Mai giudicare un disco dalla copertina! – Quali sono gli Artwork più sbagliati della storia dell’heavy metal?

Oggi ho imparato a non fidarmi delle copertine dei dischi, a dare loro una possibilità a prescindere dall’impatto dell’artwork, senza lasciarmi troppo influenzare da quello che di fatto è il primo elemento che un disco ci pone davanti, un po’ come fosse un biglietto da visita. Ma non è così semplice, e non nego che da ragazzino, nel mio primo vero approccio con l’heavy metal, la copertina di un disco giocò un ruolo importante. Ricordo che per un breve periodo un metallaro venne a vivere al piano terra nello stesso palazzo in cui abitavo io. Indossava quotidianamente magliette degli Iron Maiden, ma soprattutto li ascoltava in casa, a volumi che facevano storcere il naso a tutto il vicinato. Non a me, attratto in particolar modo dal crescendo minaccioso di Killers, che di lì a poco avrei associato alla t-shirt ritraente l’artwork dell’album omonimo. Dopo pochi mesi il mio vicino lasciò l’appartamento insieme alla madre – non l’avrei più rivisto – lasciandomi dentro un desiderio incontrollabile di avere un supporto per ascoltare l’album con quella copertina che tanto mi attraeva, tanto oscura quanto morbosamente affascinante.

A questo punto non vi sarà difficile capire che Killers fu il primo album heavy metal che ho acquistato, e che in un certo senso avevo associato la musica all’immagine di copertina, trovando in ciò un equilibrio perfetto. Ma non è sempre stato così!

La copertina ha un ruolo molto importante nella presentazione di un disco, e molto spesso toppare la scelta di un’immagine ha compromesso l’opportunità di attrarre eventuali ascoltatori. Ricordo che nel medesimo periodo in cui mi bombardavo con Killers, andavo alla ricerca avventurosa di ascolti stilisticamente affini.

A parte i Maiden, che nel frattempo erano diventati ormai una garanzia, compravo senza grandi cognizioni, un po’ perchè ancora non acquistavo riviste dedicate all’heavy metal, un po’ perchè non conoscevo di fatto coetanei con la mia stessa passione, inoltre internet doveva ancora diffondersi nelle case di tutti.

Così provavo tutto quello che mi capitava a tiro, dando molta, troppa importanza alle copertine. Quanta robaccia mi sono ritrovato in casa! A copertine bellissime di fatto non sempre corrispondeva della musica di valore, ma spesso era anche stilisticamente distante rispetto a quanto suggeritomi dalle immagini sulla confezione, e questo cosa mi mandava in bestia!

Poi sono finalmente arrivati gli amici metallari e i loro preziosi suggerimenti, le prime guide cartacee, infine la rete, e finalmente, oggi, ho fatto mio il proverbio “non si giudica un libro dalla copertina”. Del resto, chi l’avrebbe mai detto, al tempo, che Fire Down Under dei Riot sarebbe divenuto uno dei dischi che più amo in assoluto? Con una copertina che francamente sembrava realizzata apposta per tenermi a debita distanza!

E potrei citare anche Delirious Nomad degli amati Armored Saint, il cui approccio da parte mia fu temutissimo, sebbene fossi già in possesso del leggendario March Of The Saint, e potrei citarne mille altri.

Ma vorrei parlarvi dei casi curiosi, secondo la mia esperienza, in un breve viaggio nel sottobosco dell’heavy metal, tra dischi di culto le cui copertine solleticano da anni la mia fantasia e altri che, a causa di una scelta scellerata dell’artwork, ho più o meno colpevolmente sottovalutato.

Battle Bratt – Battle Bratt (1988 – U.S. Metal Records)
Se già il nome stesso della band lascia intendere di trovarsi dinanzi a un gruppo glam, la copertina completa l’opera, esaltando proprio un aspetto che a dire il vero non corrisponde minimamente ai contenuti artistici proposti dal loro album omonimo, che alterna U.S. metal cromato, sulla scia dei Malice, a momenti più alteri e progressivi, fino a sfociare in robusti episodi aderenti al class metal muscolare. Registrato sotto la supervisione di David DeFeis, Battle Bratt è un gioiellino che ancora oggi molti ignorano a causa dell’artwork. Nella consigliatissima raccolta antologica scoprirete un’anima ancora più dura e dalle velleità epiche!

Hyksos – Hyksos (1982 – Autoprodotto)
Guardando la copertina, potreste giustamente pensare di aver messo le mani su un disco dai contenuti epici. Nulla di più sbagliato! La band californiana propone infatti uno stile decisamente più “in your face”, prendendo diversi spunti dai Black Sabbath e soprattutto dai Judas Priest, con un’evoluzione strumentale apprezzabile, ma malamente danneggiata da un cantante che pare voglia principalmente emulare Rob Halford, ma con risultati assai discutibili. Il vinile è oggi molto raro e ha raggiunto quotazioni elevate, però esiste una ristampa in CD che, tra le sue tracce bonus, contiene una orribile quanto spassosa cover dell’epocale Victim of Changes di priestiana memoria.

Dammaj – Mutiny (1986 – Roadrunner Records)
L’orribile copertina di questo disco non nasconde certo l’aderenza a sonorità metalliche, ma è talmente brutta da rischiare di tenere a debita distanza potenziali ascoltatori. In realtà è gran bel disco di arcigno epic metal dal riffing melodico di stampo europeo ma dall’impatto robusto tipicamente americano, con richiami a Omen e Jag Panzer. Un gioiellino che resterà per anni l’unico parto della band, prima della reunion del 2010 che ha portato in dote un paio di singoli. Dopo un primo scioglimento pare che il chitarrista Rich Gilbert abbia tentato invano la scalata verso la gloria eterna, candidandosi tra i possibili successori di Adrian Smith nei Maiden.

Nuthin’Pritty – Nuthin’Pritty (1986 – Immense)
Il nome stesso della band e la copertina dell’unica testimonianza in vinile partorita da questo act canadese, sono così inopportunamente glam, che probabilmente hanno segato i piedi al gruppo alla nascita. Infatti, a dispetto di tutto ciò, il loro mini-lp omonimo propone un arcigno power metal dai risvolti epici, che riprende la lezione dell’heavy metal britannico riadattandola agli schemi dello stile più oltranzista dei coevi gruppi americani. Nell’album potete trovarvi riff molto efficaci e ritmiche massicce all’insegna di breve ma intensa tempesta metallica.

Heavy Metal Army – Heavy Metal Army 1 (1981 – Nexus)
Il moniker e la copertina del loro unico vinile, il fatto che dell’album sia circolato per anni tramite un cd-bootleg greco, lo hanno reso un disco di culto tra gli appassionati in denim and leather, tuttavia questo gruppo giapponese propone più che heavy metal più un hard rock a metà strada tra Rainbow e Thin Lizzy. Subito dopo cambieranno nome negli altrettanto seminali Eastern Orbit e tutti i componenti faranno parte di svariati progetti heavy metal e non del panorama musicale giapponese.

Elessar – Defy the King (1984 – Autoprodotto)
Questo raro mini-lp ha una copertina in bianco e nero così affascinante da lasciar intendere velleità epiche, tuttavia gli Elessar, dopo averci deliziato con un’opener scolpita nell’acciao, rendono giustizia all’artwork solo con Breakdown, brano che riesce piuttosto bene a evocare lo spettro dei Manilla Road. Il resto è un piacevole hard rock melodico, qua e là accarezzato dalle tastiere. Il vinile, autoprodotto, sarà licenziato nello stesso anno dalla gloriosa Iron Works.

Insane – Strip Tease (1987 – Autoprodotto)
L’unico lavoro di questo gruppo canadese è stato spesso spacciato per un disco dalle sonorità sleaze/glam. Sarà per il look dei musicisti in copertina, sarà per il titolo stesso dell’album, fatto sta che gli Insane proponevano un robusto heavy metal, diretto e senza fronzoli, con diversi spunti mutuati dalla NWOBHM. Brani d’impatto, alla prima maniera, con vocals acute e una ballad, Heart on Fire, dai tratteggi oscuri.

Wrathchild – Stakk Attakk (1984 – Heavy Metal Records)
Il primo album dei britannici Wrathchild ci presenta in copertina una band dal look esageratamente glam, tuttavia in questo primo parto discografico la band di Evesham confeziona una sequenza di brani dal piglio assassino, che colpiscono l’ascoltatore in pieno petto. Il chitarrista Eddie Star, in modo particolare, ha uno stile tagliente e squisitamente heavy metal, così il glam traspare in una forma ancora rudimentale, destinato ad emergere con maggiore compiutezza nei successivi lavori.

AIIZ – The Witch of Berkeley (1980 – Polydor)
Provenienti da Manchester, gli AIIZ – nome ispirato da uno stradario! – si presentarono sul mercato, nel 1980, con un disco registrato durante un’esibizione live. La copertina e il titolo lascerebbero intendere contenuti esoterici ma in realtà il loro stile è più vicino agli AC/DC e ai Motorhead che ai Black Sabbath, con una sequenza di brani divertenti, sgraziati e ruvidi, ma sempre efficaci. La band finirà per accompagnare proprio i Black Sabbath in tour, mentre nella sua ultima incarnaziona alla batteria ci sarà il futuro AC/DC Simon Wright.

Handsome Beasts – Bestiality (1981 – Heavy Metal Records)
Originari di Birmingham, gli Handsome Beast, arroccati intorno alla figura del cantante Garry Dalloway – raffigurato in copertina! – esordiscono con un disco il cui artwork, all’epoca, riuscì nell’impresa di essere estremo tanto quanto quelli più violenti, oscuri e satanici proposti dai dischi di Iron Maiden, Venom e Witchfynde. Una copertina che è anche un sonoro ceffone mollato sul viso dei benpensanti e che cela un frizzante album di hard’n’heavy sporcato di blues, con rimandi a certi Motorhead meno tirati e agli AC/DC. La band si è riformata nel 2000, fino alla scomparsa di Dalloway, avvenuta per infarto nel 2006.

Battleaxe -Burn this Town (1983 – Music For Nations)
Il moniker epico e battagliero campeggia su una copertina a dir poco insulsa, il cui protagonista in sella a una moto sembra essere ispirato all’attore, comico e cantante nostrano Francesco Salvi. Ecco l’esordio dei Battleaxe che cela in realtà un heavy rock cazzuto e proletario, frizzante e genuino, che sembra esser stato creato appositamente per far felici frotte di motociclisti ubriachi a un raduno. Il cantante Dave King è stato spesso erroneamente scambiato per l’omonimo singer dei Fastway e futuro Flogging Molly.

Letchen Grey – Party Politics (1986 – Greenworld Records)
L’unica testimonianza in vinile di questo gruppo californiano ha un artwork che lascerebbe intendere sonorità affini ai Motley Crue. Invece ci troviamo dinanzi a un brillante esempio di heavy metal melodico, sulla scia di altri acts americani quali Diamond e Agentz. Costantemente in bilico tra Dokken e Great White, i Letchen Grey evidenziano un songwriting di qualità e capacità esecutive di spessore, che tuttavia non troveranno nessuno sbocco. La band si è riformata di tanto in tanto ma senza proporre nuovo materiale.

Predator – Easy Prey (1986 – Enigma)
Un disco del genere, se non lo conosci, rischi di non comprarlo a causa di una copertina francamente imbarazzante. Eppure stiamo parlando di un eccellente esempio di speed metal americano, a tratti accostabile alla proposta dei grandi Savage Grace. Uscito troppo tardi per avere un maggiore riscontro presso gli appassionati del metal classico, nel pieno dell’esplosione del thrash, Easy Prey non è solo un disco “veloce”, ma anche dinamico e con eccellenti spunti strumentali e interamente marchiato a fuoco dalle vocals aspre e feroci del leader: il chitarrista Jeff Prentice.

Scarlet – Scarlet (1983 – Bazer Records)
L’esordio omonimo di questo gruppo dell’Ohio è l’ennesimo disco spacciato per glam a causa della copertina, che in realtà non ha stilisticamente nulla da spartire con Motley Crue e simili. Gli Scarlet, infatti, si muovono su coordinate heavy metal, con un forte piglio melodico che ha il pregio di non sminuire mai l’impatto complessivo dei brani. Nell’anthem She Tastes Like Metal sembra di ascoltare una versione made in U.S.A. dei britannici Witchfynde! La band ci riproverà con l’altrettanto valido Phantasm nel 1985 prima di sparire per anni, fino a dare nuovamente traccia della propria esistenza nel 2005 pubblicando un nuovo album di inediti.

Stormtrooper – Armies Of The Night (1985 – Iron Works)
Dietro ad una copertina che lascia presagire contenuti epic metal, l’unica testimonianza degli Stormtrooper è in realtà una successione di autentiche cannonate aderenti all’heavy metal americano più ruvido, essenziale e oscuro, a tratti simile alla proposta dei texani Ripper. Il cantato di Damien Black è tanto ferale e grezzo quanto efficace e in grado di trascinare chiunque si trovi nei paraggi all’headbanging più sfrenato. La band di Los Angeles, California, risulta ancora oggi attiva, ma Armies Of The Night è fin qui l’unica testimonianza ufficiale partorita.

Desire – Cry At The Sky (1983 – Rockpower)
La splendida copertina dell’unico raro full-lenght pubblicato da questa formazione del Kentucky, non può non far immaginare contenuti epici, ma la proposta dei Desire, al contrario, manifesta un piglio heavy metal alla prima maniera, più vicino stilisticamente ai primi The Rods, mantenendo quindi un atavico feeling hard rock, con la consueta scarica di assoli torrentizi. Il disco è molto bello e non manca qualche episodio più elaborato, ma mai veramente in grado di svoltare verso quei territori epici che l’artwork suggerirebbe.