Due giorni fa ho finito di vedere The Lighthouse, secondo lungometraggio di Robert Eggers, di cui non voglio dir nulla. Questa non è certo una recensione. Cito il titolo solo per la cronaca. Da lì ho iniziato a riflettere su quanto oggi l’arte sia diventata innocua. Magari semplifico troppo ma credo che i film, i dischi, qualsiasi forma possa vestire la nostra creatività, siano sempre meno determinanti per la nostra esistenza. Se tutto ciò che avviene è il desiderio di vedere un altro film simile a quello che abbiamo visto, un altro disco, un altro romanzo, allora qualcosa è andato storto. Anzi, non è andato. Siamo sempre gli stessi bulimici che si rifocillano lo spirito di immaginazioni altrui. Ma per cosa? Sfuggire a una vita difficile? Va bene, solo a patto che quella fuga ci restituisca alla nostra vita di merda con più forza e più integrità di prima, così da affrontarla in modo diverso e magari migliore.
Vedo Netflix come una specie di grosso fast-food in cui più si va e più si finisce per rimpilsarsi. Un tempo i nostri genitori ci dicevano di non stare più di un tot al giorno davanti alla TV. Ora quei genitori dovremmo continuare a essere noi, ma non solo per i nostri figli, anche di noi stessi. E invece so per certo, e in parte anche io sono colpevole di questo, che lasciamo i nostri bimbi a balia di fronte allo schermo per delle ore mentre noi ci lobotomizziamo con facebook. E c’è chi fa peggio. Qualcuno (ancora io) gli offre direttamente internet!
Un mio amico una sera mi ha detto: “senza tablet i miei figli non cenano, ecco perché gli permettiamo di usarlo”. Parlava di tablet come fosse un ingrediente in più alla cena: tipo il formaggino nella minestra. Siamo a questo punto, c’è poco da dire e dobbiamo prenderne atto, senza menarla con le moralizzazioni da due soldi. La realtà è questa: siamo ipnotizzati dai nostri gingilli tecnologici e viviamo in un mondo di illusorie consolazioni e di plausi. Un mi piace non si nega a nessuno e così tutti hanno la loro dose di approvazione, come dei bimbi che si sentono dire “bravo a papà!”. Solo che nostro padre è il solo che continua a dirci che siamo dei cazzoni e il resto del mondo non ci basterà mai per rimpiazzare quel mi piace che non è mai giunto abbastanza dall’unica persona nell’unico momento che contasse davvero, quando eravamo bimbi claudicanti sul bagnasciuga dell’esistenza. Lì la voce di papà ci giunse forte e chiara: se entri anneghi di sicuro! Ma se la vita fosse l’oceano che dobbiamo attraversare, e uno non avesse mai imparato a nuotare, che altro potrebbe dire a un figlio ?
Ma torniamo all’arte. Un film, un disco o un libro dovrebbero cambiarci. Farci alzare il culo e tornare in tentare qualcosa che ci permetta di vivere più a fondo la nostra esistenza. E invece ho come l’impressione che i dischi che escono da qualche anno a questa parte conducano solo ad altri dischi, persino dello stesso genere. I film horror portano ad altri film horror. I libri scritti da psicologi che vorrebbero aiutarci a vivere meglio, ci spingono ad acquistare altri libri dello stesso tipo, magari del medesimo autore.
Netflix porta al divano e a ore e ore di Netflix. Nient’altro che questo. Se non fosse così, dopo aver visto Breaking Bad, dovreste per lo meno alzarvi da lì e uscire a fare una passeggiate riflettendo a fondo sulla morte e sulla vita, l’amore e la rabbia, la società e le sue spire. E invece siete ancora lì, che mettete El Camino. Sperando che altre due ore su Pinkman vi possano dire quello che ancora non avete capito dopo cinque stagioni.
Ecco, questo non è bene, gente. Parafrasando il musicista sperimentale John Cage, che si riferiva solo alla funzionalità di una buona melodia, tutta l’arte ci riconnette con la parte inconscia di noi. Quella che la vita di ogni giorno fa in modo che perdiamo sempre di più.
Fateci caso, mentre siamo al lavoro o a fare la fila alla posta sembriamo esseri mostruosi, tristissimi. Pensiamo quasi solo cose brutte, sempre che non ci ingolfiamo la crapa dentro un social, invidiando il prossimo o deridendolo. Odiamo i colleghi, pensiamo ai nostri figli come bagagli da disfare e rifare, malediciamo la vecchietta che non si decide a ritirare la sua pensione e ci lascia pagare ‘sta cazzo di bolletta di merda. Se il volante avesse il tasto con i missili, faremmo una strage ogni giorno prima di arrivare alla nostra destinazione. Questo siamo noi, ogni fottuto giorno dell’unica vita che abbiamo.
E c’è un motivo. La vita non si vive con la spina dell’anima staccata. La nostra parte animica, quella che va oltre le incazzature, che ascolta l’intero disegno dell’universo, è quasi perennemente staccata da noi. L’arte ci riconnette a essa. E dopo smettiamo di essere tristi. E se lo siamo ancora, lo diventiamo in modo più nobile, eroico e consapevole. Ecco, accendiamo lo stereo e inizia Seventh Son Of A Seventh Son o che ne so, la Sinfonia numero 3 di Gorecki (quella delle canzoni dolorosissime). Che si tratti di quella cavalcata martellante che deflagra nell’abitacolo oppure gli archi che veleggiano su un campo di fumo e desolazione, poco importa, qualcosa in noi sta accadendo. Ci si inumidiscono gli occhi. Ci si arrapa il cazzo nel petto. Ci sentiamo rincuorati, più elevati, di nuovo ricapitolati a noi stessi. E questo perché la musica ci ha ricondotto all’anima.
Dico la musica, che forse proprio come dice Cage è la forma d’arte più ideale di tutte per questo scopo, ma anche il cinema, che usa anche le note oltre i colori.
Quando usciamo dal cinema, dopo aver visto un film come tanti, pensiamo al film e poi ai cazzi nostri. Quando vediamo un film importante pensiamo a noi stessi. I cazzi nostri sono una cosa, pensare a noi stessi è un’altra. Se non vi è chiara questa differenza, mi spiace, tornate un’altra volta.
Quando il film ha funzionato, noi pensiamo alla nostra vita e a come viverla più intensamente. L’arte ci serve a questo. Se non accade nulla significa, se nella nostra mente c’è solo il bisogno di un altro film o di un letto, perché siamo stanchi, allora potevamo restare a casa e crollare sul divano. Sarebbe stato meglio. Era il film sbagliato. Abbiamo pagato e perso un’occasione di crescere e ricondurci a noi stessi. Ritrovare il bandolo della nostra anima. Necessitiamo di riprenderla ogni momento. Ce la perdiamo di continuo. Basta un nulla e siamo lì a berciare e darci addosso, maledire il mondo e vomitare bile su coloro che amiamo. Se siamo connessi alla nostra anima non facciamo mai cose orrende o vili. E non possiamo essere vili o schifosi mentre suona la nostra canzone preferita.
Quando dico crescere, magari uno pensa “diventare grande”, espandersi nello spazio e il tempo. Se è un adulto penserà, diventare finalmente maturo dentro. Ebbene no, questa è solo superficie della vita. Io invece penso alla profondità. Ed ecco l’oceano, in cui non occorre saper rimanere a galla ma sprofondare. E meno si nuota più si sprofonda nella vita.
Per immergerci nell’esistenza necessitiamo della nostra anima. Con essa respiriamo a pieni polmoni negli abissi marini. Solo con quella possiamo sondare l’oceano buio della realtà e ammirarne le miriadi di sfaccettature. Se ci limitiamo a pensare con il cervello allora un giorno è un altro fottuto giorno, un tramonto è solo un altro tramonto. Visto uno, visti tutti. Peccato che ogni tramonto sia diverso.
Moltissimi film invece sono sempre lo stesso film. Diventiamo spettatori compulsivi, ascoltatori compulsivi, lettori abitudinari. Notate quanta musica e quante storie ci offre la società. Siamo sommersi da canzoni e film, di continuo. Ma sono per lo più fuffa. Prodotti commerciali usati per incistarci nella medesima condizione di bisognosi. Abbiamo bisogno. Di macchine nuove, di vestiti, di fica, di soldi, di lavori eccitanti, di successo.
E sembra che ci piacca rimanere così. Leggiamo chi la pensa come noi, chi suona le nostre canzoni preferite, chi ci racconta sempre la stessa storia di mostri o di eroi. Non ci teniamo a cambiare, perché significherebbe prima di tutto convivere con un mondo che non ci vuole bene. Riandiamo sempre negli stessi sentieri, dove siamo passati così tante volte che ormai non ci cresce più nulla da annusare, da cogliere o solo osservare.
Tornando al film di Eggers, che ritengo un bravo autore, (per quanto il suo The VVitch sia piuttosto sopravvalutato) diciamo che dopo la visione, nonostante gli sforzi di due attori all’estremo del proprio talento e una storia tutto sommato complessa, non è accaduto proprio nulla nella mia esistenza che non fosse già successo prima.
Pazienza, hai passato una serata. Passare? Ammazzare il tempo? Abbiamo tutto questo tempo da buttare, da ammazzare, secondo voi? Vi piacerebbe ma per la verità siamo scorregge divine e se viviamo in questo posto, almeno a parer mio, è per uno scopo. Capire, sentire. Non capire nel senso di apprendere, comprendere, ma di sentire. Capire e sentire sono sinonimi per me. E per capire/sentire bisogna rimanere concentrati, non distrarsi. L’arte cattiva è quella che ci fa evadere in modo oppiaceo e stordente dalle nostre esistenze, portandoci via dai nostri corpi in viaggi inutili e già fatti mille volte, lasciandoci in realtà sempre lì, per ore e ore, giorni e giorni di serie televisive realizzate in serie industriale. Tali e quali l’una all’altra. E noi, tali e quali a prima. Nella stessa posizione, negli stessi vestiti puzzolenti, dietro le tapparelle abbassate di qualsiasi cazzo di imperdibile tramonto.