Sento spesso dire in giro che il black metal suona più o meno tutto uguale. O che alla fine è la permutazione delle solite due o tre progressioni melodiche e che quindi, per via di una pochezza di ingredienti, è ormai molto difficile suonare veramente interessanti nel 2020. Di solito non ci sono grandi possibilità di variazioni sulle strutture come nel death metal o nel thrash, né la possibilità di giocare sulla gamma dinamica dei momenti più “morbidini” dell’hard rock o del metal classico. Fai ascoltare un minuto del disco più scrauso su YouTube e poi mettigli su gli Horna: se non è abituata a sentire black metal, la tua cavia probabilmente ti dirà che sono la stessa cosa. In un certo senso è vero, il black metal è sempre stato uno stile piuttosto problematico. Quando ha prodotto cose innovative di solito lo ha fatto uscendo dal tracciato e diventando qualcos’altro, pane anche per i denti di altri stili. Se è rimasto fedele a se stesso e ha giocato le carte giuste, invece, ha finito per impressionare solamente chi il black metal lo ascoltava già. Poi ci sono dischi come l’ultimo dei greci Serpent Noir, che stanno un po’ nel mezzo.
Loro non innovano proprio niente, né osano più di tanto rispetto ad altri che ci hanno propinato lo stesso tipo di proposta; allo stesso tempo, a questo giro imbastardiscono leggermente l’ossatura black diversificando il lavoro di chitarra con lead pescati dall’heavy più melodico e quindi possono diventare interessanti anche per chi non ne mastica più di tanto.
Vagamente il risultato riprende un po’ di orthodox/religious alla Ofermod, Ascension e scuola francese (è un disco W.T.C. e si sente un mucchio) e un po’ di Svezia alla Dissection e Watain, solo con un bel po’ di melodia in più. Ecco, diciamo che in un mondo equo e giusto dovrebbero tranquillamente pagarsi le bollette facendo questa roba qui, come fanno i Watain, visto che Death Clan OD è anche il loro terzo disco di un certo livello, seppur con una direzione sostanzialmente diversa.
E per la terza volta, la loro musica è pretesto per reclamizzare il loro credo. Questa cosa dell’Ordo Draconis Et Atrii Adamantis nei dischi dei Serpent Noir mi ha sempre incuriosito, non tanto per motivi religiosi (non credo in niente e qualora ci fosse una forma di volontà trascendente probabilmente gli sputerei nel muso) quanto perché si tratta di uno di quei casi in cui alla ritualità con fini scenografici a cui siamo assuefatti si affianca un’ortodossia reale, con tanto di manifesto programmatico, sito internet e quota d’iscrizione.
Thomas Karlsson, fondatore dell’ordine e autore di tutti i testi del disco, aveva già trovato un veicolo per professare le sue idee attraverso le liriche metal (Therion e Shadowseeds), ma mai in modo così rigoroso e continuativo come con i Serpent Noir.
Allora mi chiedo: cosa accadrebbe se un giorno qualcuno con i big money rubasse l’idea di marketing fatto con il metal per pubblicizzare cose di portata ben più ampia rispetto a un club di zingarate esoteriche? E se ci rendessimo conto che le candele alla vagina e i Serpent Noir sono figli dello stesso marketing creativo dei nostri tempi?
Bah, lasciamo perdere e per lo meno teniamoci il disco, che (s)oggettivamente scivola via che è una meraviglia: d’altra parte lo devi ascoltare, mica farci una messa in aramaico antico. Ha dalla sua un’accessibilita e un’urgenza inusuali rispetto al passato e quindi fa un bel passo in avanti, ma anche tre di lato: si lascia alle spalle sia gli arpeggi riverberanti di Erotomysticism, che le reiterazioni dissonanti del debutto e gli inframezzi ritualistici, puntando tutto sulla compattezza, la melodia e i riff. E tutto mi sembra così a fuoco, che se non fanno il botto questa volta, le domande da porsi saranno ben altre: ok, probabilmente è la solita roba, ma è fatta con lo scroto in mano.