In questo periodo sono come un vaso troppo pieno. Troppe notizie, troppa musica, troppi input in generale da una parte o dall’altra. Che poi la sensazione è più complessa facendomi sentire saturo di tutto ma allo stesso tempo incompleto e desideroso di scoprire altro. Con la lettura; con la mia scrittura acerba e zoppicante di concetti e intenzioni e certo, perché no, anche con l’ascolto. Come forse mi è già capitato di scrivere nella stalla equina di Sdangher, sono probabilmente il ronzino dei ronzini; non sono molto frizzante neppure quando si tratta di interagire nel gruppo segreto degli Sdangheri.
Tendo a rifuggire i dialoghi iper-corali che alternano argomenti più disparati alla velocità della luce. Insomma: non ci capisco un cazzo quando tutto si fa troppo veloce e frenetico. Sono sempre stato così nonostante la mia passione per Malmsteen e la sua musica iper veloce che adesso c’è e dopo un battito di ciglia PUF!!! Svanita!
E allora il sempre paziente, ancorché tollerante (credo), Padre Cavallo che conosce i mie tanti limiti in fatto di conoscenze musicali che fa? Mi consiglia Myrkur (alias Amalie Bruun) e l’album Folkesange.
La dotatissima cantante si era già prodotta e misurata in passato con atmosfere più cupe e metalliche dimostrando il suo eclettismo. Per fortuna mia, l’album è un concentrato di musica scandinava suonata con strumenti tipici delle lande vichinghe. E che musica!
Musica per l’anima come la chiamo io. Musica per chi cerca una connessione con il mondo interiore e le radici stesse del suo essere. Album dal retrogusto pagano ma pieno di luce. Le sonorità cristalline portano la mente a immaginare fiordi incontaminati o verdeggianti scogliere a picco sul mare.
Sottotraccia è presente un richiamo ancestrale che riporta indietro ai tempi in cui l’umanità era giovane (forse più “pura”?) o che, più semplicemente, ci riporta alla nostra infanzia. Non è un tipico album che basa le sue fondamenta su stati d’animo cupi o legato alle nere leggende di scandinavia. O almeno: a me lascia una sensazione di ricerca di serenità tipiche di una infanzia vissuta a stretto contatto con una natura incontaminata.
Forse Amalie Bruun pensava proprio a estati passate. Notevole il recupero, quasi identico alla versione che diede Joan Baez, di The House Carpenter, ballata dal sapore irish che già altri artisti, oltre la Baez, omaggiarono (Pentangle; Dylan;Nickel Creek).
Personalmente sono molto legato a questa antica canzone in quanto pure il nostro menestrello Angelo Branduardi si cimentò nella sua interpretazione del tema della fanciulla sulla spiaggia che viene sedotta da una ignota figura maschile che arriva con una barca (o nave) dal mare.
Branduardi, ne adatta il testo alla lingua italiana e ne ricava una struggente e famosa ballata: La sposa rubata. Il tema della seduzione, della fuga con il nuovo amante, dei successivi rimorsi che attanagliano l’animo di lei e della fine tragica (naufragio) è presente quindi anche nella versione che ne dà Amalie Bruun. Ma la sua voce è talmente piena di luce che oso dire che il significato vero della ballad passa quasi in secondo piano.
La conclusiva Vinter, con quel suo vocalizzo aulico e natalizio, con quel piano soffice e ameno mi ha ricordato da vicinissimo la colonna sonora di Edward mani di forbice. Un’altro romantico retaggio dell’infanzia che riemerge lasciando aleggiare fantasmi di nostalgia.
Insomma: Folkesange è un album di una finezza e di un equilibrio che cade a fagiuolo in un periodo che, per me, richiede semplicità e ritorno alle origini. Lo consiglio anche per gli amanti di Wardruna, Heilung e, perché no, Branduardi. Fatelo vostro!