BILANCIO DEL METAL DECENNIO – (terza parte) GENTE UN PO’ MENO VETUSTA

 “You call yourself a singer/but you look like Jerry Springer/ and your favorite band is Winger”. Già, eravamo rimasti agli Winger. Bersaglio facile nel dissing tra Fred Durst e Jonathan Davis giovani e rampanti nel 1998. Venti anni dopo, la legacy dei Limp Bizkit è oggetto di derisione non meno che quella del buon Kip, e l’ultima volta che ho visto Jonathan Davis in un festival era a cantare le sue lagne soliste a metà pomeriggio prima dei Pumpkins United.

Ah, le grandi star di quando avevo vent’anni! Come se la sono passata in questo ultimo decennio? Fred Durst ci ha riprovato all’inizio con l’autarchico Gold Cobra, quasi commovente nel suo voler manowarianamente morire seguendo le proprie regole, e infatti andò malissimo e ora fa il regista, pare con buoni risultati (non esageriamo ndr). I Korn invece pur tra tante vicissitudini personali non hanno mai mollato; a inizio decennio hanno provato pure la carta dubstep con The Path Of Totality, e del recente The Nothing si è parlato come di un ritorno agli antichi fasti, anche se all’ascolto io non ho percepito niente del genere.

Eppure parlando di artisti anni novanta non si parla di gente inevitabilmente troppo anziana per stare al passo coi tempi senza apparire ridicola.

Ci sono anche quelli che intorno alla quarantina raggiungono un livello di maturità artistica tale da essere ammessi all’olimpo dei maestri. Restando in ambito nu metal è il caso dei Deftones, da sempre i cocchi della critica nel genere, che dopo un periodo di appannamento hanno prodotto a inizio decennio due monumenti come Diamond Eyes e Koi No Yokan, la cui aura continua a vibrare nonostante un successivo, meno brillante, Gore.

Altri tre sono i nomi sopravvissuti al tritacarne del genere più amato e odiato della seconda metà dei ‘90s: i Linkin Park non li ho mai apprezzati, poi sono sempre stati poco heavy, quindi possiamo soprassedere. Si è suicidato il cantante, come noto. Mi dispiace.

Gli Slipknot hanno fatto prima un disco bruttino, poi uno buono proprio di recente, ma il cuore della loro carriera resta la produzione degli anni zero.

I System Of A Down non si capisce bene che cazzo hanno fatto in quindici anni a parte andare on hiatus, riprendersi, andare in tour, risepararsi, litigare e insomma facciano un po’ quel che vogliono ma certo non si può dire che abbiano avuto una fase creativa molto lunga.

Un po’ come i Rage Against The Machine, insomma. Il fatto è che le grandi star di “rock duro-non esattamente metal” degli anni ’90 hanno avuto carriere brevi.

Prendiamo il grunge: Eddie Vedder a parte, i frontman sono tutti morti. Seguire le sorti postume di Alice In Chains o Stone Temple Pilots sarebbe stato chiedere troppo a me stesso, e i Pearl Jam sono sempre stati troppo poco metal per occuparsene qui.

C’è Dave Grohl, ma i Probot mi pare fossero del decennio prima. I Foo Fighters nel frattempo sono diventati tipo la più grande rock band del mondo, in ossequio al detto che nel regno dei ciechi anche un orbo è re. L’unica reunion che davvero aveva un senso attendere era quella dei Soundgarden, ma King Animal fu una delusione, e poi con Cornell è finita come sappiamo, ahimè.

Gli Smashing Pumpkins hanno sempre avuto un sacco di hater, ma ricordo che Oceania del 2012 era un disco bello tosto. Chissà perché non ho ascoltato quelli dopo, però.

Ma con tutta questa gente da Lollapalooza ai true metallers of steel pruderà già il dito sul mouse. Parliamo allora di qualche sottogenere davvero metal come il power anni ’90. In realtà non ho niente da dire perché davvero ne ho ascoltato poco, e di quel poco mi sono pentito di averlo fatto. I Blind Guardian ormai li ascoltano solo i nerd, gli Stratovarius li associo più a manuali di psichiatria sulla bipolarità che alla musica, gli Angra ho perso il conto di chi ci suona, il simpatico Tobias Sammet ha tirato avanti più con le fanfaronate Avantasia che con gli Edguy; Hammerfall boh, Dronjak è sempre biondo platinato?

Meglio cambiare discorso: chi avrebbe detto ai tempi di Pure Holocaust che il black metal avrebbe assunto un ruolo così pervasivo nella cultura occidentale? Dal processo di memificazione partito da Abbath a serissimi saggi di black metal philosophy, passando per la filiazione del blackgaze, cultura alta media e bassa non si sono fatte mancare la loro quota di facepainting e foreste grim &frostbitten.

Se i putrescenti semi piantati in Norvegia quasi trent’anni fa hanno quindi generato fiori del male in abbondanza, i padri seminatori in questi ultimi due lustri non hanno prodotto tanti nuovi frutti. Giusto in queste ultimi mesi stiamo ascoltando il nuovo Mayhem, mentre non so quanti avranno dato credito alle elucubrazioni pseudo-intellettuali di Ihsahn o le gesta alla G.G. Allin del suddetto Abbath.

Il percorso di gran lunga più interessante è stato quello dei Darkthrone, credibili archeologi e storiografi del metal sotterraneo: una serie di dischi sempre interessanti, con l’apice toccato dal sorgivo tributo al metallo incontaminato di The Underground Resistance, la cui Leave No Cross Unturned resta uno dei pezzi più iconici del decennio.

Certo fa un po’ effetto dire questo per una canzone così manifestamente retro, soprattutto parlando di protagonisti degli anni novanta, la decade in cui la parola d’ordine era innovazione. A metà di quel decennio erano tre i dischi da venerare per potersi dire al passo con l’avanguardia del cyber-metal postumano: Demanufacture dei Fear Factory, City degli Strapping Young Lad e Destroy Erase Improve dei Meshuggah.

Curiosi i diversi destini toccati da allora ai protagonisti di quelle opere: quelli che all’epoca erano i più famosi, i Fear Factory, sono diventati (vorticosi cambi di line-up a parte) la cosa più lontana da ciò che erano allora, cioè un gruppo prevedibile; Devin Townsend non ha più riesumato i SYL dalla metà degli anni zero ma ha continuato a produrre un’infinità di dischi che ovviamente ho smesso di ascoltare da secoli, anche se dicono che l’ultimo sia tornato su buoni livelli, magari lo proverò; sui Meshuggah che dire, sono diventati uno dei gruppi più influenti degli ultimi decenni, ricevendo talmente tanti riconoscimenti che non gli servirà certo il mio, che li ho sempre trovati prevalentemente noiosi pur ascoltando sempre per senso del dovere ogni loro singola uscita (e certo non si può negare l’ampiezza dell’impatto di un lavoro come Koloss).

I gruppi più camaleontici degli anni ’90 sono stati però probabilmente tutti quelli che, partiti dal metal estremo, ascesero alla fama sotto l’etichetta di gothic-metal ma continuarono a esplorare inattese direzioni per tutto il decennio. Ecco, se ho un rimpianto è quello di non aver seguito con l’attenzione di un tempo tutte le uscite dei vari Moonspell, Tiamat, Anathema, Amorphis, My Dying Bride, Katatonia, Samael ecc.

La giustificazione che mi attribuisco è che la loro fase propulsiva si è biologicamente esaurita, e che ormai ogni loro nuovo disco, bello o brutto che risulti, non sia più avventura innovativa ma riproposta di un mestiere. Ragionando in questi termini però non avrei dovuto seguire più di tanto neppure i Paradise Lost, dei quali invece conosco ogni mossa abbiano compiuto nel decennio, fino alla biografia appena pubblicata.

Un decennio che li ha visti ripercorrere la propria carriera a ritroso fino a tornare ai tempi di Gothic con l’acclamato The Plague Within, anche se personalmente ho amato ancor di più il precedente Tragic Idol, perfettamente equilibrato tra pesantezza e melodia come ai tempi di Icon e Draconian Times. L’ultimo, pur molto apprezzato, Medusa, invece, è una ripetizione un po’ meno riuscita del disco precedente, e per la prima volta in carriera il gruppo mi è parso tendere all’autoindulgenza.

Comunque sia, perché questa disparità di attenzione verso gruppi simili? Beh, perché i Paradise Lost sono da ascrivere alla categoria dei personali gruppi-feticcio, quelli che per qualche motivo ti hanno segnato più di altri durante l‘adolescenza e per questo continui a seguire con un’ostinazione sovradimensionata rispetto a quanto essi siano ancora rilevanti e incomprensibile a chi non condivida il culto.

Se ad esempio scrivo A Brief Crack Of Light, Disquiet e Cleave quanti sapranno di cosa parlo senza guardare su Google?

Avete guardato? Bene, allora avrete imparato che si tratta dei tre dischi pubblicati negli ultimi dieci anni dai Therapy?, che ovviamente ho sempre ascoltato all’uscita nonostante nessuno di essi mi abbia restituito le emozioni di Troublegum e dei miei sedici anni. È lo stesso fenomeno che mi ha fatto attendere Sexual Harassment e Rock’N’Roll Machine dei Turbonegro (e persino Egomania di Hank Von Hell) quanto la gente normale ha atteso Fear Inoculum dei Tool. Sono debolezze che spero si possano perdonare a chi, come il sottoscritto, propone una ricognizione dichiaratamente asistematica, e che per scrivere questo articolo non si è certo documentato andandosi a riascoltare tutti i dischi di quei gruppi che non capisce come possano continuare ancora a pubblicarne, quali Sepultura, Cradle Of Filth e Dream Theater.

Quando arrivo al punto in cui mi accorgo di tutte le lacune dei miei ascolti capisco che è il momento di chiudere, non prima di aver ricordato, last but not least, due gruppi un po’ stagionati che davvero hanno lasciato il segno sugli anni dieci. Il primo su un livello più underground, anche se ormai neppure più tanto. Sto parlando dei Behemoth, che nei novanta erano uno stimato gruppo minore del death metal continentale ma che più o meno dai tempi di Demigod hanno visto salire le proprie quotazioni fino ad arrivare nel 2014 all’acclamazione di The Satanist, che vedo Loudwire addirittura elegge disco del decennio. Si tratta di un album in effetti notevole, la cui unica ombra è l’essere stato così programmaticamente e smaccatamente inteso alla consacrazione. Ma se gli esiti sono corrisposti così bene alle intenzioni, tanto di cappello a Nergal (o di cappella a Nerchial, trovandoci su Sdangher).

Infine, due parole sui Machine Head, croce e delizia dei metallari dal 1994 in poi. Un gruppo dato per morto e rinato almeno un paio di volte. A occhio ora dovremmo essere in fase di morte, dopo il flop di Catharsis e il ritorno con una Do Or Die che è parsa più un rant di Robb Flynn che una canzone. Le sorti del gruppo, infatti, restano da sempre sospese alla personalità divisiva del suo leader, del quale tutto si può dire tranne che sia una persona banale. Per questo non escluderei una loro nuova rinascita artistica in futuro. Perché sono un gruppo dal percorso interessante, anche proprio per il fatto che si prendono il rischio di sbagliare i dischi piuttosto che produrne sempre di uguali. L’apice della loro seconda vita resta The Blackening, ma anche i due lavori di inizio anni dieci, Unto The Locust e Bloodstone And Diamonds restano pietre miliari del periodo da noi considerato.

5 Dischi che sono stati rilevanti:

Paradise LostTragic Idol (2012)

Machine HeadUnto The Locust (2011)

DeftonesKoi No Yokan (2012)

BehemothThe Satanist (2014)

DarkthroneThe Underground Resistance (2013)

(Chissà perché mi stanno venendo tutti dischi della prima metà del decennio)

Per la seconda e la prima parte di questo speciale di Alessandro Viti sul metal decennio cliccate qui e qui.