Thulean Mysteries

Burzum – Thulean Mysteries è il disco giusto al momento giusto?

In un certo senso, Thulean Mysteries è il disco giusto al momento giusto. Mi capita di concedergli diversi ascolti proprio in questi giorni di isolazionismo globale e di continui rimbalzi di parole al limite del survivalismo che leggo dappertutto; cose che, piuttosto ironicamente, il signor Vikernes pratica con un certa perseveranza già da molti anni, ormai. E l’album suona, altrettanto ironicamente, molto simile ai suoi migliori momenti composti in carcere. Ma da uomo libero, solo con un tempismo perfetto.

Accidenti, che delusione dev’essere per uno come lui immaginare come possa avvenire la fruizione della presunta sacralità della sua opera, in giorni come questi! Immaginate. Nella convoluta fantasia di quest’uomo ci sono un boschetto avvolto nella nebbia e alcuni cerchi di pietra che costellano il terreno, con tanto di venticello misticheggiante; poi si assembrano ristrette conventicole di adepti/sacerdoti del mondo che non c’è più, autentici eroi nerd che tirano giù sbrancate di D20 sulla nuda terra, appuntando luride schede di un RPG per razzistoni indefessi. Il tutto, ovviamente, con il suo disco sullo sfondo, che è tutta un’invocazione di culti pagani, a mezzo di plin plon e pianole.

Invece, con ogni probabilità, il meglio che gli può capitare al momento sono plotoni di metallari sui trenta o quaranta, svaccati sul divano e pancia al vento, a mangiare e trangugiare sbobba da sbarco con le cuffiette cinesi attaccate al telefono. Gente che, vista la quarantena, di voglia di cercare empatia con certe sue cazzate da sopravvissuto radicale proprio non ne ha.

E quindi, mi chiederete, di questo Thulean Mysteries cosa resta?

Ma la musica, ovviamente. E di certo tutto fuorché musica metal, visto che – e c’era da aspettarselo – qui dentro non ne troverete manco un’oncia. Ma la verità, amici miei, è che quel furbacchione di Varg/Louis, ve l’ha fatta ancora, perché sfido chiunque a non averci perso del tempo dietro, a questo lavoro, anche se fino a ieri non avete mai bazzicato i sentieri del genere dungeon synth.

Il disco a modo suo funziona neanche male, al netto di qualche lungaggine di troppo; con l’inclinazione giusta (e il tempo), in testa ci si ricamano sopra dei bei film, di quelli rarefatti, con i tappeti sintetici, le pulsioni arcaiche e le reiterazioni ipnotiche: non scherzo se vi dico che, per me, più che di derivazione black metal, questa potrebbe essere roba riesumata dal ripostiglio di qualche vecchio lupo della psichedelia sessantiana.

Ok, magari uno di quelli inquietanti, che ti accompagna attraverso un lungo corridoio, con le foto alle pareti, le travi che scricchiolano e tutto il resto; uno che laggiù, nel sottoscala, con solo una candela a illuminare il contenuto nel baule, ti sussurra strani idiomi sottovoce. Rarefatti e cerimoniali. E ti si raggelano le budella in Norvegia, altro che trip acidi e sesso libero.

Poi risali e te ne vai in fretta e furia, e alla fine ti rendi conto che è sempre il solito Vikernes, in tuta mimetica e con la Panda nel giardino, che fischietta Sabrina Salerno. Tutto quello che c’è su questo disco lo avevamo già in parte sentito come sottofondo nei suoi deliri su YouTube e con la promozione di Myfarog; lui, poi, ormai ha una presenza talmente ingombrante che basta una sua scorreggia per riverberare anche senza volerlo su tutto l’universo della musica oscura, da qui alla fine dei tempi, a prescindere dal valore intrinseco di quello che ci propina.

E così la magia creata da questo ambiente insonorizzato, tanto evocativo quanto imperfetto, purtroppo si scioglie ancora una volta nelle massicce cazzate imponderabili della persona che l’ha materializzato. Quindi, a meno che tu non sia veramente uno di quei nerd bigotti che popolano le speranze di Varg, l’unica cosa che ti resta da fare è renderti conto che forse forse anche questo Burzum va assaporato come fa il tizio stronzo che mangia la bistecca in Matrix: vivi l’illusione e fanculo il resto.