Ah, i Pyogenesis. Quanti ricordi. A volte mi chiedo se non stia diventando uno di quei vecchi tromboni che vengono chiamati in causa ogni tanto per rievocare la musica della loro gioventù. Ma insomma i Pyogenesis… chiunque nel ’95 non avesse in casa il digipack di Twinaleblood era sicuramente una brutta persona. Poi Blue Smileys Plan, uno dei più grandi hit mancati del decennio; Eiermann e Maier che se ne vanno ad afferrare il successo, quello vero, coi Liquido, pagandolo con la condanna al girone degli One Hit Wonder. E Flo C. Schwarz? Che gli sarà passato per la testa nei tredici anni in cui il gruppo è stato fermo? Come mai poi è molto più bello e figo oggi da cinquantenne di quando venticinquenne aveva quelle occhiaie che rovinavano i videoclip?
In questa seconda incarnazione della band continua a fare letteralmente il cazzo che vuole in ogni singola canzone, dalle quali non sai mai cosa aspettarti. O meglio, una cosa ormai ce la aspettiamo: il pezzo lungo a fine disco, appuntamento fisso rinnovato qui con The Capital (A Silent Soul Screams Loud), clamorosa suite con parti quasi death, refrain melodici e pause bucoliche che si alternano seguendo l’unico ordine della dismisura emotiva. Viene da pensare che Schwarz concepisca questo ciclo di canzoni-monstre come capitoli di un diario a cuore aperto, quasi che il resto dei dischi siano un contorno. Però quasi, appunto, perché nel disco precedente tra i pezzi brevi c’era anche un sanguinante capolavoro come I Have Seen My Soul, e anche qui troviamo canzoni quali Modern Day Prometheus, di quelle rare, che spaccano la quarta parete emotiva e ti si mostrano come espressione artistica autentica, non come semplice prodotto tra tanti. È bella poi High Old Times, che per la prima volta dalla reunion recupera il caratteristico pop-punk a tinte fauve col quale i Pyogenesis si erano identificati a cavallo del millennio. Ed è bello il messaggio anti-nostalgico che lancia: i cari vecchi tempi sono quelli che stanno vivendo adesso.
Difficile che una loro canzone, anche la meno riuscita, sia prevedibile: Survival Of The Fittest e Will I Ever Feel The Same vivono sì su refrain ben scanditi, ma le strutture sono sempre aperte a sorprendenti variazioni, così come proteiforme è la ripresa death-gothic di Mother Bohemia, abbastanza sconclusionata nella forma ma suggestiva nelle sonorità. Un po’ stucchevole casomai è il coro della synth-oriented I Can’t Breathe, ma insomma, ho citato già tutti i pezzi e di ciascuno di essi ho inquadrato il disegno e la personalità dopo pochi ascolti. Vi assicuro che non mi capita spesso.
Rileggendomi fin qui mi rendo conto che forse ho un po’ esagerato come enfasi in qualche passaggio, probabilmente contagiato dal forte carico emotivo di un’opera che punta al cuore e alle viscere più che al cervello. Ma immagino sia un modo mio personale per fare ammenda del relativo disinteresse con cui in questi ultimi anni (complice un ascolto deluso e poco attento del primo disco nel 2015) avevo seguito il ritorno di uno dei miei gruppi del cuore. Ora però non vi perderò più di vista, cari Flo e nuovi compagni.