Red Scalp – Cavalcata nei verdi pascoli dell’equilibrio

Fatti solidi circa la globalizzazione in ambito musicale: dove vi aspettereste, in Europa, le migliori scene Desert e Stoner? Ovviamente in Grecia e Polonia!
Mi piace pensare che esistano dei fiumi sotterranei che collegano la pulsione black metal dei Rotting Christ a quello che fu il compianto Fuzztastic Planet Festival di Prosotsani che per sole tre edizioni rappresentò il punto d’incontro fra la scena stoner greca e quella internazionale. Simili correnti ctonie, come le chiamerebbero recensori molto più titolati di me, ma che io definirò più onestamente “fognature creative”, me le immagino nella nordica Polonia, dove di recente mi è capitato di seguire in tour una band di amici e dove, in definitiva, mi sarei aspettato quel qualcosa in più da una scena che sa sfornare band come Diuna, Spaceslug, Gravity Eater e i nostri protagonisti: Red Scalp.

Ma, si sa, noi italiani siamo i provincialotti d’Europa: bravissimi a chiacchiere, siamo esterofili fino al midollo e diamo per scontata la nostra inferiorità, soprattutto organizzativa, quando imputiamo il nostro anonimato artistico alla scena locale italica, o meglio, all’assenza di una scena.

“Se fossimo nati in Norvegia allora sarebbe stata un’altra storia”.

“Se venissimo da Colonia, allora sì”.

“Dovremmo andarcene a Londra per essere apprezzati”.

E simili.

Poi incidentalmente un giorno passi da Pleszew, a un centinaio di chilometri da Poznań, e ti ritrovi davvero in una periferia, dignitosissima, ma come ce ne sono tante in Italia e cominci a guardarti attorno e a chiederti cosa diamine c’entri quel posto con un disco sludge dannatamente accattivante come questo The Great Chase in the Sky dei locali Red Scalp.

Dove sono i deserti? E le pianure per la caccia al bisonte? E i verdi pascoli di Manitù che puoi raggiungere sulle ali dei canti sciamanici e soprattutto dei funghi giusti?
Ti scopri vittima non innocente dei tuoi luoghi comuni e, come oggi va di moda dire, “bias cognitivi” quando poi, parlando coi ragazzi del luogo, scopri che si lamentano delle stesse cose di cui ci lamentiamo noi: poca gente ai concerti o comunque sempre le stesse facce, pochi posti in cui suonare, cachet praticamente inesistenti. Eppure qui qualcosa di grosso si muove, da anni, e non solo in ambito stoner, sludge, doom.

D’altronde cinquant’anni fa Birmingham non doveva essere granché meglio di qui quando Tony Iommi e quegli altri tre si misero a fare il Sabba Nero ispirandosi alla nostra periferia dell’orrore, arrivata ovunque grazie ai vari Lucio Fulci, Pupi Avati e Lamberto Bava.

Perché dovremmo allora sorprenderci che i Red Scalp abbiano messo un segno consistente al genere con questo loro terzo lavoro? Perfino soppiantando gli americani ai quali inevitabilmente non si può non pagare dazio, non fosse altro per le ambientazioni rituali. Quel fiume sotterraneo di cui sopra ci pare di sentirlo immediatamente sotto i piedi adesso.

E non è l’uso di sintetizzatori e sax (mai troppo invadenti in verità) o le cavalcate e gli innesti acustici che spuntano qua e là e ci ricordano dei Pink Floyd di The Dark Side of The Moon impegnati in una capriola con gli Hawkwind con Lemmy, o ancora che “the chase is better than the catch” e vado a ruota. È piuttosto la sapienza compositiva che c’è dietro questi pezzi, la misura negli arrangiamenti, l’innegabile perizia tecnica con cui questo lavoro è stato realizzato.

I Red Scalp non vanno mai oltre la loro misura e dimostrano di essere persone intelligenti oltre che eccelsi musicisti.
Già col precedente lavoro, Lost Ghosts, avevano dimostrato la dote della proporzione, senza eccedere mai nei preziosismi stilistici e nel minutaggio. In questo The Great Chase… perfezionano ulteriormente questa abilità confezionando delle tracce che non suonano mai ripetitive e riescono a concedersi momenti di lirismo e melodia, alternati a riff che, pur suonando familiari perché perfettamente consoni ai canoni del genere, mettono alla prova la vostra cervicale.

Il pezzo più lungo del disco, Chase coi suoi 11 minuti e lascio, è emblematico in tal senso: introduzione d’atmosfera e poi riffone sabbathiano che prelude alla sostenuta cavalcata finale con assolo di sassofono: la parte più cosmica del lavoro. Oppure nella più progressiva Slide in cui mi risuonano echi del più ispirato Alan Parsons e che già immagino rimiscelata per accompagnare le danze notturne di moderne streghe e arpie.

Non mancano parti cadenzate e incursioni nel genere doom, sempre caratterizzate da quel muro di suono che è uno dei marchi di fabbrica della band, ottenuto immagino non senza fatica attraverso uno studiato equilibrio in cui nessuno strumento o effetto prevale mai sul resto.
Insomma dovreste proprio dare un ascolto questo lavoro, anche se non siete addentro al genere. Come tutti i viaggi sciamanici che si rispettano questo disco può essere il vostro spirito guida.