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Fabio Giovannini – La faticosa strada dello scrittore indipendente

 

Sono cresciuto con i libri di Fabio Giovannini. Da ragazzino, ai primi anni delle superiori, fotocopiai il suo saggio sui Serial Killer e lo appiccicai nelle pagine del mio diario, così da poterlo leggere e compulsare ogni volta che mi fosse venuta a noia la lezione (e accadeva spesso). Praticamente lo imparai a memoria. Devo a Giovannini la scoperta di Pete Walker e il suo geniale sceneggiatore David McGillivrey. Nella biblioteca della mia scuola trovai anche il suo testo su Cyberpunk e Splatterpunk. Lo prendevo in prestito spesso e me lo leggevo e rileggevo. E alla fine non avevo subito collegato il suo nome a questi due libri. Mi interessavano gli argomenti e meno chi li avesse scritti. Poi mi accorsi che quelli e altri testi che avevo in casa erano scritti da lui. Ecco, tanto per farvi capire quanto è stato importante per me strappargli un’intervista, cosa che non concede a chiunque. 

1 – Leggendo su Wikipedia dei suoi inizi e della sua carriera di saggista io mi chiedo se oggi sia ancora possibile ottenere certi risultati. Oltre cinquanta libri sugli argomenti più disparati, dall’horror al porno, dalla politica al sociale. Esiste ancora in Italia un editore pronto a scommettere così tanto su temi alternativi come quelli che ha trattato lei? E soprattutto esiste ancora il saggista inarrestabile Fabio Giovannini?

Oggi l’editoria indipendente di dimensione medio-grande è sostanzialmente sparita. Però si sono moltiplicati i micro-editori, grazie anche ai vantaggi della stampa digitale. Se però in passato i libri degli editori indipendenti avevano una propria vita nelle librerie, oggi con le librerie supermercato Feltrinelli-Mondadori non c’è più spazio e si devono trovare altre forme distributive. Inoltre è in pratica esclusa la possibilità di avere recensioni e segnalazioni sulla stampa mainstream. Per quanto riguarda il saggista inarrestabile Fabio Giovannini: esiste ancora, ma ha abbandonato momentaneamente la saggistica politica. Continua invece l’indagine sull’immaginario. Editori di riferimento comunque non è ho più e sto sperimentando l’autoproduzione.

2 – Non ha mai scritto di musica. Mi piacerebbe domandare quali generi le piacciono e se ha mai apprezzato o si è interessato all’heavy metal.

Se devo essere sincero, è la musica classica che mi ha accompagnato quasi sempre, con una predilezione per i Leader di Franz Schubert. Per qualcosa di più moderno, ascolto con piacer il vecchio Dark e Gothic. Nell’heavy metal trovo interessanti i Powerwolf e i Rammstein, forse influenzato dai loro video.

3 – Nell’elenco parziale dei libri che ha scritto, sulla pagina di Wikipedia, manca quello che secondo me è il suo lavoro più audace e suggestivo: Necrocultura. Che ricordo ha di quell’esperienza editoriale? Sente che potrebbe scrivere un capitolo due o rilanciare il primo libro in una nuova edizione aggiornata? Ricordo che per leggerlo ho dovuto farmelo spedire da una biblioteca del nord-Italia, fotocopiarlo e rispedirlo indietro.

Questa domanda mi permette una divagazione sullo stato dell’editoria in Italia. L’esperienza editoriale di Necrocultura era con la Castelvecchi prima maniera. Purtroppo Castelvecchi aveva la cattiva abitudine di fare contratti e non pagare. Sia chiaro, ho sempre pubblicato anche gratis, per editori amici, i libri che mi interessava scrivere. Ma trovo insopportabile che editori con piglio manageriale si fingano seri, facciano firmare contratti che prevedono interessanti diritti, vendano e incassino per poi tirarsi indietro al momento del saldo all’autore… A peggiorare le cose, la Castelvecchi 1.0 fece fallimento, il catalogo passò a un nuovo proprietario che continua ad avere in catalogo i miei libri senza onorare alcun impegno. Solo in Italia possono succedere cose del genere, dove si considera la pubblicazione di un libro come una sorta di regalo da parte dell’editore che quindi si sente autorizzato a fare profitti (anche minimi) sul lavoro di autori che non vedono un centesimo. Necrocultura doveva uscire qualche anno fa in edizione aggiornata, ma l’editore si rivelò addirittura più inaffidabile di Castelvecchi e il progetto abortì.

4 – Vorrei tanto leggere un suo lavoro sui social. Cosa ne pensa e come li affronta?

Credo che siano un fenomeno decisivo dei nostri giorni, non escludo di dedicare qualcosa al tema in un prossimo futuro. I social stanno cambiando l’identità degli individui. Inducono di fatto a un esibizionismo illimitato e alla perdita di qualsiasi freno inibitore (il che potrebbe in teoria essere un dato liberatorio, ma solo in teoria). Resto sempre impressionato dalla mutazione che i social provocano anche nei più insospettabili: paludati scrittori o docenti universitari, ad esempio, sempre riservati in passato e che all’improvviso inondano Facebook o la rete di foto di famiglia, delle loro vacanze, del loro tavolo imbandito, ecc.; oppure intellettuali un tempo “alternativi” che si scatenano in insulti e contumelie contro chi non la pensa come loro. Non ne faccio una questione di stile o di buone maniere, come va di moda ora con il neo perbenismo di chi vorrebbe mettere la museruola del politically correct anche al web, ma di mutazione antropologica in atto. Personalmente uso limitatamente i social. Li considero in ogni caso un formidabile strumento di comunicazione e diffusione di informazioni.

5 – Parliamo un attimo della figura del serial killer, di cui scrisse in più occasioni dei saggi cinematografici formativi (almeno per me). In Serial Killer lei esaminava gli assassini seriali dei film anni 70-80, tutti mascherati, invulnerabili e poco comunicativi. Oggi a rivedere Michael Myers o Leatherface si fatica a trovarli spaventosi. Non esiste, se escludiamo il maniaco mai arrestato di Texarkana o il bondagista impenitente BTK, un assassino seriale vero con la maschera. La maschera di un serial killer di solito è la sua stessa faccia. E a proposito di faccia… Faccia di cuoio è forse l’unico della “vecchia guardia macellaia” che ancora mantiene una brutalità e un sudiciume avvicinabile a quello di certi mostri pervertiti davvero esistiti. Ma gli altri ormai non sembrano far più molta paura, non trova?

La grande stagione dei serial killer (veri o della fiction) è passata, pur rimanendo la loro esistenza. L’interesse per i serial killer segnalava un passaggio d’epoca. Dopo l’apoteosi costituita da Hannibal Lecter, la figura del serial killer è stata assorbita dal mercato, ad esempio con la (ottima) serie Dexter, depotenziandone la carica eversiva.

6 – L’ultimo Halloween con Jamie Lee Curtis e Nick Castle sembrava una rimpatriata tra amici. La versione di Rob Zombie, a mio avviso offriva al personaggio, almeno fino a quando non diventa adulto, aspetti inquietanti che avrebbero potuto infilarlo ancora a buon diritto nei nostri armadi notturni.

Il problema sta nella fatica che Hollywood fa a inventare qualcosa di nuovo. Si rimasticano all’infinito i vecchi successi, ma non si riesce a creare nuovi personaggi capaci di rivaleggiare con i Michael Myers e company originali.

7 – Sempre nella serie Halloween c’è inoltre un tentativo insistito e poi abortito di Carpenter e la Hill di ricondurre l’assassino di Halloween alla festività pagana di Samhain. Non crede che questo aspetto magico andrebbe analizzato un po’ più a fondo? Non se ne parla solo nel 2 e nel 3, che poi è senza Myers, ma anche nel 6, che è il capitolo più pazzo e audace di tutta la saga, quello scritto da Daniel Farrands, autore del bellissimo The Haunting Of Sharon Tate, tra l’altro.

Di Halloween 6 esiste la versione “Producer’s Cut” dove si estende molto il riferimento a Samhain e con un finale diverso, che riguarda il mitico dottor Loomis (tra parentesi, sta per uscire per Shatter edizioni un libro che ho scritto con Antonio Tentori su Donald Pleasence, il grande attore inglese che interpretava lo psichiatra Loomis nella saga originaria di Halloween). Personalmente preferivo il maggiore realismo dei primi capitoli, dove gli elementi soprannaturali di Myers erano solo suggeriti e non spiegati.

8 – Freddy Krueger, che tra tutti i mostri anni 80 era quello più “intellettuale”, è quasi scomparso dall’immaginario collettivo. I ragazzini non sanno neanche più chi sia. Il remake è stato un fiasco… Secondo lei perché oggi Freddy non funziona come nel 1984?

Perché non siamo più nel 1984… Ogni fase ha i suoi mostri, per quegli anni Freddy era perfetto, rispondeva a esigenze dell’epoca. Cattivo simpatico, insediato nei sogni, mostruoso nell’aspetto e a caccia di giovanissimi. Sono passati troppi anni perché quel cliché funzioni ancora. Il problema è perché non siano nati di recente altri personaggi altrettanto significativi.

9 – Qualche tentativo c’è stato, Saw, Babadook… ma non sono capaci di scatenare un fenomeno culturale come riuscì Craven con Freddy. Parliamo invece un po’ di Dario Argento di cui lei è stato un saggista pionieristico. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa dei suoi film da Trauma in poi. Personalmente non ne ho più visto uno che mi abbia convinto da cima a fondo, a parte Jenifer, l’episodio di Masters Of Horror. Si inizia a parlare di un suo ritorno e mi ha sorpreso quanta speranza questa prospettiva abbia generato sui social. Ma è lecito attendersi ancora qualcosa di valido da lui, secondo lei?

Concordo perfettamente su Jenifer, ultima creatura interessante di Argento. Purtroppo anch’io considero privi di innovazione gli ultimi lavori del regista. Rimane una pietra miliare del passato, ma non del presente. Ho una mia opinione, con tutto l’affetto che porto a Dario Argento, con me sempre cortese e amichevole: al contrario di altri registi anche italiani, Argento subisce le conseguenze di un eccessivo individualismo, non è stato in grado, o meglio non ha voluto creare una “factory” intorno a sé. Si è circondato sempre più di laudatores che gridavano al capolavoro di fronte a ogni sua regia, rendendogli difficile percepire la realtà. Si è rinchiuso nel suo personaggio creato nel corso degli anni e nei successi di un tempo, sempre meno permeabile alle novità esterne (al punto di circoscrivere in famiglia, con Asia, la scelta dei protagonisti principali delle sue pellicole). Eppure i suoi capolavori erano proprio caratterizzati dall’innovazione, dalla trasgressione. Curioso poi che quando Argento faceva i suoi film migliori, influenzando intere generazioni di cineasti e spettatori, venisse dileggiato dalla critica, e ora che la sua carica rivoluzionaria appare spenta venga celebrato come un grande maestro dall’establishment.

10 – Cosa ne pensa dell’ultimo Avati? Il suo quarantesimo lungometraggio Il Signor Diavolo secondo me è disastroso. A parte l’incipit fulminante e un’idea di base buona, la gestione del film sembra geriatrica. Mi ha ricordato il tracollo di Dino Risi quando girò la fiction su Miss Italia per la TV. Si sentiva la mano di un vecchio stanco e lasciato indietro dal mondo. Io ho rispetto per Avati, non mi fraintenda. Trovo sia uno degli autori più sottovalutati tra i registi italiani dal 1970 a oggi. Mi sembra però che la scelta di non smettere e ostinarsi a realizzare “cose creative” sia un po’ rappresentativa di questi anni. Nel rock i soli gruppi che riempiono ancora gli stadi hanno una media di 70 anni e i registi di genere vogliono ancora girare a 80 anni. Si veda l’ultimo Deodato o persino lo scomparso Bruno Mattei. Può riallacciarsi al discorso che si faceva sulla morte anni fa in vari saggi (Elias, Ragon, Aries… persino Bianciardi in La Vita Agra) che essendo sempre più taciuta e nascosta, la morte stessa abbia finito per non essere più contemplata come un viaggio a cui ci si deve preparare ma una sorta di spauracchio da cui fuggire con l’azione, il lavoro, il gallismo farmaceutico?

Ben vengano i vecchi che continuano a produrre opere creative, anche perché oggi si fa tanto giovanilismo rottamatore, ma non si considera che la società del futuro (con il calo delle nascite) almeno in Europa sarà una società di anziani. Purché siano anziani che capitalizzano la lunga esperienza per muoversi in avanti e non rimastichino solo le cose fatte in passato. Gli esempi sono rari, ma credo esistano. Anche per Avati, il segreto secondo me starebbe nell’aprirsi a influenze e suggestioni, coinvolgendo giovani e meno giovani nei propri progetti per trovare le forme attuali della creatività e della comunicazione. In Italia, paese che considero attualmente perduto per qualsiasi slancio creativo, tutto è comunque più improbabile.

11 – Una domanda sui serial di oggi. Si è parlato di un’epoca d’oro e irripetibile inaugurata con Lost, i Sopranos e Six Feet Under, tra gli altri. Negli ultimi anni, grazie ai servizi streaming come Netflix, Amazon Prime e compagnia, sembra che tutto l’intrattenimento, tolte poche eccezioni, abbia raggiunto la dimensione coatta della serialità e degli episodi. Ogni spunto o intuizione è convertito in serie. Personalmente trovo frustrante che per godermi una buona idea io debba sorbirmi decine di ore. Anche i documentari sono spezzati in quattro o sei puntate e allungano brode cronachistiche fino all’esaurimento. Lei cosa ne pensa di questa fase seriale dell’intrattenimento narrativo?

A me la serialità è sempre piaciuta. Per esempio in passato c’erano James Bond, che tornava immancabilmente con nuove avventure, o i film della Hammer, con mostri ricorrenti e storia quasi in continuity. Credo che la possibilità di prolungare storie e descrizione di personaggi, con la serialità televisiva odierna, abbia delle enormi potenzialità, permettendo al fruitore di immergersi in un universo immaginario per tempi quasi infiniti. La fruizione di queste serie, tra l’altro, è diversa da quando “si andava al cinema”: lo spettatore può scegliere se fare una maratona di innumerevoli puntate o diluire la visione secondo le sue esigenze. Non sottovalutiamo poi il fatto che l’epoca dello streaming seriale consente una libertà nei contenuti e nelle immagini che il cinema ha perso da tempo. Nelle serie si può osare di più, almeno fino a quando la dittatura del politicamente corretto non invaderà le ultime stanze degli studios.

12 – Ci sono libri di Fabio Giovannini rimasti nel cassetto? Progetti audaci e troppo insoliti su cui gli editori non hanno avuto il coraggio di credere?

Progetti ne ho molti, ma non sono motivato a cercare editori. Dopo tanti anni di attività non ho più voglia di mettermi alla ricerca di case editrici, per trovarmi di fronte a muri di gomma, a personaggi improvvisati o a veri e propri cialtroni, finendo nella supernicchia di libri né distribuiti né promossi (e né pagati). La mia asocialità degli ultimi anni, tanto che ho lasciato la capitale e vivo in un ex convento in provincia, certo non favorisce l’incontro con l’editoria. Trovo comunque bizzarro (e anche qui, possibile solo in Italia) che da tempo immemorabile nessun editore piccolo o grande mi abbia spontaneamente contattato per verificare possibilità di collaborazione. Contano solo i legami amicali: se hai qualche conoscenza nel giro dell’editoria esisti, altrimenti sei un fantasma. Bisogna autopromuoversi con il presenzialismo, andare ai dibattiti sui libri altrui, fare i simpatici con autori ed editori, magari lodando chiunque su Facebook… Lo dico anche a uso dei nuovi scrittori: o si sceglie la faticosa strada dell’indipendenza (acquisendo la professionalità necessaria per creare un libro e diffonderlo in proprio) o si deve soggiacere alle regole nepotistico-amicali dell’editoria italiana e sgomitare per entrare nei salotti e nei giri che contano.

Avrei ancora tanto da domandarle, ma mi fermo qui. Grazie per le sue risposte.