Ecco, lo sapevo. Dopo tanto insistere per avere altre recensioni da fare (che Padrecavallo dice che “la gente non le legge”, che “è meglio scrivere articoli che interessano di più e che prima o poi mi manda il peggio così imparo”) il momento è giunto. Con parole di sfida (“Prova a recensire questi, dai vediamo”, ha detto) mi ha lanciato questa patata bollente inaspettata e tanto comica che non posso certo esimermi. Vi presento il peggio che potevano mandarmi, scelto accuratamente dopo lunga selezione.
Cinque oggetti tondi che contengono suoni, perché disco sottintenderebbe un qualcosa di ascoltabile e non sarebbe il termine adatto, che non posso non stroncare. Ma io, che voglio bene al mio pubblico equino e non, ho deciso di non desistere e darci dentro. Mal che vada ci facciamo due risate, alla faccia di gente che ha avuto davvero il coraggio di rilasciare prodotti come questi.
Lo so, potrei ignorarli, ma il punto sta proprio nel non tirarsi indietro. In fondo il bello di essere un centauro a Sdangher è che posso essere testardo come un cavallo cocciuto e stronzo come un uomo, che non è poco quando devi dire a certe persone di darsi allo sport (non all’ippica, per carità che vien fuori una storia infinita, diciamo al biliardino da tavolo al buio dai, che va sempre bene).
Fremete? Non state più negli zoccoli-pneumatici-scarpe dalla curiosità? Bene.
Cominciamo questa top five dell’imbarazzo musicale con il dire che per tutti questi autori di schifezze, il giudizio è pari, non è che ci sia un “meglio” o un “peggio”, ve li descrivo e decidete da voi se vorrete scegliere un vincitore.
In dirittura di partenza abbiamo un’opera orripilante: Cow Cinema dei bielorussi Ranch Destroyer, che già dalla copertina ci dice tutto, infatti vi è rappresentata una vacca (mucca o toro, difficile capirlo nell’immagine) alla guida di una Cadillac Deville del ’60 o ’61. La vacca ha il ciuffo da Rockabilly. La Cady è aerografata a fiamme.
Ora: premesso che io voglio quella macchina, con quei colori, a costo di appiccicarmi il ciuffo finto alla Elvis sulla pelata, come è venuto in mente a questi Ranch Destroyer (è davvero il nome della band, giuro) di rappresentare la foto della “mia” auto guidata da una mucca col ciuffo e pure su sfondo (tenetevi forte) celeste acceso? È raccapricciante. Davvero. Brividi, schifo e pelle d’oca.
La musica è presto definibile: c’è un cantante che rutta lamentosamente testi scemi, su una base di rock’n’roll distorto. Cotanta opera tocca il proprio peggio nella seconda (lenta) canzone, intitolata Neon Cross, ma migliora di poco in tutto il resto del disco, che si distingue per un suono probabilmente commissionato a un maniscalco veneto ubriaco, le cui bestemmie per fortuna non si sentono, anche se forse sarebbero state meglio di questa tortura. Provate e mi direte, ma a vostro rischio. A qualcuno piacciono, visto che non è nemmeno il loro primo reato, oh scusate, volevo dire rilascio discografico.
Senza tregua né pietà passo al secondo capolavoro pescato a caso dal mucchio: Smelly Boggs degli Smelly Boggs (appunto). Registrato un po’ meglio del precedente, ma direi sempre in uno sgabuzzino visto il risultato, abbiamo questo lavoro dei glamsters nostrani Smelly Boggs, gruppo dai live divertenti (mi dicono) ma che mi ha decisamente colpito con questo LP omonimo uscito in origine nel 1999. Più che colpito centrato, tipo dardo di balestra nella schiena mentre fuggo. Ok, ci sono il chitarrista Emil Bandiera, ex Death SS e Dave Simeone, ex batterista degli Eldritch, certamente due musicisti preparati e bravi.
La mia domanda è: perché?
So che molti insorgeranno in loro difesa, dicendo che sono una delle migliori cinque band glam italiane di tutti i tempi (beh, non che ce ne siano state tante di più invero) ma a mio avviso boccerei:
I testi, dai, per favore, non perdiamo tempo a definire le liriche di canzoni come Party Gay o Lesbo Generation. Il Glam è provocazione, questo è pagliacciata (e mi dicono in loro difesa che lo hanno fatto deliberatamente, per andare oltre gli schemi di un genere che fa dell’eccesso la propria bandiera. Ok, ma a me non piace ugualmente, l’articolo lo scrivo io, quindi…). Come aspettarsi altro da un gruppo il cui nome, tradotto, suona come “mestruazioni puzzolenti”?
La copertina, scopiazzata dal peggio del mercato americano del periodo (sì sì, lo hanno fatto di proposito, lo so, ma questa non è una giustificazione).
La voce, che considero insopportabile (sì sì, ok, fatto apposta, anni novanta eccetera eccetera).
In pratica mi sono anche simpatici, ma non riesco a reggere l’intero album senza dire cose poco carine e cambiare CD. Mi spiace, ma di dischi, ep e dischetti vari, tra questo ed il vero glam dei Twisted Sister o dei Motley, ce ne passano a milioni.
Per par condicio eccomi a fare un nome più death/thrasheggiante, così non mi dicono che ce l’ho coi poveri glamsters perché sono brutto e cattivo: ce n’è per tutti!
Ecco quindi fare capolino un gruppo che ha il coraggio di firmare un disco piatto, senza picchi degni di nota e dalla potenza di un ape 50 in salita con un carico di banane da sei quintali nel cassone.
Noioso, ripetitivo, pesante e tristemente scontato, questo Grooves From The Grave… (lo abbrevierò così perché il titolo è lungo tre righe e non ne vale la pena, fidatevi) di Ape X And The Neanderthal Death Squad è una cosa di cui il mondo avrebbe davvero potuto fare a meno.
Questi simpatici brasiliani hanno deciso di imitare i grandi nomi del metallo pesante, ma non hanno capito bene e si sono persi in un miscuglio di sonorità imbarazzante, senza la coesione necessaria e con una copertina che riesce ad essere davvero brutta, ma tanto da farmi dimenticare cosa sto ascoltando (firmata Paulo Rocker, che si sappia).
Potrebbe andare peggio, nel senso che potrei averli come vicini di casa e sentire le prove tutti i giorni, fino all’inevitabile massacro.
Credete che abbia finito? Naaaaa, mi stavo solo scaldando.
Adesso arrivano i cavalli magri! Nel senso che si chiamano Skinny Horse (ma come cazzo fanno a pensare certe cose? A uno normale non vengono mica in mente) e ci propinano un disco, intitolato No Pain No Gain che sfido chiunque ad ascoltare per intero. Davvero.
Chi ce la fa può scrivere a Padrecavallo e raccontarglielo, così impara a mandarmi certi dischi! Io ci ho messo tre sessioni di buona voglia per sorbirmelo tutto. Un hard rock svedese, non solo perché i ragazzi in questione vengono dalla meravigliosa terra delle Tre Corone, ma anche per un certo tentativo di imitare i grandi del passato, vedi Europe per capirci, soprattutto nei suoni delle chitarre.
Tentativo miseramente fallito, disco da occhi girati all’indietro, buono per sonnellini onesti con le cuffie in testa.
E dico con le cuffie perché gli altri non ne hanno colpa. Ah, volete la descrizione della copertina? No. Troppo ignobile, mi rifiuto. Anche irrispettosa della chiara equinità dello scrivente e dei colleghi della Grande Stalla Cosmica chiamata Sdangher, per altro.
Ripigliamoci con quest’immagine dalla regia prima di continuare!
E ora eccoci al meglio del peggio, un disco che se ci fosse un concorso per la peggior cosa pubblicata arriverebbe secondo, perché i giurati scapperebbero inorriditi prima di votarlo.
Brasiliani a loro volta, questi Nestor Durruti arrivano, col loro Passos, a vette di tristezza mai immaginate prima.
Chitarre soffocate, tastierine da gruppo delle medie, una voce che si commenta da sola (credo che quest’uomo stoni anche mentre parla, non è umana una dote steccatoria simile) batteria col suono di una scatola di cartone percossa con un mestolo e male. Alla prima canzone mi si sono arricciati i peli della criniera che non ho più, all’ultima invocavo una fine rapida ed avevo apparizioni legate alla mitologia norrena in versione porno-horror.
Ci credo che il tizio mal disegnato sulla copertina scappa, lo faremmo tutti al suo posto! Consigliatissimo come regalo per la vostra/ il vostro ex, ma solo se vi ha lasciati male male male e non volete rischiare di rappacificarvi.
Ok, detto questo concludo e vi ricordo che se non vi è piaciuto il mio giudizio su qualcuna delle band io lo capisco, mi spiace, ma almeno non potete dire che non dico quello che penso sempre e comunque. Sono stronzo ma sincero. E comunque io dico sempre che i gusti sono gusti, liberissimi di amare chi non mi piace, a patto di non farlo ascoltare a me (solo Padrecavallo può tanto).
Rivediamo per l’ultima volta la copertina dei Ranch Destroyer prima di morire.