l Kvelertak sapranno essere rilevanti nel nuovo decennio come lo sono stati in quello precedente? Già, rilevanti lo sono stati, ché un tour di supporto ai Metallica non si regala al primo che passa; eppure sembra essergli mancato qualcosa per affermarsi fino in fondo. L’abbandono del frontman e gli ultimi anni di silenzio discografico hanno fatto seguito a un disco buono nei suoi rimandi classic metal, ma un po’ introverso e poco spumeggiante, come Nattesferd del 2016.
Il ritorno in consolle di Kurt Ballou riporta con sé l’originalità, l’esplosività e la voglia di stupire che avevano decretato la fortuna dell’ormai decennale esordio. Ma sul piatto restano i soliti pregi e i difetti di un progetto verso il quale personalmente ho sempre provato sentimenti ambivalenti.
Al lato positivo va ovviamente ascritto il muro di suono delle tre chitarre, come sempre sfruttate nel loro potenziale numerico come mai hanno saputo fare gli Iron Maiden in vent’anni, per dire. Magistrale in questo senso il crescendo sonico, alla Fucked Up, che apre il disco in Rogaland.
Sempre apprezzabile è poi il senso di libertà e imprevedibilità trasmesso da pezzi aperti a qualsiasi variazione. Esempio finanche parossistico di questa attitudine è Fanden Ta Dette Hull, otto minuti suddivisi in: 1) una sezione wave con riffing alla Billy Duffy e basso in primo piano smaccatamente alla Peter Hook; 2) sezione centrale di puro thrash metal; 3) parte finale che raduna i fili intorno alla loro caratteristica rivisitazione gonzo del riffing Van Halen-American metal, già sviluppata nel disco in modo più articolato con Bråtebrann.
Come direbbe la povera Sarah Lynn, that’s too much, man!
Già, perché la natura onnivora è croce e delizia di un gruppo nelle cui composizioni diventa talvolta difficile seguire il filo logico: Delirium Tremens parte con arpeggiato melodico, incontra per strada qualche pennata che pare uscire da South Of Heaven e finisce in un “mayhem convergiano” degno del loro produttore. Affascinante, ma un po’ troppo sovraccarico.
Altro annoso problema: la voce. Il cantante prima era sicuramente un buon frontman, ma vocalmente anonimo: quello nuovo è … beh, vocalmente anonimo. Intendiamoci: non è che ci si aspettano i gorgheggi in un gruppo che alla fine nasce pur sempre dal black (peraltro ormai ridotto un accenno su Necrosoft), però almeno un timbro riconoscibile che dia alle canzoni quell’impronta di memorabilità che in genere manca.
Ironia della sorte, chi ti vanno poi a invitare come guest su Crack Of Doom? Troy Sanders dei Mastodon, ovvero l’altro grande gruppo metal contemporaneo con un vistoso problema di carenza di cantanti. Il fatto è che questa debolezza – unita all’innegabile barriera linguistica – si ripercuote sulla possibilità di produrre canzoni che brillino di luce propria anche come potenziali singoli.
Il che non sarebbe neanche grave se non fosse che i Kvelertak danno a tratti l’impressione di cercarle disperatamente, queste canzoni lineari da fist pumping. Tutta la prima parte del disco è un tentativo in tale direzione, anche a costo di vertere in direzione più tradizionalmente rock’n’roll, con piano usato a fini percussivi in Discord.
Il risultato diverte abbastanza (la mia preferita è Uglas Hegemoni, per i rimandi ai Turbonegro di Ass Cobra che rimandano in ogni loro disco), ma alla fine sembra sempre mancare qualcosa in scorrevolezza e si arriva alla fine dei loro album tanto affaticati almeno quanto piacevolmente stimolati.