Inverno caldo, tutti fuori in maniche corte; e primavera fredda, chiusi in casa per la quarantena. Ah, sono tempi davvero strani, questi. Ho pure ripreso a cucinare come si deve. Mi sto rendendo conto che l’isolamento non è una cosa che capisci subito, ma uno strumento di logoramento il cui flusso è simile a un contatore della luce; una melma lenta, totalmente anti-climatica. L’unica cosa che mi resta, per venirne fuori, è ancora una volta la musica. E oggi, da chef rinato e obbligato a fare la spesa dove vendono solo due marche di birra, vi voglio parlare di due-tre di dischi che hanno molto più in comune di quello che sembra a un primo sguardo, oltre che essere terribilmente attuali. Potremmo chiamarla estetica della desolazione, o come diavolo vi pare, ma è una cosa non poco attinente con l’odierna condizione umana, primavera 2020.
Grift: messe grigie e artigianato ermetico.
Erik Gardefors è uno che quando realizza dischi black metal se la gioca con grande stile e poesia. Nei suoi pezzi non ci sono mai malvagità o invocazioni belluine, ma solo un grande senso di solitudine e ritorno alla propria terra. Il suo oggetto di interesse è l’eredità di quelli che non ci sono più, scolpita sedimento dopo sedimento, in un paesaggio che a un certo punto si cristallizza per sempre e diventa immobile e immortale. In pratica, la colonna sonora perfetta per certi scorci nebbiosi in riva al grande fiume, dove vivo io. Qui i campi di soia e grano turco sembrano sconfinati, la mattina presto. Ci puoi camminare in mezzo nel più totale silenzio, con il piattume dell’orizzonte spezzato solo da vecchi granai rotti e smangiati dalle pantegane; così sperimenti quella giocosa illusione di trovarti su una pianura senza confini da qui all’eternità, una cosa che solo gli impenetrabili muri di nebbia a duecento metri dal fiume sanno rappresentare. E per qualche strano motivo, ho il sospetto che i dischi di Grift parlino proprio di questo, anche se lo fanno a migliaia di chilometri da qui e senza le conifere della Svezia più segreta e imperscrutabile. Questo Budet, gente, è bello quanto i due lavori che l’hanno preceduto e senza spostare minimamente le coordinate: grande atmosfera folk, black metal centellinato con misura, riverberi vari, rumorismo rurale: c’è pure il psalmodikon, ovvero quella specie di violino a corda singola utilizzato per semplificare la musica sacra. In pratica, rispetto a prima, c’è solo un più consapevole lavoro di cesello, ma sostanzialmente: “squadra che vince non si cambia”, come diceva Boskov. Sono certo che se in questi giorni avrete l’opportunità di isolarvi ancora più dal mondo e da voi stessi, laggiù dove l’acqua si fa più fredda e torbida, oltre il virus del nostro tempo, le autocertificazioni per ricordarci che esistiamo e che ci sono gli sciacalli di cattivo gusto, questo è tassativamente il momento migliore per usufruire di una simile medicina. Roba buona, da ascoltare da soli, di una purezza superiore. Ma se questo disco è sostanzialmente la scenografia di un mondo vuoto, è quello di King Dude che potrebbe rappresentarne virtualmente gli attori in scena, seppur in un contesto che vola oltre oceano: pochi, musoni e certamente dannati.
Full Virgo Moon.
Questo è il manifesto del ritorno alle pulsioni più primitive di Thomas Jefferson Cowgill, che dopo aver fatto il depressone post punk con i due dischi precedenti, recupera quel suo dark folk scarno ed essenziale con cui lo avevamo conosciuto, capace di raccontarci le storie di una generazione dimenticata, sfondata dal cataclisma. Più Johnny Cash e meno Nick Cave, insomma, ma con più zolfo nell’aria. Le sue sono piccole e meste istantanee di disgraziati che hanno perduto l’amore, la speranza e la gioia, satanisti e peccatori, avvocati ed esecutori di sentenze sempre inique. E soprattutto per chiese senza dio. Il suo è un turbine di pessimismo dove non c’è manco il tunnel per sperare in una luce sul fondo. Anche qui riecheggiano arcaiche pulsioni di una terra piatta ed incontaminata, in cui di giorno ci sono smunti equini alla ricerca di un pascolo rinsecchito e di notte, verosimilmente, iene o sciacalli miserabili, da uccidere senza clamore. Una roba che si sposa alla perfezione con la nostra solitudine e la lontananza, in cui vaghiamo come fuorilegge, solo che al posto delle bandane per l’assalto alla diligenza, ci mettiamo le mascherine da chirurgo. Sapete, in questi giorni mi si stampano in testa sempre le immagini di ambienti edificati dall’uomo e per l’uomo, ormai vuoti e abbandonati. Ci metto dentro la gente di cui parla King Dude, e ne viene fuori un quadretto macabro, in cui questa volta il mio delta si trova al tramonto primaverile e trasmuta magicamente nella frontiera di un’America arcaica e mistica. Cosa c’entra tutto questo con il metal? Moltissimo, in realtà, visto che dall’estetica di un disco come questo, ci sono un sacco di band dedite a sonorità oscure che dovrebbero o potrebbero attingere, piantandola finalmente di fare i satanisti della domenica pomeriggio e prendendo la patente per l’età adulta. Guarda caso, King Dude è uno che potresti trovare come special guest in un disco black (avete presente gli Urfaust, no?), e con la sua musica rudimentale non correre nessun rischio di sembrare fuori luogo.
Split.
A me, d’altra parte, i dischi che provano a contrapporre mondi sonori affini negli intenti ma lontani nel modus operandi hanno sempre affascinato. Li ho sempre visti come una specie di fucine per calibrare nuove sintesi espressive, anche se spesso il risultato non soddisfaceva del tutto le aspettative. Recentemente, scavando nell’underground come non mi capitava da tempo, ho trovato uno di questi strani ibridi in uno split, quello di Nathrunar e Hesychia. Prendete le chiese senza dio di cui vi parlavo prima, sconsacratele definitivamente e ascoltate che cosa hanno da dirvi le fredde navate in marmo e l’altare ricolmo di armamentari liturgici, quando non c’è più nessuno a reclamare la salvezza di un prete. Da una parte c’è una sezione di black metal molto canonico e molto raw, ma dannatamente efficace da quanto è ben composta: la solita ricetta di riffing essenziale e melodia, che ancora una volta ha dell’irresistibile. Dall’altra parte è una roba più sconclusionata, molto più lo-fi, che parte da un certo tipo di dark ambient ma che si concede alla pece di chitarre rumorose e saturazioni fin dentro al mix, per poi rinchiudersi in clangori, cigolii e sussurri intimisti. E il disco funziona, non so dirvi bene il motivo. È come se avessimo questa grossa architettura disegnata dalla prima parte, composita, classica e strutturata, e poi andassimo ad osservare come ci sbattono le luci che entrano dalle lunghe vetrate nelle diverse ore del giorno, a suon di echi ambient e industriali. Da un punto di vista strettamente musicale, qualche dubbio resta, ma l’idea che suscita è qualcosa di cui gli chef del metallo nero dovrebbero prendere nota. A presto, intenditori.