yoko taro

Yoko Taro e le lacrime lunari!

White clorination syndrome: è tutta una questione di sale.
Mi immagino un’entità aliena che nell’anno 7492 piomba sul nostro pianeta e fa il download completo di tutto il nostro scibile, di tutta la nostra opera letteraria, cinematografica, musicale e videoludica; spulciando tra le cose dei primi decenni del terzo millennio, in mezzo a scorie di file temporanei come Myss Keta e Fortnite, scopre l’esistenza di una roba come le saghe di Drakengard e NieR.

All’inizio magari gli sembrerà una delle tante giapponesate piene di fantasia adolescenziale, una rielaborazione creativa con scarsa coerenza del già visto, indirizzate a nerd poco socievoli e con una certa tendenza all’onanismo da cameretta, anche per via dei culi e delle tette al vento delle protagoniste. Ma poi, man mano che l’apocalisse millenaria comincerà a manifestarsi, ci sarà una qualche probabilità che il nostro analitico E.T. non possa fare altro che inchinarsi di fronte al genio assoluto della mente che ha concepito opere simili.

Il suo nome, quasi certamente uno pseudonimo, è Yoko Taro ed è uno che, anche in occasioni ufficiali ed eventi stampa di una certa rilevanza, gira con una maschera di Emil, uno dei personaggi più importanti che popolano le sue opere. È anche quello che ha più volte dichiarato di lavorare ai suoi giochi da ubriaco e che a domande come “perché lo fai?” o “cosa vuoi trasmettere?” ti può tranquillamente rispondere con “per i soldi” e “cazzi duri”, per poi lasciarsi andare a riflessioni mai banali sull’esistenza e la morte…

Perché ci azzuffiamo su questa terra se poi alla fine va a finire tutto in merda? È veramente il banalissimo “cogito ergo sum” la vera essenza che definisce il nostro Io? E come mai, nella fitta gamma delle opzioni binarie coinvolte nella sintesi di una scelta finiamo per agire proprio in un certo modo? Domande del genere. E una sensibilità veramente peculiare che – parole sue – gli fa provare una certa triste nostalgia giocare con i vecchi flipper degli anni ’80 (oggetti ormai veramente molto rari in Giappone).

Tralasciando gli aspetti più tecnici dei giochi che lo hanno coinvolto come director (E romanzi, E spettacoli teatrali, E installazioni artistiche), che sono stati spesso altalenanti, quello che sicuramente merita grande attenzione sono le storie che ha voluto raccontarci. E che continua a raccontare, anche attraverso riferimenti espliciti al suo mondo presenti in progetti di altri sviluppatori.

In epoche recenti io non ho trovato niente – e sottolineo, niente – di più epico e imponente come quello che succede nell’universo narrativo messo in piedi da questo signore qui. Si parte con Drakengard

e una Spagna alto medievale completamente mistificata – High fantasy classicissimo, con tanto di draghi e stregoneria -, per giungere alle derive post apocalittiche e industriali di un pianeta ormai popolato solamente da androidi e macchine

(la serie di NieR), passando per linee di sangue dimenticate, cataclismi magici, culti antichissimi, improbabili riferimenti angelici, guerre contro mostruosità aliene in una Tokyo contemporanea sconvolta da un’epidemia, esperimenti scientifici falliti su scala globale, bombardamenti lunari…

… il tutto in un arco narrativo di un qualche migliaio di anni, con linee temporali alternative e connessioni narrative spesso criptiche. Un bel casino, insomma, che in altri ambiti avrebbe potuto essere solo il pastiche raffazzonato di un creativo particolarmente volubile, ma che qui assume il fascino dell’epica classica, della tragedia shakespeariana e del testo biblico.

E il fatto che io ne sia così ossessionato è del tutto logico, se penso che questo tipo di narrativa per accumulazione, capace inconsapevolmente di creare una specie di galassia mitologica, ha tanto in comune con certi universi che avevo già trovato proprio nel metal.

Macchina strana, al villaggio di Pascal: “There’s an important leasson here: the more of a fool people take you for, the more you’ll learn of their true nature.”
Il tema della macchina che si fa senziente è stato stra-abusato in tutti i campi dell’espressione umana. Per Yoko Taro, però, questo aspetto si trova a uno step successivo e su una scala più grande. In particolare, il primo NieR e, soprattutto, il più recente NieR:Automata ci parlano degli androidi e delle macchine come qualcosa di algido e incapace di provare dolore carnale, ma allo stesso tempo in grado di elaborare/interpretare emozioni complesse e di riscoprire un’umanità arcaica, ormai sepolta dalle sabbie del tempo.

La nostra specie, infatti, è estinta da millenni, il mondo è un guscio vuoto e gli androidi combattono una guerra contro le altre macchine perché sono ancora convinte che i superstiti della razza umana si trovino in una specie di esilio volontario sulla Luna. Sorprendentemente, questo diventa il presupposto per raccontarci e analizzare la fenomenologia umana da un punto di vista antropologico e filosofico, ma con il freddo distacco della macchina: le biomacchine scoprono i pensatori dimenticati (Sartre, Pascal, Kant, Nietzsche, etc.), cercano di emulare i comportamenti che non riusciranno mai per forza di cose a comprendere in pieno (come  invecchiare e scopare) e si interrogano costantemente sulla morte, la bellezza e l’esistenza.

Dall’altra parte gli androidi – macchine da guerra super performanti con le sembianze di cavallone dominatrici BSDM – sperimentano le tragiche conseguenze del reset di memoria e dell’individualità negata. Chiaramente anche il riferimento sessuale in queste opere assume spesso una certa rilevanza e di certo non per gli abiti succinti di Zero, Kainé o 2B, né per alcun rapporto realmente consumati, bensì a un livello prettamente ideale e psicologico, anche quando si parla di ermafroditismo, di procreazione, di prostituzione o di palingenesi.
“It always ends like this.”

E finisce sempre male, o per lo meno mai del tutto bene. Se il tema principale di tutta la saga è la guerra eterna per la sopravvivenza di specie diverse sull’orlo dell’estinzione, di sicuro il confine morale di chi ha diritto di vincere o perdere è sempre molto sottile: semplicemente, i detentori del bene assoluto per Yoko Taro non esistono.

Ma nemmeno i cattivi. Comunque sia, alla fine ci sarà sempre una qualche tragedia e un certo senso di tristezza, a cui spesso farà da contraltare una buona dose di humor molto elementare e per nulla allusivo, che ci fa venire il forte dubbio che probabilmente l’autore non voglia essere preso più di tanto sul serio. D’altra parte parliamo pur sempre di quello a cui gli piace rotolarsi per terra per pubblicizzarsi una maglietta.