Per mille cilindri roventi, è uscito il nuovo disco del Madman! E allora eccoci a parlarne, pensavate ce ne fossimo dimenticati? Noi di Sdangher non potevamo certo esimerci dal dire la nostra, nonostante i molti e contrastanti pareri sul disco in questione. Abbiamo fatto la conta e gira, sotto, tocca proprio… a me!
Scherzi a parte, il nuovo disco di Ozzy Osbourne mi interessava, come a ogni vecchio metallaro che si rispetti, quindi non chiedo di meglio.
Permesso che un disco del Signore delle Tenebre non si giudica, si ascolta con rispetto e forse, se richiesto, si fornisce un parere, va detto che questo Ordinary Man non mi ha entusiasmato quanto prevedevo, almeno alla luce della lunga attesa dopo l’ultima, mediocre, fatica del nostro caro arzillo nonnetto metal, quello Scream dove tanto si avvertiva la mancanza del grande Zakk.
Ozzy fa ciò che sa far meglio, si adatta ai tempi, scrive tenendo d’occhio il mercato e ci regala un buon lavoro composto di undici canzoni (dieci più quella ciofeca di Take What You Want che chiude l’album, abbassando sensibilmente la media dei pezzi) che non faranno forse la storia del rock, ma ci presentano una bella carrellata di artisti che accompagnano il nostro in questo suo viaggio, a partire da nientemeno che Sir Elton John che duetta nella title track con lui, e poi Slash e Duff dei Guns’n’Roses a chitarra e basso, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria e tanti ospiti che troverete come special guest in giro tra le tracce.
A mio parere però, tolta la title track, che sentiremo in radio per un bel po’ perché è davvero un pezzo interessante (io avrei lavorato un po’ di più sull’assolo, ma sono gusti), Straight To Hell e Goodbye, che ci riportano a un certo stile Ozzy-in-salsa-moderna che mi piace e mi soddisfa, il resto dell’album scorre via senza lasciare il dovuto senso di “oh wow!” che ci si aspetta da un nome importante e che tanto ha dato in passato al nostro genere preferito, lasciando piuttosto indifferenti anche dopo ripetuti ascolti.
Non fraintendetemi, tutti i pezzi (meno la chiavica, quello non conta) hanno brio e sono orecchiabili, belli, ben fatti. Ma qui stiamo parlando di un disco del primo cantante dei Black Sabbath gente, quello che si mise in proprio e sfornò dischi come Bark At The Moon e Diary Of A Madman, mica robetta!
Certo, spezziamo una lancia a favore di Oz che, alla sua vetusta età e con tutti i suoi recentemente annunciati problemi di salute, ha ancora voglia di stupirci sperimentando in pezzi che, francamente, credo potesse anche risparmiarsi come It’s A Ride e Take… (ok, si quello, non me lo fate nominare che magari scompare dalle tracce cancellandosi da solo).
Insomma, permettetemi di dirlo, non sarà questo l’album per il quale Ozzy sarà ricordato nei secoli.