L’undici Gennaio di ventuno anni fa ci lasciava Fabrizio de Andrè. Se ne andava tra il cordoglio discreto di tanti estimatori e il vociare di quelli che, per vari interessi di parte, lo avevano osteggiato da vivo per poi rivalutarlo da morto.
Faber ha sempre cantato l’uomo per l’uomo, e la sua visione non ha mai concesso nulla al moralismo o al giustizialismo piccolo-borghese. Lui era per la pietà. Ben sapendo come i moralizzatori siano i primi grandi ipocriti in una società che da sempre si regge su bassezze, storture e vizi deprecati, ma che consentono a chi ha in mano le leve del potere di continuare a maneggiare a proprio piacimento il materiale umano, preferì chinarsi sulle storie, inutili forse, sicuramente squallide e senza speranza, degli ultimi tra gli ultimi. Di quelle figure schiacciate da quel potere ma allo stesso tempo da quel potere attratte per poterne godere i “privilegi”.
Conoscendo un minimo la sua storia si potrebbe azzardare che sentisse quasi il bisogno di immergersi in quel brodo fatto di umore terragni, fatto di dolore, speranze infrante, rassegnazione, morte (fisica e spirituale) e istinti triviali.
Non a caso nacque una canzone come Via del Campo o Il fannullone. Canzoni contro il perbenismo imperante ma che non concedono una facile via di uscita. Non c’è il lieto fine perché nelle sue canzoni il filo rosso che tutte le unisce è il dramma e l’inutilità del vivere. Ed è incredibile che un amante dell’umanità come lui, uno che parlava chiaro anche quando usava metafore, sia stato travisato per i soliti gretti individualismi di opportunisti piegati a una ideologia o all’altra. Faber ben difficilmente poteva essere accostato a una particolare corrente politica. Non si è mai perso a promozionare nessuna ideologia perché il suo intento principale era scombinarle tutte; alzar loro la sottana per mettere a nudo come fossero menzognere, egoiste e, l’ho già detto: ipocrite.
Anche l’album del 1973 Storia di un impiegato nonostante si appoggi alle problematiche politico-sociali dell’epoca rifuggi l’apologia politica e partitica. Anzi: in un’atmosfera a tratti onirica tratteggia la lotta interiore di un sottoposto che si ribella al potere costituito e alla propria vita di “inferiore” iniziando un percorso di auto valutazione che lo porterà prima a diventare un elemento di quel potere costituito, poi un acerrimo nemico dello status quo, resosi conto di come sia stato manipolato.
La lotta del protagonista è lotta solitaria e individualista. Una lotta tragica che ha precorso i tempi, perché è inutile negarlo: stiamo vivendo oggi un’era di iper-individualismo e di isolazionismo spaventosi. Ed è quindi in questa luce che l’album dell’impiegato può essere sviscerato. Il conflitto tra cittadino-stato (il simbolo del potere) ma anche il conflitto tra l’individuo e la sua coscienza. Conflitto, quest’ultimo, che va oltre gli stravolgimenti sociali di qualsiasi epoca.
Per questo e per tutti gli Lp che de André pubblicò durante la sua carriera, mi azzardo a dire – mi si perdoni la sfacciataggine – che Faber avesse un’attitudine molto più “metal” con il suo muoversi in “direzione ostinata e contraria”… contro tutto e tutti!
La sua forma di ribellione potrebbe insegnare molto ai ribelli metallari che, alla fine, ribellano ben poco e pedissequamente si adagiano sugli allori del pensiero metallico comunemente accettato ma, ben più grave, su un pensiero o una summa di pensieri che si sono fatti banale estetica di nicchia.
Segni di riconoscimento per appartenenti a una stessa tribù. E che dire degli argomenti trattati da Faber? Guerra (alla faccia delle apologie sterili dei Sabaton); morte sia fisica che psicologica (un de André doomster della prima ora come lo vedete?); amori omosessuali, infelici o finiti male ché manco il grunge/alternative e il goth son mai arrivati a tanto; concetti religiosi in una veste ultra-umanizzata sia nei contenuti che nei tratteggi iconoclasti dei personaggi più importanti del nuovo testamento. Recuperate La buona novella e ascoltate la canzone Si chiamava Gesù per potervene rendere conto.
E come non accennare al nichilismo anarchico – quasi punk – di Non al denaro non all’amore ne al cielo dove è espresso come alla fine qualsiasi pulsione umana sia destinata a essere inghiottita dallo scorrere del tempo e come sia vano l’affannarsi e correr dietro a quei miraggi, che sono poi dei gran crucci, che la società ci ha convinto a considerare come cose essenziali e irrinunciabili!?
Chi è più “metal” de Il suonatore Jones che da ricco proprietario terriero getta tutto alle ortiche pur di perseguire il suo sogno di diventare musicista e conquistare in questo modo la sua libertà!? Chi, tra le band metal, è riuscita ad avvicinarsi ai concetti, sviscerandoli in tutto il loro essere, al dolore e alla rabbia lirica che emerge dall’album Tutti morimmo a stento?!
Se è innegabile che le sue produzioni, a livello musicale, fossero tutt’altro che metal, non si può dire altrimenti dei suoi testi: cupi, disperati e con quell’odore di umana corruzione che aleggia spesso e volentieri. Manco i Cannibal Corpse son riusciti a far tanto! (si lo so: I Cannibal sono ironici).
Facendo questo azzardato accostamento tra il “metallarismo concettuale” di Faber e il “metallarismo estetico” dei metallari, a me balza agli occhi come il primo riesca a ferire, turbare e costringere a riflettere, mentre per il secondo, soprattutto da un po’ di tempo a questa parte, c’è giusto uno sterile esercizio di stile che ha privato il metal e i concetti da esso espressi della carica eversiva che, ho sempre creduto, fosse una delle principali peculiarità della musica dura.
Certo non sarà così per tutte le band, ma nutro il sospetto che gli artisti che riescono ad esser “oltre” siano relativamente pochi. Ed è anche vero che chi ascolta metal non vorrebbe trovarsi di fronte a un trattato di filosofia da dover rimasticare a lungo per poter apprezzare quel che una band tenta di dire. Però mi chiedo: per un artista è più utile avvitarsi in una spirale di estetica e conformismo oppure cercare di andare alla ricerca di un qualcosa che possa rompere gli schemi evitando il racconto didascalico e a comparti stagni?
Perché parlare di guerra, per esempio, solo nel suo aspetto più truculento o con la solita enfasi epica tralasciando completamente tutti gli altri elementi tipo, che so, la paura che un soldato prova prima dell’attacco? E perché parlare di amore banalizzandolo come spesso hanno fatto gli Him? Cioè: va bene il solito dualismo Eros/Thanatos ma forse c’è anche altro no?
Mi sbaglierò ma Faber avrebbe potuto insegnare molto ai metallari. Ma forse sono io a presumere che il suo lascito sia andato quasi perduto, e a credere che io sia l’unico custode certificato del suo insegnamento. Sicuramente mi sbaglio…