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Metal Warfare – Quando il metallaro va alla guerra

Probabilmente non esiste un gruppo metal che non abbia mai dedicato un testo di una canzone di contenuto guerresco, anche solo con un riferimento o un immagine; di tutti i temi cari al metal, infatti, quello della guerra è sicuramente il più gettonato insieme alla morte, e quello che ha avuto più differenti tipologie di approccio.

C’è chi ne ha parlato per finalità puramente narrative, come i Sabaton, i Grave Digger o gli Hail Of Bullets, altri che che si sono concentrati sugli aspetti più morbosi, come gli Slayer, altri ancora per veicolare un critica sociale come Megadeth o Savatage, per non parlare delle di band che ci si sono fiondati solo per esaltarne la componente iconografica (mentre scrivo mi vengono in mente Sodom, Marduk e Revenge, ma la lista in questo caso è veramente impressionante).

Il motivo per cui il tema si intersechi così alla perfezione nel contesto dell’heavy metal, è forse dovuto al fatto che le immagini della guerra, della battaglia e del conflitto si insinuano sempre nell’universo del metallaro molto prima della musica, e a un livello molto concreto e personale.

Pensateci. Probabilmente il metallaro che è in ciascuno di noi è nato da un deciso rifiuto dei dogmi, delle regole preimpostate, dell’omologazione, del conformismo; il che pone in essere la necessità di lottare per non rimanerne invischiati.

Una volta scoperto (crescendo) che non è possibile fare molto per evitare la mediocrità del quotidiano, il metallaro, frustrato e arrabbiato, impugna la chitarra e spara al massimo il gain dell’ampli, come se fosse la spada, il fucile o il mitragliatore con cui combatterà la sua guerra, nonché l’unico strumento con cui salvarsi, senza tagliarsi le vene.

Ecco che il mondo attorno a lui si riempie di aberrazioni contro cui scagliarsi e urlare la sua furia, la sua attitudine è fiera e coraggiosa, ma il suo spirito è finalmente libero, poiché sa che nonostante la merda di tutti i giorni che è costretto a vivere, può sempre continuare a combattere la sua guerra, quand’anche in un altra coordinata dello spazio e del tempo.

Solo in un secondo momento scopre che le guerre della storia dell’umanità, dolorose, tragiche e brutali, possono diventare lo specchio della sua guerra interiore e così comincia a documentarsi, talvolta buttandosi a capofitto nella storia militare e a ficcare tutto questo vagone di nozioni a forza nella sua musica, spesso in modo tutt’altro che edulcorato.

“It’s poetry. Poetry of war.”

Perciò, secondo me, quello della guerra, nel metal non è solo un interesse, ma è anche e soprattutto linea programmatica: credo non esista nessun altro stile di musica che nasca per necessità di combattere un nemico – reale o immaginario, è irrilevante per un metallaro – e allo stesso tempo che riesca ad essere così curioso ed ossessionato da tutta la relativa fenomenologia, che include mezzi, strategie,  concezioni militari e chi più ne ha più ne metta.

Inoltre questo grande interesse metallico ha forse origini storiche. Prendiamo ad esempio la grigia città di Birmingham, vera culla del metal.

I giovani ragazzi che ci vivevano all’inizio degli anni ’70, avranno visto una città che era stata completamente ricostruita a seguito dei bombardamenti ad opera dei tedeschi, e probabilmente i loro genitori e i loro nonni, che avevano avuto esperienza diretta dei due conflitti mondiali, avranno raccontato loro chissà quali brutture.

La casa dei Black Sabbath dopo il passaggio di Hitler

Mettiamoci pure le tensioni con l’IRA (due bombe esplose nel ’74 in due pub della città) e forse ci sembrerà meno casuale il fatto che Birmingham sia stata la città che ha dato i natali a Led Zeppelin, Black Sabbath e Judas Priest. La differenza di approccio di una canzone come War Pigs rispetto a quello degli hippie pipparoli e dei folletti del prog è abissale, visto che la critica sociale verso la guerra si permea di una malignità senza precedenti, per altro in odore di zolfo, con i signori della guerra riuniti in un sabba infame.

Il pub dove andavano a bere i Black Sabbath dopo che ci passò l’IRA

Anche se probabilmente il primo pezzo settantiano a parlare di guerra con una prospettiva metallica vera e propria è stato ME-626 dei Blue Oyster Cult: la musica degli americani è ancora dalle parti dell’hard rock, ma il racconto del testo, l’ironia sprezzante con cui è scritto e l’attenzione quasi morbosa verso l’iconografia bellica ha avuto una risonanza senza pari in tutto il metal che sarebbe venuto da lì in avanti.

Su questo tipo di contenuti ci hanno marciato tutte le band degli anni ’80 e ’90, talvolta estremizzando il concetto fino al parossismo, con i risultati che conosciamo tutti: Aces High e Disposable Heroes, cinture di proiettili, e coreografie con i bombardieri, carri armati Panzer sulle copertine e foto in posa con gli spadoni medioevali. Massive Killing Capacity.

 

Poi, però, è successo qualcosa.

Nel nuovo millennio la memoria della guerra (vera) si è liquefatta sempre di più e le differenze sociali si sono appiattite. Nella maggior parte dei casi, le giovani generazioni non hanno testimonianza diretta di qualcuno che la guerra l’ha vissuta sul serio e tutti loro appartengono ormai a una gigantesca e totalizzante classe media: le pulsioni sociali di un metallaro cresciuto negli anni dopo l’undici settembre  sono le stesse di uno che ascolta jazz, classica, reggaeton o Giusy Ferreri.

E così, anche il metal, pur continuando a partorire dischi incredibili fino ad oggi, diventa più di maniera, tanto nei suoni quanto nelle parole, esattamente come qualsiasi altro genere ben codificato, frammentandosi in mille modi e quasi sempre perdendo la sua valenza di musica di rottura; mi sembra che il giovane metallaro occidentale oggi sia un animale da social come tutti gli altri, magari particolare e con le stesse ossessioni di un tempo, ma sicuramente meno sognatore e incazzato.

Perciò la guerra nei suoi interessi c’è ancora, ma non avendo alcun collegamento con un’esperienza di lotta reale o vissuta, né una vicina memoria storica a riguardo, essa diventa più qualcosa di lontano e leggendario, magari da far combattere agli eroi di un tempo arcaico (mi vengono in mente il black nazionalista o i dischi più vicini all’epic ottantiano in seno alla NWOTHM), o da utilizzare come immagine “evil” e genuinamente strafottente, come per altro è sempre avvenuto, ma che non vuole far arrabbiare più nessuno: mi sto sempre più convincendo (ma potrei sbagliarmi) che la tendenza odierna delle nuove band a ripescare continuamente dall’old-school non sia nient’altro che lo specchio di questo distacco fisiologico.

E nel frattempo, mentre sto scrivendo ‘sto pippone, mi sorge una domanda a cui non sono sicuro di voler rispondere: come potrà il metal continuare a prosperare e a evolversi qualora si liberasse definitivamente dalla necessità di manifestare la lotta e il conflitto?