maurizio de paola

Intervista a Maurizio De Paola – I Koza Noztra, la Fanta(co)scienza e il Metal!

Sono un estimatore di Maurizio De Paola e se ancora compro Rock Hard, qualche volta, è perché credo nel suo buon gusto (è un fan sfegatato delle Baby Metal e degli Avenged Sevenfold) e per le interviste del Biani. Sono interessato più alla sua attività giornalistica e di scrittore ma queste chiacchiere che abbiamo fatto hanno toccato anche la sua carriera parallela di musico. Do You Know i Koza Noztra? Vi auguro un’abbuffata di curiosità.1 – Maurizio De Paola è un musicista, il direttore di Rock Hard, un editore e uno scrittore di saggi e di romanzi… Solo che mi hai domandato di intervistarti giusto in qualità di vocalist e guitarrista dei Koza Noztra. Cosa che di certo non farò. Perché sminuisci gli altri 3/4 di te stesso?

A dire il vero non sono il cantante ma uno dei due chitarristi… ho ricoperto quel ruolo solo all’inizio, fino al 2008. Sul primo disco ci sono alcuni brani cantati da me perché L’Onorevole entrò nella band solo a metà registrazioni. Adesso per il nuovo disco Sancta Delicta – Atto II si è aggiunta anche la voce femminile de L’Annunciatrice.
A proposito: ma perché non l’hai ancora recensito?

Ce ne stiamo occupando. Noi cavalli abbiamo i tempi nostri, abbi fede.

Comunque, tutta la mia vita ruota intorno alla musica, anche come editore o scrittore. “Fare” la musica, suonarla o comporla è il momento più eccitante che esista.

2 – Parliamo invece della tua attività di “giornalista” metallaro. Lo metto tra parentesi perché non so se tu sia davvero un giornalista col patentino eccetera. Lo sei?

Certo che lo sono. Dal 1995.

3 – Ok. Se non sbaglio tu scrivevi su Hard! con Luca Fassina e Barbara Caserta. Che ricordi hai di quei giorni?

Luca lo conosco poco di persona, mentre con Barbara siamo rimasti ottimi amici. Hard! era una rivista avanti coi tempi, soprattutto nel linguaggio, libero e spesso provocatorio. Quando leggo siti web oggi come Vice oppure Rolling Stone (Italia) penso immediatamente ad Hard!, da cui credo abbiano preso molto.

4 – Da Barbara Caserta a Barbara Francone. Lei e Stefano Cerati sono al tuo fianco nella redazione di Rock Hard. Siete praticamente rimasti i soli a pubblicare una rivista incentrata sul presente del metal e l’hard rock in Italia. Che effetto fa?

Un po’ di tristezza perché sono sempre stato un avido lettore di tutte le riviste, a cominciare dal primo numero di H/M con Ozzy Osbourne in copertina. Ovviamente ogni storia è diversa e ci sono mille motivi differenti per cui una pubblicazione continua oppure no. A nostro vantaggio, forse, abbiamo il fatto di essere completamente indipendenti, di non dipendere da nessuna casa editrice “esterna” che magari decide di togliere di mezzo una pubblicazione se gli indici di redditività non sono adeguati, se i costi superano una certa soglia ecc…
In fin dei conti, l’heavy metal è la nostra vita, il nostro mondo. Difficile immaginare di non farlo con tutte le energie possibili.

5 – Hai scritto un libro di grande interesse che è Il Lato Oscuro, dove prendi in esame i più svariati temi presenti nelle canzoni metal. Sei convinto che l’heavy metal sia una cultura che va oltre la musica, con una cinematografia, una letteratura e un’arte ricollegabili? Ne caso mi citeresti qualche libro che non sia scritto da Tolkien e Lovecraft?

Se l’heavy metal non fosse una cultura vera e propria non sarebbe durato così tanto tempo. Anzi, a mio avviso, insieme al reggae è la cultura musicale più auto-referenziale che ci sia, nel senso che è essa stessa un mondo finito e completo. Certo, i confini di questo mondo non sono ben definiti, ma già il fatto che nel metal se ne discuta continuamente, di ciò che è metal e di quello che non lo è, è il segno di una costante definizione dell’identità, che in fin dei conti è la sua forza.

Un libro da citare è senza dubbio Metallo Urlante di Valerio Evangelisti, che mi aprì gli occhi riguardo alla possibilità di usare la musica come fonte d’ispirazione per la narrativa e non viceversa (come avviene per le colonne sonore). In quel libro ci sono quattro racconti intitolati Metallica, Pantera, Sepultura e Venom che non hanno direttamente a che fare con i gruppi in questione, ma che riflettono nella scrittura (di genere fanta-horror-apocalittica) le suggestioni e le vibrazioni che la musica stessa induce.
Adoravo il primo Tiziano Sclavi, che era un narratore estremamente metal e che, se noi italiani sapessimo valorizzare quello che abbiamo, avrebbe già vinto il Nobel per la letteratura da un pezzo.

6 – Io ti apprezzo molto come critico metal e trovo che tu sia sprecato nell’asfittica veste di recensore e di intervistatore. Come direttore “dovresti ordinarti” di scrivere degli editoriali. A tal proposito, a Rock Hard negli ultimi anni non ne fate mai. Non c’è nessuno che ci metta la faccia, che abbia con il pubblico un rapporto diretto. Penso al tempo di Signorelli e Pascoletti. Fuzz ancora tende a mettersi davanti a tutto e tutti e dialogare con i lettori. Voi invece mandate avanti il lavoro. Ma un pizzico di autoreferenzialità credi sia tanto sbagliata?

Per dire cosa? La nostra politica su Rock Hard è sempre stata quella di far parlare il più possibile i protagonisti, le band, gli artisti. Quello che abbiamo da dire e che può essere di qualche interesse lo possiamo dire nelle rubriche e nelle recensioni. Sono uno spazio più che sufficiente. Le facce che interessano a chi ci legge sono quelle dei musicisti, non le nostre. Com’è giusto che sia.

Lasciamo perdere! Domanda 7 – Parlami della tua smodata passione per Avenged Sevenfold e Baby Metal… So che Cerati non vuole che si sappia in giro, vero?

Ahahah… ma chi le dice queste cose? Agli Avenged Sevenfold abbiamo dedicato per due volte la copertina di Rock Hard (2013 e 2017), come è logico che sia, dato che si tratta della band metal di maggior successo tra quello uscite negli ultimi 20 anni. Stesso discorso per le Babymetal, che sono un altro grande fenomeno degli ultimi tempi e a cui non abbiamo mai fatto mancare lo spazio sulle nostre pagine.

A cui però una copertina vera e propria non avete ancora trovato l’occasione buona per dedicargliela, giusto?

Poi a livello personale possono piacere moltissimo ad alcuni ed essere detestati da altri (come tutte le band, del resto; anche Slayer e Metallica vantano legioni di denigratori) ma il compito del giornalista musicale non è raccontare i propri gusti e le proprie idiosincrasie. Per come la vedo io, un giornalista descrive, contestualizza e “racconta” un disco o un gruppo al lettore, fornendogli quegli elementi che servono a inquadrarlo nello scenario della sua storia artistica e dell’ambiente che lo ha partorito.
Gli Avenged Sevenfold li ho scoperti un po’ tardi, solo nel 2008 vedendo il video di A Little Piece Of Heaven. Da quel momento è stato un crescendo unico. Per me sono una delle più grandi metal band di tutti i tempi, con un chitarrista (Synyster Gates) degno erede di gente come Randy Rhoads, Criss Oliva e Mark Reale.
Le Babymetal, invece, le ho scoperte sin da subito (2014). Credo che nessuna altra band rappresenti così bene lo “zeitgeist”, lo spirito dei tempi di questi anni Dieci come loro. E infatti quelli che le detestano spesso detestano quest’epoca, prima ancora che la band.

8 – Ottima osservazione, Maurizio. Senti, una volta mi hai detto al telefono che con i Pantera e la loro rivoluzione, nel metal, è sparito il “crescendo”. Trovo sia molto interessante questa cosa. E in effetti è quello che adoravo del metal da ragazzino. Mi piaceva la partenza dei pezzi. Prima la chitarra, poi gli stacchi di basso e batteria, poi tutti insieme con la voce che ci dava di acuto. Però i Pantera mi piacevano parecchio. Avevo bisogno di quella roba, quando uscì. Inoltre un pezzo come Cemetary Gates un crescendo ce l’ha eccome, no? Però è innegabile che abbiano dato qualcosa al metal e qualche altra cosa abbiano tolto.

Si tratta di un discorso complesso, ma che vale la pena di fare. La “scomparsa” del crescendo nel metal è una caratteristica che si manifesta in tutti gli anni Novanta, che poi si è tradotta col passare del tempo nell’approccio che tecnicamente viene chiamato “straight in your face”, dove tutti gli strumenti partono in contemporanea o quasi e le dinamiche vengono appiattite da tonnellate di doppia cassa e ritmiche di chitarra onnipresenti.
Quest’approccio si è affermato in parallelo con un mito: quello del presunto crollo della capacità di attenzione da parte degli ascoltatori, che non sarebbero più capaci di concentrarsi su un brano musicale per più di una manciata di secondi a causa di internet e di YouTube.
Perché dico che è un mito? Perché è una cosa che sento da anni, ripetuta in maniera ossessiva da giornalisti, artisti e discografici, spesso citando l’inevitabile studio scientifico di qualche prestigiosa università (in genere anglosassone) che lo confermerebbe. E così tutti se ne convincono.
Poi, però, accade che nel 2014, vado al Summer Breeze Festival in Germania e vedo (e sento) migliaia – se non decine di migliaia – di ragazzi (molti giovanissimi!) che cantano a memoria dalla prima all’ultima nota tutta la suite Time dei Wintersun, uscita due anni prima. E quando dico dalla prima all’ultima nota, intendo parti strumentali comprese. Inoltre, non era affatto una cosa inattesa, dato che i Wintersun erano headliner su uno dei due palchi principali in quella giornata.
Un cosa del genere sarebbe degna dei Pink Floyd, ma non ce ne accorgiamo perché siamo tutti convinti che oggi i giovani “non abbiano capacità di attenzione” e quindi continuiamo a propinargli roba “straight in your face”. Per fortuna quei fan dei Wintersun non lo sanno di avere una soglia di attenzione bassissima e non hanno letto i serissimi studi scientifici dell’università del vattelapesca che li definisce – scientificamente, eh! – dei semi-lobotomizzati che sentono solo i primi 5-10 secondi di una canzone.
Molti non si pongono il problema che quando è così è perché quei 5-10 secondi sono tutto ciò che vale la pena di ascoltare di un determinato pezzo e che in quelli seguenti non ci sia più nulla da dire.

9 – Ti faccio la ola da solo. Ecco un argomento valido che di sicuro non sarebbe mai venuto fuori in una recensione o tra le domande di un’intervista. Lo vedi che hai altre cose da dire e che ci vorrebbe uno spazio libero per esprimere? Ma lasciamo stare. Tornando al vostro Magazine, sul serio il numero più venduto di Rock Hard aveva in copertina gli Avantasia?

Negli ultimi tre anni sì, ma in realtà non ci sono mai grandi differenze tra un numero e l’altro. Abbiamo la fortuna di avere dei lettori attentissimi e molto fedeli, a cui non sfuggono nemmeno i più piccoli errori di stampa. Ecco perché ogni mese fare la rivista e pubblicarla è un lavoro massacrante, ma appagante.

10 – Ti dirò i nomi di tre band e vorrei un tuo parere. Ghost; Mastodon; Kvelertak.

Perché proprio queste tre?

Perché dato che delle Baby Metal e gli Avenged Sevenfold abbiamo già parlato, secondo me queste tre sono le più rilevanti degli ultimi dieci anni.

Comunque, da un punto di vista strettamente personale: i Kvelertak li trovo una band trascurabile, i Mastodon hanno buone idee ma amano troppo complicarsi la vita e i Ghost hanno l’intelligenza di far girare tutta la loro musica intorno alla propria immagine, che poi è anche il loro concept.

11 – Tre firme metalliche. Signorelli, Fuzz, Cerati. Cosa ti piace e cosa non condividi del loro modo di scrivere di metal?

Tutti e tre hanno in comune una cosa: il grande entusiasmo che mettono dentro i loro articoli. Un entusiasmo che si respira nella lettura, tanto nelle stroncature quanto nelle recensioni ultra-positive.
Il mio grande riferimento nel campo del giornalismo musicale, però, è sempre stato Piero Scaruffi. La sua Storia del Rock l’ho divorata e mi ha aperto la mente. I Beatles dicevano che quando leggevano le recensioni dei loro album, scoprivano dettagli delle loro canzoni a cui non avevano mai pensato (coscientemente). Beh, il massimo rivelatore di quei “dettagli” è Scaruffi.

12 – Ok, Scaruffi ma non mi hai detto cosa non ti piace di Signore… va beh, lasciamo perdere. Parliamo dei Koza Noztra e di una “Koza” che hai detto in proposito. “Se il rock non fa incazzare nessuno allora che ci sta a fare?” Mi sorprende che la scrittura rock, il giornalismo rock e metal siano così tranquilloni e prevedibili, invece… Dovrebbero fare incazzare il mondo. Metal con la penna, cazzo, ecco il mio modo di intendere lo scrivere! Non credi che la critica rock dovrebbe fare alzare i culi dei lettori dalle sedie?

Se il rock e il metal non fanno più incazzare nessuno, come e perché dovrebbero farlo i giornalisti? Sarebbe come pretendere da un cronista di calcio che scenda in campo e faccia vincere la squadra che sta giocando male in quel momento. Io ci provo lo stesso a scendere in campo, ma la realtà è che oggi nessuno si incazza veramente per niente. Si fa solo finta, ma dura poco e soprattutto l’incazzatura non viene realmente messa in pubblico e men che mai in scena.

La musica rock sta perdendo la sua funzione catartica perché è concentrata a guardarsi l’ombelico e non “ferma il momento” come una volta. Vedo gruppi che parlano di sesso pensando di essere sconvolgenti… cosa? Nell’epoca del porno-web che entra a fiumi nelle case e sui telefonini di chiunque? Oppure iconografie da film horror degli anni 60 o 70… ma chi dovrebbero impressionare? Adolescenti che vedono ogni giorno in TV o su internet dozzine di massacri ed efferatezze reali? Il vero problema del rock e del metal è che stanno diventato rassicuranti, altro che far incazzare qualcuno!
Però forse è vero che i tempi sono cambiati e la musica non ha più quella valenza sociale di una volta, per cui è diventata solo un linguaggio con cui comunicare e riconoscersi, ma non più una bandiera da sventolare per raccogliere altre bandiere. Anzi, serve proprio a rassicurare, a sedare, a creare bolle protettive.
Prendi il caso della Trap. Raccoglie così tanti commenti negativi e tanti insulti che qualcuno la paragona al fenomeno Punk.  Ma la cosa che ho notato sin dal primo momento della Trap è l’abbassamento del volume, dei toni, la riduzione delle vibrazioni primordiali fino alla quasi scomparsa degli strumenti. Tappeti sonori soffici, ipnotici, onirici, dove qualcuno srotola i propri sermoni, ma sempre a bassa intensità fisica, con voci strascicate e spezzettate, mai veramente urlate, esplosive. Per anni la musica di una generazione voleva essere sempre più rumorosa di quella precedente. Il rumore, l’aumento del volume, dei toni… era concepito come un inno liberatorio della gioventù contro il mondo dei  “vecchi” (spesso solo i fratelli maggiori).
Il mondo è cambiato e oggi il rock non è più una chiamata alle armi, ma al massimo un rifugio interiore. Certo, i rifugi interiori sono importantissimi, perché anche se non cambiano il mondo, cambiano te stesso. E non è assolutamente poco.

13 – Forse il solo modo di fare la differenza era sposare la rivoluzione alla riduzione del volume, visto che nell’altra direzione, oltre il porno-grind non so cosa potessero inventarsi, le canzoni suonando i carrarmati direttamente nelle case della gente, forse. Torniamo ai Koza Noztra. Siete una concept band e girate da undici anni, aveta da poco pubblicato il vostro quinto looooong-playing. Avevate detto che una volta finito di sbrigare il vostro concept vi sareste tolti di torno. Ve la state pigliando comoda, eh?

In realtà siamo al sesto album, anche se Cronaca Nera e Sancta Delicta sono stati divisi in due parti per poter essere pubblicati prima. Quindi, senza le scissioni, saremmo al quarto. L’ultimo sarà il prossimo, anche se pure in quel caso stiamo ragionando sul fatto di farlo uscire a puntate.
Dopo, ci togliamo dalle scatole, fidati. Tutto quello che dovevamo dire sarà stato detto e non ci piace aggiungere troppo superfluo al necessario.

14 – Tu sei il curatore di una collana letteraria incentrata sulla fantascienza esistenziale. Tra i tuoi libri preferiti citi Gli Ultimi Giorni Dell’Umanità di Karl Kraus. Non ti sembra di essere una specie di scrittore piuttosto raro? O ci sono autori italiani in cui ti riconosci?

Il prossimo e ultimo disco dei Koza Noztra si intitolerà proprio Gli Ultimi Giorni Dell’Umanità e sarà una nostra personalissima interpretazione dell’opera di Kraus. Chiamiamolo iper-realismo letterario, che a mio avviso va molto a braccetto con la fantascienza sociale ed esistenziale. Molti pensano che la fantascienza parli del futuro, ma a mio avviso è un errore. La fantascienza parla solo ed esclusivamente del presente, delle nostre proiezioni e delle nostre paure nei confronti di un mondo complesso (tecnologico, politico, scientifico, sociale) di cui non abbiamo le chiavi, non sappiamo praticamente nulla e non siamo in grado di controllare. Per me la fantascienza non ha neanche a che fare con la “scienza”, ma con il nostro rapporto con la “conoscenza” di cui abbiamo solo una visione limitatissima e che usiamo ma non comprendiamo. Qualche tempo fa uscì un romanzo di Vittorio Catani intitolato Il Quinto Principio che ipotizzava in un futuro non lontano che le persone potessero inserirsi nel cervello estensioni di memoria come se fossero computer da aggiornare.
Non so se sono uno scrittore “raro” o meno, però non mi riconosco in gran parte della narrativa attuale (italiana e/o straniera). I motivi sono molti: eccessivo descrizionismo, troppa azione da film o telefilm, poca introspezione, poca riflessione filosofica, poca credibilità, personaggi stereotipati e luoghi comuni a catinelle. Un romanzo non è un film o un fumetto, ma troppo spesso viene trattato come se fosse la sceneggiatura di entrambi.

Ho letto di recente l’ultimo di Giancarlo De Cataldo, L’Agente Del Caos. In pratica un telefilm poliziottesco italo-americano fatto pure male, pieno zeppo di personaggi inverosimili e “formattizzati”. Ecco, in quel tipo di narrativa non mi riconosco, come non mi riconosco in quegli autori alla Stieg Larsson o alla Giorgio Faletti (pace alle anime loro) – ma anche alla Stephen King – che ci mettono tre pagine per dire che un tizio ha tirato fuori una tazza da una credenza. Adoro invece Cormac McCarthy e il già citato Tiziano Sclavi proprio per la loro essenzialità che lascia tutto lo spazio possibile alle immagini della mente, pur non tralasciando nulla.

15 – La scrittura è la principale forma di comunicazione di oggi. Quella e i vocali di wazzap. Io e te abbiamo avuto una conversazione telefonica in cui io ho sentito che tu sorridi tantissimo. Io ti immaginavo più tenebroso e serio a leggere i tuoi pezzi e i commenti o i messaggi su messenger. Un tipo alla Erri De Luca con un ascesso in corso. Invece sei una specie di Troisi a cui qualcuno sta facendo il solletico ai piedi. Ti ci riconosci?

Ti dirò un cosa sconvolgente. Sebbene sia di Napoli, non ho ancora letto nulla di Erri De Luca e non sono mai stato un grande fan di Massimo Troisi, se non quando era ne La Smorfia. Però in fatto di cinema ho dei gusti stranissimi e non mi piace il 98% e più di quello che viene proposto nella sale o in TV.
Come tutti, sono costretto a convivere con i social le chat, ma in fin dei conti non ne sono un grande utilizzatore.

16 – Che ne pensi di Classix Metal? Lo compri mai?

Quando lo trovo in edicola, lo prendo sempre volentieri. Non sono un grande nostalgico, anzi penso che la nostalgia sia una trappola micidiale, ma le finestre sul passato, se non si aprono troppo spesso, danno una buona boccata d’aria per immergersi nel presente.

17 – I Koza Noztra non escono con etichette note. Siete indipendenti. Ma vi hanno mai fatto proposte le case discografiche quelle belle belle?

Mai. Neanche una volta, nemmeno per sbaglio.

18 – Mi ha colpito molto l’idea di Ombre Metalliche (2017), in cui hai cercato di “suonare” metal con le parole, lasciando che la musica e le suggestioni che ti provocava guidassero la tua scrittura. Hai detto di esserti ispirato a Metallo Urlante di Evangelisti, giusto? Quali sono secondo te gli autori che quando scrivono fanno metal?

Non saprei, anche perché ognuno di noi ha in testa una concezione di versa di metal. Per anni è stato considerato Stephen King l’autore più metallaro che ci sia, ma io lo trovavo molto prog, invece. Per certi versi, ancora oggi i testi più metal di tutti tempi restano l’Apocalisse di Giovanni e l’Edda di Snorri.

 

20 – Te lo chiedo in qualità di editore di Ambrosia. Vendere libri in edicola pensi sia una strategia vincente?

Non credo che la vita sia un vincere o perdere in continuazione. Questo è un modo di pensare molto americano che negli ultimi anni viene instillato a martellate dai media nella mente delle persone, soprattutto tramite i programmi TV rivolti ai più giovani. Il mondo viene descritto come diviso in “winners” e “losers”, mai come formato da gente che cerca di fare quello gli piace, che gli da la felicità fregandosene se una cosa sia vincente o perdente.
Ambrosia è la mia personale ricerca delle felicità a cui non riesco neanche a dedicare tutto il tempo che vorrei, anzi… come dico sempre: ci vorrebbero giornate di 48 ore e neanche basterebbero.