E siamo alle solite. Ci siamo accorti di quello che è successo su internet negli ultimi vent’anni anche solo aprendo un qualunque social questa mattina: da arroganti opinionisti musicali per la cacca sanremese siamo passati in meno di una settimana a menarla coi tassi di mortalità a suon di infografiche che manco il miglior virologo dello Spallanzani. E come sempre abbiamo dimenticato chi siamo.
Chi sono io, su internet? Chi sei, tu che leggi? Se è vero che la tua rete sociale (virtuale) e il muro di nozioni/opinioni che dobbiamo gestire online contribuisce parzialmente a definirci giorno dopo giorno come persone (reali), cosa puoi pensare di un individuo che, a cicli continui e da svariati lustri ormai, viene catapultato in mondi di informazioni sempre diversi, impermeabili l’un con l’altro e che non lo appartengono mai per davvero?
Vedete, per me commettiamo sempre lo stesso fatale errore, o almeno io mi ci metto dentro senza problemi.
Ci imbattiamo in una conversazione vivace, con cazzi e scazzi nei commenti; poi portiamo fuori dal nostro vero io la nostra persona, quella che oggi gli addetti chiamerebbero identità digitale, e diventiamo, come dire, aleatori in un branco di sconosciuti altrettanto aleatori. Cominciamo a recitare un gioco delle parti in cui tutti si informano più o meno consapevolmente, ma dove ho il tremendo sospetto che a nessuno freghi realmente qualcosa dell’argomento di cui si sta parlando. Solo uno stolto chiacchiericcio, che pisciamo fuori dal vaso come dei vecchi incontinenti maleducati.
Un atto che poi, nove volte su dieci, nobilitiamo come la conquista sociale di poter esprimere un’opinione, neanche fosse del tutto lecito. Ma siamo proprio sicuri che serva a qualcosa avere un’opinione per qualsiasi cosa? Fateci caso: quasi sempre finisce che più la baruffa va avanti lungo gli interminabili thread, post, risatine e cuoricini, e meno diventa rilevante l’oggetto della discussione.
E per cosa? Per riempire il cazzo di vuoto quantico della nostra individualità, che nel frattempo è andata definitivamente a farsi benedire, grazie a fiumi di parole – rozze o calibratissime, non importa – su citofoni, Amuchina, Sanremo, Antartide, biscotti, Australia, Gattuso, Costituzione, dogane: uno schizofrenico flusso di informazioni che scandiscono e plasmano la nostra vita e la percezione della realtà, annichilendo il processo con cui prima edificavamo la Memoria.
Quando non passi, dopo un sordido barcamenarsi in questo troiaio, alla fase successiva: il giochetto diventa palese, ti prostri davanti all’evidenza, e ti senti come un infetto, uno zombie… alla faccia del Coronavirus. Quindi spesso cerchiamo di astrarre i contesti e le persone coinvolte e di guardare con il distacco del saggio (ma dove?) tutta quella gente, tutte quelle parole buttate nel cesso, tutti quei tristissimi escamotage per far vedere agli altri che hai il pisello più lungo: è nata tutta una terminologia relativa a riguardo che si è fatta nuova etichetta – robe come “rosicare” o “leoni da tastiera”, per dire – e che definiscono quello che a tutti gli effetti si è fatto ambiente culturale, nonostante la pochezza e la confusione.
Meglio che vada, per un periodo ci riesci per davvero a startene per i fatti tuoi, anche se poi il tuo “memino” deficiente lo posti comunque e ti sporchi di merda anche tu, esattamente come tutti quanti. E ricaschi nel turbine. Ah, che sottili, le meccaniche della dipendenza dal metadone comunicativo!
Il vero guaio è che poi, questa progressiva dimenticanza del sé probabilmente te la porti anche fuori dai social, tra gli amici e la tua famiglia. E allora quel modo di comunicare che padroneggi benissimo sui social, così stupidino e generico, ma paradossalmente ricco di nozioni univoche e articolate, si sposta a tavola, al bar, al lavoro. E continua a non dire assolutamente un cazzo di te, così come non diceva niente di te sul tuo smartphone.
È qui che alla fine ti rendi conto che forse forse i dotti con lo scranno nell’attico e i bifolchi agricoli con lo schioppo appartengono allo stesso tipo di prodotto sociale, e senza tirare in ballo la puttanata dell’analfabetismo funzionale.
Continuiamo ad essere così ossessionati dall’imbellettare il nostro Io virtuale, magari adattandolo ingenuamente a quello che crediamo gli altri vedano di noi nella vita di tutti i giorni, che la necessità di comunicare qualcosa ha finito con il fagocitare tutti gli altri bisogni esistenziali, realizzazione personale compresa. Così quel poco di significativo, unico e vero che ci contraddistingue si perde in un rumore bianco monocromo e impersonale, che costantemente ci alza l’asticella di sopportazione al silenzio che ci portiamo dentro. È l’illusione che un like di approvazione ci salverà, perché impazziremmo se ci riscoprissimo simili a dei vecchi bot di IRC, solamente molto più evoluti di un tempo e con un discutibile algoritmo in materia di buon gusto.