richard stanley

The Color Out Of Space è il miglior adattamento da Lovecraft degli ultimi vent’anni!

Fare film su Lovecraft dev’essere molto, molto difficile. Ci hanno provato tutti quelli che amano un certo tipo di horror, spesso con risultati imbarazzanti, in special modo quelli che hanno azzardato nel volerne fare una fedele trasposizione cinematografica. Avete presente robacce tipo Dagon? Ecco, quelle. Anzi, il grande paradosso è che probabilmente i più riusciti film lovecraftiani mai fatti non volevano esserlo, e che quindi non è raro scovare Providence anche dove non te lo aspetti; per me, ad esempio, La Casa Dalle Finestre Che Ridono rimane a oggi la più riuscita trasposizione cinematografica dell’Ombra Su Innsmouth, e senza mai scomodare gli Antichi. Sappiamo benissimo che i più grandi film del (sotto)genere hanno alla base un comune denominatore: partono da una dimensione privata/quotidiana, per poi giungere a manifestazioni impossibili da accettare con i limiti della ragione umana, lasciandoti solo intuire la portata cosmica dell’orrore di cui vogliono rendervi partecipi.

Il problema sta proprio nell’enorme difficoltà di rendere plausibile l’escalation emotiva e psicologica che comporta questo tipo di narrativa, senza scadere nel carnevale. Negli ultimi lustri ci sono riusciti bene veramente in pochi, e mi è capitato di scovare validi esempi più con altri medium rispetto al cinema – altrove vi ho già detto la mia su un capolavoro come Bloodborne, per dire. Il più delle volte, anche nei film più decenti, il tutto risultava troppo schizofrenico (Cabin In The Woods) o con una curva narrativa non proprio a fuoco, nonostante la strabordante grandezza visiva (Annihilation).

Ora siamo nel 2020, l’interesse per tentacoli, anni ’80 e mostruosità extra-dimensionali vive una seconda giovinezza; sono i tempi della generazione Netflix e dei fenomeni pop quali Stranger Things – che per me rimane una sconfinata accozzaglia di banalità finto-vintage – o di gente come Del Toro che, dopo la sbornia da Oscar grazie a un film per famiglie che cerca di scimmiottare le robe più melense di Spielberg, finalmente gli sarebbe tornata la voglia di riprovarci con Lovecraft e Le Montagne Della Follia.

E toh, quasi dal nulla, spunta questo Richard Stanley, che fa qualcosa che sembra più un gioco di prestigio che un film. Io me lo ricordavo per il cyber-punk di Hardware, due videoclip e poco altro, il nostro Richard, ma sinceramente mai avrei immaginato che potesse sfornare il suo pezzo da novanta a cinquant’anni suonati.

Perché non soltanto si prende il carico di uno dei racconti più difficili da rappresentare di sempre, ma lo fa con un’intelligenza e una furbizia notevoli, tirando in ballo suo malgrado il mestiere di Carpenter, pur senza rinnegare che lui, di quel tipo di cinema, ne ha usufruito in tempi non sospetti e ben prima della giostra revival che stiamo vivendo.

Il Colore Venuto Dallo Spazio appartiene a quei racconti dove l’orrore è più allusivo rispetto ad altri lavori di Lovecraft, in cui è tutto più chirurgico e dettagliato; all’inizio è un marasma di sentito dire, di pagine ingiallite strappate a vecchi quotidiani e di testimonianze ambigue, ma poi si viene lasciati liberi di perdersi negli scuri meandri dell’immaginazione, per definire e dimensionare l’orrore che scaturisce dall’evento inatteso da cui parte tutta la vicenda.

Il film gira diversamente, a cominciare da come ci si arriva, allo stesso fulcro della narrazione. Tranquilli: la fattoria e il pozzo sono ancora lì, ma il mondo viene attualizzato, abbiamo i computer, l’heavy metal e i fast food; tutto viene inzuppato in un mare di viola, rosa e blu che fa troppo retrò/synth wave, tant’è che in più di un’occasione hai l’impressione che Nick Cage sia stato strappato a forza dal set di Mandy, curiosamente un film dallo stesso budget e stessa produzione.

E il testo di Lovecraft? Si, ovviamente doveva esserci, però viene posto solo all’inizio e alla fine, visto che tutto il resto è sostanzialmente una sceneggiatura originale di Stanley, dove i personaggi vanno un po’ per i cazzi loro, imbastiti da dialoghi spesso generici, con solo gli eventi chiave della vicenda in bella mostra a giustificare il titolo del film.

Ma da un certo punto in poi, quello che inizialmente credevate trattarsi di un low budget movie di dubbia fattura si evolve e muta in un orgasmo visivo e sonoro da incubo, come se ne sono visti pochi ultimamente. Ecco che allora ti rendi conto che i protagonisti non erano null’altro che polpa in scatola da sacrificare sugli altari della follia, quindi chissenefrega per gli insignificanti stadi primordiali della loro caratterizzazione psicologica, se poi me li fai ammattire in quella maniera così estrema e brutale.

Ma mettici pure il contentino per la sfiga nerd più casual, Richard, che tanto a me non interessa; dacci dentro pure con le pretestuose magliette della Miskatonic University o le cazzo di previsioni meteo di Dunwich e Innsmouth. A me basta che continui a farmi sentire una cacchetta senza scopo sullo sconfinato parabrezza del cosmo. Fino alla fine.

C’è un punto, nel film, quando tutto comincia veramente ad andare a puttane, in cui ho alzato palpebre e peli, e non perché me la stessi facendo sotto, ma perché ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una roba che avevo cercato invano per anni e che solo classiconi come La Cosa o L’Aldilà mi avevano concesso prima: quell’impressione marcia e strisciante che qualcosa di tremendamente reale stesse per avviluppare i miei sensi, mentre mi scoprivo a sussurrare, a schermo spento e a me stesso, “che cazzo ho appena visto?”.

Quindi si, gente, questo è il miglior adattamento di un racconto di Lovecraft da una ventina d’anni a questa parte, e non stiamo parlando di brustoline, ma della prova lampante che bastano una casa nel nulla, un tappeto di synth e sei milioni di dollari per scatenare il pandemonio. E si, io ne voglio ancora. Non sia mai che il terzo film della tanto chiacchierata trilogia possa essere niente meno che il grandissimo Dexter Ward. Speriamo. E grazie, Richard.