Salve gente, come va la domenica? Io sto a casa con le bimbe. Questo è il fine settimana in cui toccano a me. Oggi dedicheremo l’intera giornata all’Olocausto. Siccome Matilde mi ha detto che a scuola, per spiegarle di cosa si trattava, le hanno fatto vedere Il bambino col pigiama a righe, ho deciso di correre ai ripari mostrandole Schindler’s List, Il pianista e Ilsa, la belva delle SS. Lunedì avrà parecchie cose nuove da raccontare ai suoi compagni di classe. Lunedì invece io tornerò a fare le mie chiacchiere con Raul, il Rottweiler della lavanderia. Quando mi chiudo nel magazzino a pesare i panni sporchi e spartirli, lui si mette seduto da una parte e mi osserva. E io gli racconto le mie cose. Vi assicuro che è quasi meglio di un analista. Forse è la reincarnazione di Lacan. Insomma, sono lì per ore a gestire panni sporchi di cacca, pipì, vomito, liquami farmaceutici, cibo e chissà che altro. Lafaccenda va avanti da due settimane per 9 ore e mezza al giorno. Ormai ci ho fatto l’abitudine e ho smesso di inorridire e sedare le ribellioni del mio stomaco. E ho smesso pure di provare pena, schifo e sgomento per tutti quei poveracci che ci fanno avere quintali di regalini avvolti nelle lenzuola, nelle traverse, i vestiti. In fondo la storia di un uomo nasce con i pannolini e finisce con i pannoloni, ecco di che si tratta. E la cosa è del tutto naturale. Non c’è niente di penoso. Avete mai provato pena per un bimbo di un anno che si caga addosso? No, anzi, vi fa tenerezza, povero piccolo, quando diventa tutto rosso, immancabilmente voi state iniziando a pranzare e lui si libera le viscere riempiendo la cucina di quell’odore a metà tra il prosciutto cotto e il broccolo andato a male.
Tesoooro, ti spiacerebbe cambiarlo tu?
Non provate pena, giusto? Magari un po’ di irritazione per la tempistica diabolica, ma niente tristezza.
Il vecchietto che non riesce a controllare le viscere invece vi sembra così umiliato, depresso. Ma anche lì è una cosa naturale. Cosa vi aspettavate, che il nonno arrivasse a cento anni con la forza di un toro o l’aspetto attraente di un diciottenne?
La natura ci offre tante belle cose (non a tutti ma a molti sì) e ce le toglie via via che la nostra “funzione cardinale” su questa terra si è consumata. Passiamo la metà della vita a inebriarci della nostra stessa bellezza, a farci i selfie piacioni, andando in palestra tutti i giorni e mettendoci a dieta dopo le feste. Desideriamo uno status florido e un loop smaliante di super-efficienza, lottiamo per ascendere le famigerate scale del pollaio sociale ma tutto quello che ci illudiamo sia possibile e soprattutto nostro, è temporaneo, ha una scadenza ed è un prestito da strozzini che ci viene revocato costantemente.
Céline parlava di Morte a credito, Stanislaw Lem invece chiedeva se non fosse possibile morire dormendo a rate, Padrecavallo vi dice che tra vivere e morire non c’è fisiologicamente alcuna differenza. Anche Ursula Le Guin ha detto una roba simile, ma lei considerava due lati di una stessa mano, inscindibili e allo stesso tempo diversi. Io esagero. Vita e morte sono la stessa cosa. E se iniziassimo a respirare la morte ogni secondo, ci accorgeremmo di quanto sia normale. Ogni respiro ci dice io vivo e ci consuma il sistema respiratorio insieme così come ogni metro che la nostra macchina percorre la allontana dalla concessionaria che ce l’ha venduta e l’avvicina allo sfasciacarrozze. La vita è usurante.
Sapete cosa disse il medico a Lewis C.K. quando questi gli domandò come poteva fare per risolvere il suo problema alla caviglia? “Lei ha quarant’anni, alla sua età la caviglia inizia il suo irreversibile logoramento. Non c’è niente che si possa fare. Deve conviverci”.
Cerchiamo di tenerci strette la salute, la bellezza, la forza, usando ogni mezzo possibile (chirurgia, terapie strane, divorzi tardivi, sperperi inpropri, integratori fuorilegge) ma è tutto inutile, alla fine diventiamo vecchi puzzoni che non riescono nemmeno a infilarsi i calzini senza svenire per essere andati in apnea mentre si chinano durante questa invincibile impresa.
E saremo sempre meno capaci di vestirci. Fino al giorno che moriamo, quando qualcuno ci rivestirà come neonati. Io ho vestito gente appena morta, per lavoro. Ogni volta che entravo nella camera mortuaria dell’ospedale e nella stanzetta dove si trovava il “cliente”, non mi abituavo mai a una cosa. Restavo lì a fissare il lenzuolo con nelle orecchie i lamenti dei parenti fuori dalla porta e il mio collega, ben più pratico e sbrigativo di me, sollevava quel velo bianco con un colpo secco, tipo quando il mago mostra la gabbia vuota dove prima batteva le sue ali il pappagallo. Voilà la mort! E il morto era lì in una paralizzante espressione di dolore fisico, paura, e resa. Sembrava un po’ come la vittima di un vulcano folgorato in una eterna espressione disperata per via della lava incandescente che sovrastava il suo corpo.
Avrei tanto voluto osservare più a lungo quei morti ma l’altro che era con me, si metteva in azione e gli riposizionava già le braccia lungo il corpo, gli chiudeva la bocca, li pettinava, gli creava l’espressione di sonno placido e florido, solenne che hanno i morti nella camera ardente. Ma ne ho visti abbastanza di morti, prima dell’imbellettamento posticcio degli orridi agenti funebri, e ho notato una cosa. Sembrano i figli della vita estratti da una gigantesca vagina mortifera. Sono come i bambini della morte. La parodia sfigata della venuta di un neonato. Gli occhi chiusi, la bocca spalancata in un urlo muto, i denti quasi scomparsi, frammenti gialli, scheggiati, consumati da millemila pasti vitali e da milioni di sigarette fumate per contenere l’ansia e la paura di vivere.
Di vivere o di morire? Vi confesso che nella vita ho avuto tanta paura di andare a scuola, del sesso, di avere figli, di mettermi con qualcuno, di iniziare un nuovo lavoro, di essere disoccupato. Sono andato avanti in questi primi quarant’anni con un profondo sgomento e un perenne senso di minaccia. Eppure se c’è una cosa che mi atterrisce davvero è la fine di tutto questo, messa lì, astratta, in un giorno lontano. E intanto muoio. Ogni parola che scrivo, ogni lettera che batto sulla tastiera, le mie mani si avvicinano a quello stato artritico e spettrale che hanno i morti, con le dita nodose e giallastre. I Simpson mi hanno sempre fatto pensare alla morte, sapete? Il giallo è il colore della morte, non il nero, per me.
Non conosco nessuno che ammazzi più della vita stessa. Ci arrovelliamo tutto il tempo a cercare di amarla, di amare la nostra più spietata assassina, e ci domandiamo del vero scopo della nostra presenza sulla Terra e non riusciamo a credere che si tratti solo di sopravvivere e riprodurci. Secondo il sistema biologico che ci ha creato e ci sopporta ogni giorno, noi dovremmo solo pensare a queste due cose.
Abbiamo tutto per riuscirci: diventiamo robusti, armoniosi, intelligenti, scattanti e con il cazzo duro all’occorrenza, affinché inseminiamo quelle topine che per decenni ci ossessionano, ci strappano il cuore dalla gola sculettandoci davanti e ci levano il sonno della morigeratezza sprofondandoci in un abisso di perdizione e meschinità, di bugie e sensi di colpa. Dobbiamo seguitare a mantenere la presenza degli uomini in questo eco-sistema. Madre natura è sempre per l’adulterio, se scegliamo il matrimonio. La natura è per il tradimento se scegliamo la fedeltà. E combatte con prepotenza ogni minuto i nostri strani propositi di non ubbidirle. E ovvio, a un certo punto la natura ci vuole morti. E ride del fatto che noi piccoli formicai umani, cerchiamo di eludere un passaggio fondamentale del processo che tutto regge e tutto determina.
La natura ci vuole allupati, infelici, perennemente alla ricerca di una quiete dei sensi che se arriva, dura poche ore prima di ricominciare a bruciarci dentro. Sublima la nostra carica sessuale per mille vie traverse, se disubbidiamo: il collezionismo, la costruzione di palazzi altissimi, il black metal, la guerra e il consumo smodato di cose inutili. E finché avrà bisogno di noi ci terrà. Poi ci spazzerà via senza problemi.
Una forza inarrestabile. Possiamo ribellarci ma la pena sarà una vita di nevrosi e tristezza. Se invece ubbidiamo avremo ancora nevrosi e depressione. Di questi tempi non c’è nessuno più fuori di testa di un povero genitore. Ma alla natura questo non interessa. L’essenziale è che le diamo altri esseri per sostituirci quando verrà il momento di levarsi dal cavolo noi e preparare i sostituti dei sostituenti.
Non ho mai capito la gioia di un nonno. Praticamente sta guardando l’essere con cui la natura l’ha doppiato e ne è felice. In quel pargoletto vede una consolante eternità. Accelera il tempo del suo consumo correndo dietro al rottolino che non gli da retta e punta la stradale.
I primi giorni che ero lì, alla lavanderia, a sfar giù pacchi olezzanti di piscio e di merda io pensavo a come fossi ridotto male: rimestare nel pattume umano per vivere. Poi ho capito che quel pattume umano è il futuro di tutti, anche il mio. E che un giorno riempirò di cacca un letto d’ospedale. Io e anche le belle ragazze che sono nel reparto stireria, con i culetti floridi, le guance soffici e rosee, i capelli forti.
Ecco, e quando accadrà il momento di dovermi rimettere il pannolino, vorrei davanti a me un mondo di infermieri e parenti che invece di odiarmi, piangere o avere conati di passione per le mie perdite organiche di dignità, sorridano e mi cambino il pannolone, contenti perché in qualche modo ho liberato l’intestino e adesso magari riposerò qualche ora senza rompere le palle a nessuno. Come un bravo bebé.