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Calendari – Quando dal muro miss Aprile ti guardava sorniona…

Cari centauri, cavalli ed equinidi di ogni sorta, ecco che oggi sono a presentarvi un articolo atipico, di quelli che tanto piacciono a noi di Sdangher. Complice una visita in officina da me, si parlava di un must degli anni ottanta e novanta, repentinamente ridimensionatosi dopo l’avvento di internet. Di cosa parlo? Suvvia, in un garage che si rispetti, luogo a uso e consumo dei maschi (oggi nemmeno più tanto, finalmente la moto è divenuta un irresistibile richiamo anche per tante donzelle che ne hanno intuito il potenziale) non possono mancare una serie di cose.

Ragioniamo. Ci vuole il banco, sono indispensabili gli attrezzi; pezzi di ricambio sparsi fanno arredamento e riportano felici ricordi di modelli passati: latte di vernice? Perché no! Latte d’olio, bulloneria allegramente sparsa in maniera disordinatamente logica e poi misteriose guarnizioni appese in ogni dove. Ok, tutto questo ci sta, siamo d’accordo, ma che officina sarebbe quella di un meccanico senza calendari sexy appesi alle pareti? Mancherebbe una delle tradizioni fondamentali dell’ambiente, non vi pare?

Ovvio che, prima o poi, io e Padrecavallo non potevamo che decidere di scriverci un articolo sui calendari sexy. Sarebbe stato impossibile ignorare cotanto sfarzo degli antichi fasti, oggi meno importante forse, spesso divenuto abitudine disertata da molti, surclassato dalle immagini senza censura che la rete ci fornisce a piene mani.

Ma il calendario, quello fatto bene, era solo un pezzo di carta con le foto delle soubrette di grido, ci siamo chiesti?

No, per niente. Nel periodo che andiamo ad analizzare, che va dagli anni dei mitici Pirelli fino a più recenti capolavori, che portano il nome delle patinate riviste per uomini degli anni  in questione, rappresentò un metodo sia di vendita che di autopubblicità. Stiamo parlando di un periodo che arriva fino all’inizio di questo secolo (che mi pare più triste ogni volta che penso a certe cose, perdute irrimediabilmente) e che vide coinvolte nella creazione di queste pubblicazioni le testate di importanti giornali quanto le ditte produttrici di ricambi e prodotti stesse, tutti in gara a chi otteneva una visibilità maggiore. Come? Beh con modelle bellissime, fotografi più bravi, location evocative dei set.

La diffusione dei calendari sexy era tanto capillare da raggiungere ogni parte del Paese, arrivando in attività diverse ma tutte accomunate dall’interesse del cliente o frequentatore maschio italiano. Cosa meglio di un bel paio di tette per farsi pubblicità in un negozio di barbiere, una cabina di camion, un’officina frequentata e di passaggio? Il calendario non mancava mai. Ciò che fece fare il salto di qualità decisivo nella produzione riguardante tali prodotti fu la concorrenza.

Mi spiego meglio: benché oggi sia una cosa che fa sorridere, al tempo tutte le riviste con un pubblico prevalentemente “masculo” provarono a dimostrare che il loro calendario era il migliore, creando una fantastica competizione e producendo veri e propri generatori di libido giovanili.

Da quelli distribuiti gratuitamente a quelli con le riviste patinate più costose (Max, che ha sfornato alcuni dei migliori in assoluto, costava la bellezza di diecimila lire. Mica poco!) in ogni ambito ci si impegnò al massimo per dare al pubblico un prodotto che fosse desiderato e ricercato.

Ora, tra tutti i vari nomi di attrici, modelle o cantanti dai sorrisi ammalianti e dalle curve generose, molte sono state quelle a entrare nell’immaginario maschile del Bel Paese, vedendo le loro carriere cambiare o consolidarsi.

Come non menzionare la bellissima e giovane Anna Falchi del Max 1996, per esempio, cui tante diottrie furono sacrificate dai giovini, o la Marcuzzi (Max ’98) o ancora l’annunciatrice di Rete 4 Emanuela Folliero, che posò discinta per Capital nel 2003. Nomi più o meno famosi, ma le “ragazze dei calendari” furono migliaia, ritratte su spiagge infinite o in spaccati di vita quotidiana (in azioni comuni, si sa che cucinare in slip e fare jogging tutte nude è la quotidianità per loro, o almeno questo volevano far credere i fotografi).

Vedere il proprio marchio associato alle pagine che scorrevano col passare dei mesi era, per chi maneggiava grossi capitali, una tentazione che valse a modelle e fotografi soldi a palate. Non si faceva economia sulle curve, tutto doveva essere perfetto quando, dalle pareti delle officine di periferia una formosa soubrette ammiccava a potenziali clienti cercando di attirarne l’attenzione.

E cosa dire dell’impatto sull’Italia del tempo? Beh, basti pensare che le procaci donzelle affascinarono tanto il pubblico da finire per restare in mostra per anni, dopo che il mese a cui la loro pagina era associata arrivava alla fine.

Dagli esordi timidi del “primo periodo Pirelli”, presentato nel 1964 e andato avanti fino al ’74, quando fu sacrificato a causa dell’austerity per circa un decennio, tornando disponibile con il “secondo periodo”, dal 1984 al 1994, negli anni d’oro del calendario, con modelle del calibro di Naomi Campbell (sedicenne tra le miss 1987)

fino ad arrivare alle nuove eccellenze (i bellissimi calendari di Max, Capital, For Men, tanto per nominare qualcuna di queste) che accompagnano i signori italiani sino ai primi anni duemila, quando cadono inesorabilmente sotto la scure di Internet o diventano prodotti ancora più raffinati, spesso perdendo la propria identità e finendo per sembrare la solita rivista di moda per signore invece che per officine.

Basta vedere l’ultimo periodo del “The Cal” Pirelli, più adatto a un salone di bellezza parigino che alla parete del mio antro, da cui fanno capolino visi e corpi più sinceri e reali che sorridono a un garage serio, disordinato e creativo.