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Netflix e la serializzazione che ci rende infantili

Una delle cose per cui sarà ricordato questo tempo che siamo costretti a vivere, è Netflix e lo streaming. Non credo che la TV a pagamento abbia avuto una simile esplosione, nei primi anni 90. Tele+ fu un fiasco e Sky, per quanto ci abbia provato con più mezzi e meno ingenuità, ha finito per rappresentare sempre un intrattenimento elitario, mentre oggi, lo streaming è popolare ed è quasi impossibile non conoscere gente che si bombi Netflix per giorni e giorni e notti e notti e se ne faccia vanto sui social. Su Netflix (o Amazon Prime o qualsiasi altra piattaforma streaming) ci sono i film e i documentari di 90 minuti, ma quello che va davvero alla grande sono le fottute serie. Se venivamo già da un Rinascimento delle serie TV ora siamo nel puro decadentismo.

La serie TV non è più chiamata telefilm (quella è roba anni 80 e 90) oggi si chiama serie e non è tecnicamente nemmeno così esatto metterci vicino TV dato che la si vede sul cellulare, tablet, monitor del PC eccetera… solo i più tradizionalisti ci tengono a far passare i programmi in streaming dal televisore; un po’ come i rockettari vogliono che gli si infilino i moderni album digitali nel formato vinilico.

Serie è praticamente diventato il “nuovo” formato entro cui ripassare in padella tutto ciò che già si è fatto e rifatto allo sfinimento. Come c’erano dei film trasposti da lunghi romanzi, per cui ci stava benissimo una serie che non si è fatta mai (vedi IT) ci sono tantissimi altri libri o videogiochi che un film solo basterebbe eccome a raccontarli. Ma ormai siamo all’eccesso opposto. Persino Pierino e il lupo lo farebbero in serie. Più lungo è, meglio è.

Pensate che meraviglia. Al cinema sono lì disperati che ripropongono i vecchi classici con un restyling e li chiamano remake, reboot o quel che è, e tanto c’è sempre la sensazione che si stia riciclando pure il ciborio e invece in TV, una serie su Dracula oggi è una novità. E poi c’è Il signore degli anelli, Napoleone, La rivoluzione Francese, La conquista delle Americhe, una serie sul Risorgimento? E una su Alessandro Magno? E perché non riprendere un vecchio film di successo e invece di farne il remake trasformarlo in… serie!?

Non solo vengono serializzate tutte le più abuse vicende narrative che già da cento anni il cinema, prima ancora il teatro e la letteratura, ci hanno raccontato e riraccontato, c’è anche l’artista che da un formato, mettiamo quello cinematografico, finisce per cimentarsi pure lui con una serie. Pensate: Woody Allen che fa una serie. Carlo Verdone che fa una serie. Dario Argento che fa una serie. Steven Spielberg che dirige una serie su Woody Allen!

Ma se io non avessi tutto questo gran tempo da sprecare? Sembra che il mondo non veda l’ora di farsi annichilire da una lunga-lunga storia che gli riempia l’esistenza. Un tempo si deprecavano i filmoni da 3 ore perché non c’era tempo di fare un cazzo ma oggi? Oggi sprechiamo tempo a non finire per colpa del cellulare (la cloaca portatile delle distrazioni) ma abbiamo anche tutta la notte per vederci una serie nuova in diciotto stagioni.

Per ogni idea ci vogliono almeno 3 stagioni. La miniserie già è qualcosa che tira poco. E la serie è il trionfo del NO spoiler.

Mai come in questi anni la difesa dello spoiler è diventata quasi una battaglia civile, alla stregua della violenza sugli animali. Lo spoiling (vale a dire, non dirmi come finisce pezzo di merda o ti stupro la nonna morta) prima non si chiamava così. Non aveva nemmeno un nome. Era un comportamento occasionale che sovente praticavano persino i critici cinematografici. Del resto parlare in modo serio e approfondito di un film (inteso non come prodotto di fruizione alla stregua di una confezione di sottilette, ma un’opera con necessità creative genuine e sottesti sociali e filosofici) e farlo senza svelare la trama, è un po’ come giudicare una partita di calcio senza dire il risultato: piuttosto frustrante.

Ma è possibile che tutto si sia ridotto al “vediamo come va a finire?”. Non vi pare che sia un po’ poco? Vediamo qualcosa per vedere come finisce, è tutto lì? Io vedevo un episodio del telefilm Hunter perché volevo sapere come finiva, ma dentro mi sentivo disperato e fregato. Ero lì con la mia merenda, alle 16 e su Raidue mia nonna guardava Hunter. Io odiavo Hunter, non me ne fregava nulla di quella serie, ma se mi capitava di buttarci l’occhio finivo per seguirlo senza nemmeno rendermene conto. O anche Il Tenente Colombo, Beautiful. Qualsiasi boiata vince su uno spettatore se riesce a infilargli nel cranio la smania di capire come va a finire! Io non mi sento bene dentro quando la sola ragione che mi tiene davanti a uno schermo è quella. Un film non è una cazzo di barzelletta, come diceva la buon’anima di Elvezio Sciallis.

Chi scrive di cinema o di serie televisive oggi, è più una specie di omertoso censore che allude, suggerisce, sorvola e al peggio, quando proprio non ne può fare a meno, allora sgancia l’ALLERTA SPOILER e dice qualcosina ina ina sperando che i lettori non siano tutti polverizzati. C’è chi ha paura a scrivere di un film. Riceve minacce preventive. “Ora leggo, ma se dici qualcosa che non devo sapere sono cazzi tuoi”.

Ma si capisce, se mi sveli come finisce, io mi perdo tutto il divertimento. Eppure La dolce vita, Diabel o magari Non aprite quella porta, restano capolavori su cui tornare e tornare, anche sapendo trama e battute a memoria. Ci sono milioni di film che una volta conosciuto il finale continuano ad appassionare. Per esempio, I soliti ignoti. Penso che ormai anche i funghi porcini che devono nascere sappiano chi era il fottuto Keyser Söze ma conoscerlo non sciupa il film, no? La prima volta è un’emozione forte, ma che valore ha una sorpresa? Si tratta di un orgasmo di pochi secondi, e per giunta irripetibile. Su I soliti ignoti si torna comunque, per capire dove avremmo dovuto capire che era proprio lui, vedere l’attore che recita un uomo mentre recita di essere chi non è, e magari scopriamo qualcosa in più sulla nerissima capacità umana di mimetizzare il male nella meschinità più innocua e patetica.

Poi c’è roba come Saw – L’enigmista che ha un finale talmente a sorpresa che quasi spazza via tutto il resto dell’opera. Ma anche lì, se il film è qualcosa in più di un Kinder Bueno, saperlo non ci impedisce di godere una vicenda che pure se non appare più in modo ingannevole, mostra in ogni caso parecchie cose interessanti da notare. Vincenzo Cerami diceva che conoscere le sorti del protagonista, sapere da subito che morirà, non ci impedisce di respirare la tensione fino alla fine, proprio perché si sa che il tipo farà una brutta fine. Spereremmo comunque di no, anche sapendolo e soffriremmo ogni fotogramma perché più ci innamoriamo di lui e più lo rimpiangeremo, quando qualcuno, come detto, lo ucciderà.

Ci sono storie che iniziano con il protagonista in obitorio. Qualcuno magari si sarà alzato dalla sala cinematografica dicendo, ok, ho capito, me ne vado? Non credo proprio. Un buon film ci coinvolge per così tante ragioni: il magnetismo dell’attore, i dialoghi, il realismo, l’emozione… e poi certo, la curiosità del finale. Tarantino che al solito è un genio della seduzione, è stato il primo autore a prendere una vicenda reale e offrire allo spettatore un finale diverso da quello che DOVEVA essere. Ha tradito la realtà per il bene dello spettatore. E questo secondo me segna i tempi. Per non fare spoiler, un regista finisce addirittura per cambiare la Storia pur di regalare alla gente un fottuto finale a sorpresa. Potremmo fare una serie sui Vichinghi che alla fine conquistano il mondo e lo rendono tutto vichingo, perché no? Chi può dire come andrà a finire qualsiasi cosa?

Credo che il pubblico sia diventato molto infantile. Attenti, ho detto diventato, non tornato. L’infanzia vera e genuina non sarà mai come la parodia bieca e stupida di un adulto che perde terreno e si fa rimettere il pannolino e riposizionare nella culla a frignare. Un adulto non ha la capacità di godersi sempre la stessa fiaba, come i bimbi, che vogliono sentire la storia di Cappuccetto Rosso o di Pinocchio fino allo sfinimento, ogni sera. Perché i bambini chiedono ancora e ancora Pollicino o Riccioli d’oro? O di vedere Frozen e i vecchi episodi di Masha? Beh, non è facile rispondere. Non sono più un bimbo, non mi ricordo come mai guardavo Rambo dieci volte a settimana, a otto anni. Però ipotizzo che cerchino qualcosa in mezzo a quelle storie. Anche se sanno già cosa attende Cappuccetto e cosa poi attende il lupo, tutto questo non li annoia ma gli offre sicurezza. Ecco perché un adulto alla fine vuole sempre che le cose vadano come si aspetta. Ed ecco perché molte volte i colpi di scena non sono così imprevedibili. Ma gli adulti infantili? No, sono bimbi anziani, corrotti da troppe storie, così viziati che una volta conosciuta una fiaba, ne desiderano altre, sempre altre, sempre altre. Ignorando il fatto che le storie, con le varianti fumose, sono comunque le stesse cinque o sei che hanno già sentito. La ricerca del tesoro, la principessa in pericolo, la vendetta di tizio…

Sapendo come ragiona il pubblico, chi queste storie le fa, ne produce sempre di “nuove” e non si spreca più a creare qualcosa che rimanga nel cuore, proprio come i tavolini moderni in una cucina. Una volta un tavolo doveva durare, la resistenza era sbandierata come qualità del prodotto. Oggi un tavolo è di tendenza e dura quanto una tendenza. I film e i telefilm sono la stessa cosa. Non ci servono storie che diventino classiche ma vicende che degradino e lascino il posto a nuove storie, nuove serie, nuovi attori. Le serie, nello specifico sono sempre più prodotti usa e getta, che una volta rivelati gli spoiler rimangono inutilizzabili.

E non è un caso che oggi vincano le serializzazioni e Netflix, anzi, è proprio lì che la logica del NO SPOILER domina. Avete provato a rivedervi un’intera serie che vi è piaciuta? Io ci ho provato.

Ho tentato con Breaking Bad, Sons Of Anarchy, Il trono di spade, Mindhunter… dopo qualche puntata ho mollato e sono andato a mettermi del ghiaccio sullo scroto. E questo perché sapevo già tutto. Non c’erano più spoiler da temere, non c’erano più sorprese e quindi potevo accorgermi finalmente della recitazione un po’ così, gli sfilacciamenti e le forzature della trama. E sentivo soprattutto il peso immane di quella mastodontica durata.

Non esiste un serial che giustifichi tutte le ore che ci perdiamo, se non per i ganci e le sorprese, i twist e i colpi di scena. Una volta che li conosciamo, la serie diventa una insopportabile perdita di tempo perché a parte quelle, non ci sono molti altri motivi che ci spingano a indugiare per 180 ore su una storia di un tizio che ha un problema, non sa come risolverlo e finisce per scegliere il peggiore dei modi.

Purtroppo la necessità dei colpi di scena e la fabbricazione industriale di serie televisive, (quasi tutte dallo stesso paese) hanno finito per stabilire dei metodi tattici su come dipanare le vicende. La sperimentazione è praticamente finita. Uccidere chi di solito non muore? Fatto. Metterci così tanto sesso e violenza dove non te l’aspetti? Fatto. Ammazzare il protagonista alla seconda stagione e proseguire altre cinque con un altro protagonista? Fatto.

Si avverte il rumore dei macchinari di una fabbrica sullo sfondo di ogni serie che esce. E come prodotti in serie, le serie via via hanno finito per somigliarsi un po’ tutte e possiamo prevedere dove andranno a parare le vicende molto prima che i benedetti colpi di scena arrivino. Un colpo di scena, se previsto, non lo è più.

Per un periodo mi sono appassionato alle docu-serie. I vecchi documentari, sapete? Anche lì c’è stata la serializzazione. Non bastava più un solo filmato di un’ora sulle Piramidi, due puntatone sui campi di sterminio o dieci minuti sulla gazzella che si fa mangiare dal ghepardo, ci vogliono dieci puntate per tutti questi intramontabili argomenti. Approfondiscono? Magari. In realtà allungano la solita vecchia broda. Chi fermerà Hitler? Riuscirà la gazzella ad avere la meglio? Le piramidi sono astronavi pronte a salpare per Sirio?

Per me le serie crime sono le più avvincenti. Peccato che il tentativo di incanalare in una struttura da fiction una vicende reale, spalmandola ovviamente in 8 puntate da un’ora, con i colpi di scena e le rivelazioni tipiche di un racconto di finzione, non solo ci illudono che la realtà e la fantasia abbiano i medesimi principi ritmici e doveri d’intrattenimento verso il pubblico, ma conducono storie vere e appassionanti in un tritacarne di ripetizioni in cui l’approfondimento genera solo dubbi e le risoluzioni languono.

Perché non c’è caso di cronaca nera che sia davvero sicuro. Se uno non vuol credere alla giustizia, alle prove e preferisce ascoltare la voce indefessa dell’assassino che dice non sono stato io, allora nemmeno Pacciani è Il mostro di Firenze. E allo stesso tempo non esiste caso di cronaca nera che abbia un finale rassicurante. E soprattutto non si può piegare una vicenda vera alle infantilissime certezze di chi guarda film dove ogni tassello alla fine, dovrà andare al suo posto… ma con calma. Facciamo un paio di stagioni da otto episodi.