my dying bride

Questi momenti difficili insieme ai My Dying Bride!

Sono momenti difficili. Lo sono per tutti ma ancora di più per me. Sembra l’incipit di un lamento un po’ patetico ed egocentrico.
Mi piacerebbe fosse così. Una voglia di dramma.
Gli ultimi tre giorni sono stati un delirio e da una settimana- ormai si va per le due – il paese è paralizzato per metà. Il nuovo virus – che molti, io compreso, abbiamo ribattezzato con molta originalità “Vairus”- si è preso la sua bella fetta di popolarità. Come quasi sempre succede nel Bel paese (di stocazzo) il caos informativo e il “blabbing” compulsivo da bar dello sport hanno prodotto quello che una persona di media intelligenza può aspettarsi: disinformazione; teorie del complotto veicolate come dogmi; anziani dai sessanta in su che invece di stare in casa e limitare gli spostamenti, come dovrebbero secondo disposizioni, affollano i centri commerciali, già depredati dai paranoici quaranta-cinquantenni, ogni singolo giorno della settimana.
Per mio conto da un pezzo mi sono reso conto che il mondo, neppure quello più prossimo a me, non è possibile cambiarlo.

Cioè: un tempo credevo di essere una specie di organismo che, nonostante le ferite della vita; gli smacchi; le sconfitte ecc ecc potevo auto-rigenerarmi e ripartire più forte e determinato. Ho imparato a conoscere la malattia fisica e credevo di conoscere ormai le cose più importanti, d’aver acquisito abbastanza tempra e conoscenza per poter affrontare il cammino della vita con la schiena dritta.

Mi sbagliavo: puoi essere Kenshiro ma la vita, quella reale, ti piega la schiena inesorabilmente. Ti scudiscia, ti fa lo sgambetto, ti pungola e ti tortura con i suoi artigli e con i suoi denti affilati.
E la vita è subdola. Perché contro queste armi, se reali, un minimo di resistenza e precauzione si
può tentare. Ma le armi del destino e della vita sono ben altre!

Molto più di me ne sa qualcosa Aaron Stainthorpe singer dei My Dying Bride. Scrivo che ormai fuori è buio. Vedo solo due globi luminosi più in là. Sono i lampioni da giardino della casa vicina. Penso che uno potrebbe essere Aaron, l’altro sua figlia. In mezzo c’è un pozzo di buio che pare tenerli separati a forza.
E quel buio è tremendo perché ha l’aspetto della malattia della piccola. Cinque anni e un tumore a ipotecarle vita e futuro.

I due globi luminosi tentano una lotta disperata contro quel buio così fitto e impietoso. Aaron dice che per cinque anni il calvario tra casa e l’ospedale per l’infanzia di Leeds è stato un susseguirsi di speranze, smentite, rettifiche, cure mediche e operazioni per rimuovere.

A oggi pare che la bambina sia per lo meno stabile e non più in pericolo. Ma come lui stesso ha affermato, ogni singolo giorno che lui vivrà lo vivrà con la paura nel cuore sapendo che la sua adorata figlia potrà riammalarsi.
Ed ecco il potere tremendo e beffardo del destino e della vita che ne è sorella e complice.

Ecco i denti e gli artigli e le scudisciate; perché più della certezza della morte, di fronte alla quale ogni speranza viene meno, c’è l’incertezza di una meta-vita e il sopraggiungere probabile di una agonia che potrebbe non finire mai.

A causa dei notevoli drammi che la famiglia del cantante ha dovuto sopportare negli ultimi cinque anni, l’album precedente a The Ghost of Orion è del 2015. Un arco temporale notevole.
Ed anche i My Dying Bride stessi, in questi cinque anni, non se la sono passata benissimo ben sapendo come la spada di Damocle sospesa sul futuro della band sarebbe potuta calare di colpo.

Ma il chitarrista di lunga data Andrew Craighan non si è perso d’animo e ha continuato in solitaria la scrittura delle canzoni che compongono il lotto dell’Lp. La chiave di lettura dell’album deve essere ricercata nella melma oscura della sofferenza e della tristezza.

Intendiamoci: se i My Dying Bride sono conosciuti come la doom metal band più triste del pianeta un motivo c’è e non da ora. In effetti non c’è stato, a mio parere, chissà quale slancio evolutivo nel sound generale. Ma va bene così.

I My Dying Bride sono nati per questo: comporre nenie e lamentazioni che pochissimi (forse solo gli Opeth in certi loro brani più drammatici e acustici oppure i più vicini, stilisticamente parlando, Trees of Eternity) riescono a mettere insieme.

Ogni traccia che viene via via ascoltata, e in questo momento ce li ho che vanno all’interno degli auricolari, è una discesa verso il buio più totale. Dalla bellissima Your Broken Shore alla più…solare The Solace e via via verso la fine dell’opera il buio diventa implacabile, fitto, avvolgente e per questo, in buona misura, anche consolante.

Sembrerà banale, ma le immagini che un’opera del genere porta alla mente, almeno alla mia, non possono che essere cimiteriali. Oppure istantanee in bianco e nero raffiguranti famiglie scomparse da tempo sepolte in un cimitero di campagna sferzato dall’aria che proviene dal mare del nord.

E ancora, processioni di uomini dolenti che si lasciano cadere in ginocchio sopra una terra fangosa che iniziano a scavare a mani nude con frenesia sempre di più, sempre più a fondo.
Come se volessero trovare e portare alla luce il cuore nero di questa terra. Affogato da milioni di anni in un brodo miasmatico e fetente che ha come unico scopo il restituire la terra alla terra. Con qualsiasi mezzo.
Quel cuore di tenebra, quella massa scura pulsante e mortale ha molte facce.

Qualcuno lo chiama destino. Qualcun altro follia, paranoia schizofrenia; talvolta si presenta sotto forma di malattia o di istinti animaleschi che portano l’uomo a comportarsi come un’animale. Qualunque forma si voglia dare al male, alla fine il male è identico a se stesso e fa esattamente quello per cui è nato. Distruggere, fermare, torturare salando le piaghe che la sua complice e sorella (la vita) apre nelle carni di ogni uomo o donna.

E forse l’unico modo per sanare queste ferite è proprio quello di arrendersi ai flutti che bagnano e battono la riva del mondo. Una riva prima spezzata poi ricucita. Un bordo immaginifico tra il mondo reale e il mondo dell’aldilà , traghettati dalla nera dama senza pietà verso un altrove che, ci si augura e si immagina, più clemente.

Un altrove capace di rimettere insieme le nostre spoglie mortali per farci tornare a vivere una speranza di vita più elevata e più giusta.
Un’illusione che l’uomo, da più di diecimila anni a questa parte, si racconta.
E il male lo sa e se la ride, compiacendosi dell’inganno.