando arriva una nuova band un minimo interessante la si liquida in fretta come “Ecco i nuovi Iron Maiden/Manowar/Judas Priest”, come se per forza di cose si dovesse paragonare il nuovo al vecchio in un circolo vizioso che, per forza di cose, va a danneggiare le nuove leve.
Eppure, che ci crediate o meno, il metal più classico, al giorno d’oggi, sta benone. Nell’undeground si muovono una serie di band dannatamente capaci e interessanti, che non per forza scimmiottano i grandi nomi degli anni 80 ma che al contrario hanno quello che manca alla stragrande maggioranza dei gruppi che vediamo in copertina da tanti, troppi anni: attitudine, convinzione, memoria storica e, magari, qualche idea.
A voi una manciata di band che potrebbero fare la differenza, se glielo permetterete.
LUNAR SHADOW
Cinque tedeschi, attivi dal 2014. In realtà, volendo fare i pignoli, i Lunar Shadow non sono altro che l’emanazione mistico-musicale del genio del Deus-Ex-Machina Max “Savage” Birbaum, chitarrista e leader della band. Suoi tutti i testi e tutte le musiche, questo despota illuminato dirige il gruppo come meglio crede e centellina le apparizioni live della sua creatura in maniera estremamente intelligente.
Tre pubblicazioni fino ad ora: l’interessantissimo (e ormai introvabile) EP Trumphator, il full d’esordio Far from Light (2017) e il recentissimo The Smokeless Fire (2019).
Ma cosa ci propongono questi cinque tedeschi?
Semplice!!!
Heavy metal. Ma non solo, perché le influenze di Max Birbaum spaziano fra i generi e vengono mescolate con lucida follia in ogni singola composizione della band: vi troverete quindi sballottati fra richiami alla NWOBHM, passaggi epic-doom alla Solstice, richiami al death-melodico di Gotheborg (primi Dark Tranquillity, ma soprattutto gli In Flames del dittico The Jester Race/Whoracle) per poi arrivare a sfuriate black made in Dissection o Naglfar. Eppure tranquilli, perché se qualcuno venisse a chiedervi che genere propongono i tedeschi, non riuscirete a rispondere che “fottuto heavy metal con le palle!!!”.
I puristi del genere possono stare tranquilli, perché nel maneggiare i vari (sotto)generi i Lunar Shadow vanno a restituire all’heavy metal quel senso di meraviglia e di impossibile che oggigiorno sembra andato perduto: il merito è di una serie di composizioni estremamente fluide, dannatamente curate e, soprattutto colme di idee.
Provate ad ascoltare They That Walk The Night, secondo brano da Far From Light: con i riff e le intuizioni che si susseguono nel primo minuto e venti secondi una band normale ci costruirebbe almeno tre pezzi. I Lunar Shadow no, non si accontentano manco per il cazzo e ci “legnano” con delle composizioni che non vanno mai dove ci aspettiamo.
E la cosa si fa ancora più evidente nel nuovo The Smokeless Fires, a mani basse il miglior disco di questo 2019 (a casa mia, ovviamente), dove i tedeschi compiono un balzo in avanti di proporzioni mostruose a livello di personalità, aggiungendo a una proposta musicale già epica, oscura e spiazzante, una certa dose di romanticismo decadente dall’indubbio fascino.
E quindi ancora una volta, fra ibridi heavy/goth-rock (Roses), assalti epic/doom/black (Red Nails For the Pillars of Death, Hawk Of The Hills), up-tempos devastanti (Laurelindorenan), ballad strappalacrime (Pretend) e heavy metal d’altissima scuola (Catch Fire, Conajohara No More) i Lunar Shadow dimostrano che al giorno d’oggi, per lo meno in ambito metal, nessuno compone e suona come loro.
Siamo di fronte a una band che è riuscita nel difficilissimo compito di unire tradizione e personalità in maniera pressochè perfetta: in un mondo ideale, Max Birbaum e i suoi prodi starebbero sulle copertine di ogni magazine del settore. E invece no. Ci dobbiamo sucare gli Arch Enemy.
ATLANTEAN KODEX
Altro giro, altri tedeschi.
Attivi in realtà dal 2005, sono tutt’ora a girare nell’underground quando meriterebbero molta più visibilità e attenzione.
Loro mi stanno supersimpatici perchè sono giganteschi e tutto quello che fanno ha una grandeur più unica che rara nel panorama metal attuale. L’epic-doom degli Atlantean Kodex ha un incedere Godzilliano che non riprende praticamente nulla dai padrini del genere (nulla a che vedere con Candlemass, Solitude Aeturnus, Trouble o Saint Vitus), ma piuttosto recupera l’ossatura delle composizioni (ancora una volta) dai Solstice per poi aggiungerci echi di Bathory (post-Hammerheart), Warlord, Manowar, Rainbow e While Heaven Wept.
Di nuovo, quindi, un gruppo che pesca a destra e manca (magari i più maliziosi direbbero “saccheggia”) ma che in realtà riesce a costruire un sound ricco di personalità e di soluzioni tutt’altro che banali. E, soprattutto, un sound che cresce e si evolve di disco in disco, perché se andiamo a soffermarci sul recente The Course of Empire (uno dei migliori dischi di questo 2019) diventa facile rendersi conto di come il nuovo lavoro non sia altro che la summa dei due dischi precedenti, unendo la proposta rocciosa dell’esordio The Golden Bough alle atmosfere ariose e la ricerca melodica del magniloquente The White Goddess.
Tutti e tre i loro full sono sicuramente da aggiungere alla propria collezione, ma l’ultimo di più, dal momento che il combo tedesco ha tirato fuori dal cilindro una serie di composizioni d’alta scuola che passano con nonchalance da assalti epici e marziali (Lion of Chaldea, praticamente la loro Stargazer), solenni pseudo-ballad (The Innermost Light, dagli echi Bathoriani), a leviatani epic-doom del calibro di He Who Walks Behind the Years (uno dei pezzi e dei ritornelli più belli del 2019) o la Title-Track.
Il tutto condito da suoni giganteschi e la giusta dose di tecnica e melodia, oltre che con la notevole prova vocale di un Markus Becker in stato di grazia.
Una band grossa, importante, che infonde nuova linfa all’epic metal e lo fa nel migliore dei modi, ovvero senza sconfinare in altri generi e senza diventare pacchiana o ridondante. E se questo non basta a convincervi oh, fa nulla, potete andare ad ascoltare il nuovo polpettone orchestrale dei Blind Guardian.
IDLE HANDS
Fondati nel 2017 a Portland, gli Idle Hands hanno trasposto in musica uno dei miei sogni bagnati musicali più ricorrenti: unire l’heavy metal più classico alle atmosfere e sonorità goth-rock anni 80 (The Mission, The Cure, Sisters of Mercy in particolare).
La band guidata dal bravissimo singer Gabriel Franco ci riesce praticamente al primo colpo e nel 2018, con l’incredibile EP Don’t Waste Your Time, rilascia sul mercato 5 pezzi che fanno della semplicità e dell’atmosfera le loro armi principali.
Perché gli Idle Hands sono un gruppo tutta ciccia: non si perdono in fronzoli inutili o composizioni complesse o iperstratificate.
Riff-strofa-ritornello-strofa-ritornello-breve assolo-ritornello-fine.
Eppure i loro pezzi si stampano in testa con facilità, perché la band sa maneggiare il genere alla perfezione, e lo dimostra anche nel full d’esordio Mana (2019), dove espande il discorso dell’EP e lo porta a un’ulteriore maturazione.
Estremamente ruffiani e catchy ma non per questo stucchevoli o banali, gli Idle Hands hanno la sfiga di essere arrivati con giusto un po’ di ritardo: negli anni 80 pezzi come Can You Hear the Rain (dall’EP) o Jackie (dal full) li avrebbero resi decisamente ricchi, o per lo meno avrebbero permesso loro importanti passaggi radiofonici.
Ma anche quando si decidono a pestare seriamente, Franco e soci fanno grandi cose: andatevi a guardare il video di Give Me To The Night e ditemi se non vi sembra di assistere a un frontale fra i Judas Priest più cromati con i The Cure più crepuscolari, il tutto condito con un ritornello semplicemente esagerato.
O anche le più epiche Blade And Will (dove le chitarre fanno miracoli all’altezza del ritornello) e By Way of Kingdom, di una semplicità disarmante ma infarcita di melodie ipnotiche, che talvolta ricordano i Septicflesh più tranquilli.
Un gruppo dotato di rara intelligenza e gran gusto, gli Idle Hands: non siamo ancora a livelli epocali sia chiaro, ma giustamente supportati e con un po’ di rodaggio questi simpatici americani potranno fare grandi cose. Intanto sono in giro proprio ora a supportare King Diamond nel suo tour americano.
Voi cosa avete fatto oggi?
CHEVALIER
All’interno di questa lista, il quintetto finlandese rappresenta l’ala più oltranzista e “no compromise” portata quasi al parossismo musicale.
Integralisti nell’immagine, nei suoni e nell’attitudine questi scandinavi (attivi dal 2016) non fanno miscugli strani di sottogeneri, ma ci propongono uno speed-epic feroce e sanguigno, un ideale punto di incontro/scontro fra le velocità sostenute di Savage Grace/Hallows Eve con l’epic più serrato di Omen o Brocas Helm.
Il tutto condito da una scelta di suoni che rappresenta un gigantesco dito medio nei confronti delle produzioni iper pulite e pompate post 2000.
Destiny Calls (2019) full d’esordio dopo un paio di demo, è il classico disco “Per molti ma non per tutti”. Anzi col cazzo. Un disco per pochissimi. Per quei pochi impavidi che riescono ad andare oltre la produzione lo-fi per farsi scartavetrare i timpani con le rasoiate chitarristiche della coppia d’asce Tommi/Mikko e dall’ugola solenne e ultracafona della minuta Emma Gronqvist, che ve lo dico subito, io amo alla follia. Roba che se avessi ancora 15 anni avrei già tappezzato di suoi poster la mia camera. E non perché sia una strafiga, ma semplicemente perché ha più palle lei del 90% dei cantanti maschi dediti al genere oggigiorno. Sentite un po’ cosa combina alla fine di Stormbringer e poi provate ancora a dire la solita cazzata del “Eh ma io le cantanti femmine nel metal non le reggo”.
Roba dannatamente true, e non lo dico né con cinismo e nemmeno con sarcasmo: qui dentro c’è l’essenza stessa del metal, distillata con cura maniacale da parte di una band che se ne fotte ampiamente di piacere a tutti i costi e di qualsiasi cosa che possa essere anche minimamente “di moda”.
Per tutti gli altri oh, mal che vada ci sono i Machine Head.
PORTRAIT
Probabilmente all’interno di questa lista i Portrait sono il gruppo più “Famoso”. Che poi questo termine fa abbastanza ridere, visto che a febbraio 2018, a Mantova, al loro concereto in compagnia di Ram e Trial, c’erano 35 paganti (me compreso). Ho visto più partecipazione alla mia ultima riunione di condominio. No ma poi lamentiamoci che vengono sempre i soliti nomi in Italia.
Attivi dal 2005 e inizialmente liquidati come “Cloni dei Mercyful Fate”, questi svedesi, disco dopo disco, sono riusciti a consolidare il proprio status (nell’underground, nonostante ormai siano alla Metal Blade) e a costruire un sound sempre più personale e riconoscibile.
Perché se è vero che Mercyful Fate e King Diamond rappresentano un’influenza importante per Per Lengsted e gli altri, è altrettanto vero che già dal secondo disco (Crimen Laesae Majestatis Divinae) i Portrait mostravano capacità compositive ben superiori alla media (un pezzo come Beast of Fire non si scrive certo dall’oggi al domani), ma è dal terzo Crossroads che nasce il vero “Portrait-Sound”: composizioni più robuste, una deriva più violenta pur rimanendo in ambito heavy-metal (sentitevi il blast-beat nel finale di Our Roads Must Never Cross) e una notevole attenzione per l’atmosfera.
Con Burn the World, per ora il loro ultimo lavoro, gli svedesi calano l’asso definitivo e rilasciano uno dei migliori lavori del 2017: la band non è mai stata così ispirata, tecnica e personale, riuscendo a sporcare il loro heavy metal con incursioni nella scena estrema sia del loro paese (i richiami ai Dissection all’inizio di Likfassna) o addirittura alla Florida (i primi riff di Flaming Blood urlano fortissimo Morbid Angel). Disco dannatamente interessante e violentissimo per il genere, Burn the World è un lavoro eclettico e versatile come pochi. Peccato che se ne siano accorti in pochi, perché bisogna concentrare la propria attenzione all’ennesimo festival pseudo-pagan-viking-drakkar-beviamo-idromele-dal-corno-perché-fa-figo degli Amon Amarth.
Queste sono solo cinque band, ma ce ne sono altre. Basta cercare. È sufficiente smettere di lamentarsi e utilizzare le proprie energie per dare un occhio in giro nell’underground e di gruppi validi se ne trovano a palate.
Se poi siete come il sottoscritto, che preferisce l’ennesimo gruppo poco personale ma che si dedica al metal con cognizione di causa ed entusiasmo piuttosto alla new sensation super innovativa che va a pescare chissà dove per risultare originale a tutti i costi, vi lascio qualche altro nome che potrebbe fare per voi: Riot City (più priestiani dei Judas Priest degli ultimi 20 anni), Carriage (per gli amanti di King Diamond), Vultures Vengeace (US Epic Metal, dall’Italia), Argus (heavy/doom dagli US), Haunt (NWOBHM di altissima scuola), Air Raid (heavy classico fra Maiden, Priest e Malmsteen dalla Svezia) e via discorrendo. Guardate soprattutto in Svezia che a quella gente non so mica cosa gli danno da mangiare.
Ormai con internet abbiamo la fortuna di aver accesso a tutto e subito: non ci sono davvero scusanti per essere pigri. Togliamo qualche visualizzazione ai soliti noti e regaliamoae a gruppi che davvero si fanno il mazzo per emergere, non sia mai che ci prendiamo gusto.