Quarantena senza fine.
Passano gli anni e le cose cambiano, senza accorgersene. Maturano, e poi magari non puoi nemmeno immaginare come invecchieranno, ma nel frattempo si manifestano per ciò che sono. Succede anche con quello che meno te lo aspetti, tipo la musica dei Serpent Column, che mi ha colto non poco alla sprovvista. Li ho lasciati perdere per tre anni, dai tempi di Ornuthi Talassa e oggi me li ritrovo con questo Endless Detainment, a suonare come potrebbe farlo un’architettura post-moderna sommersa da bidoni e bidoni di pece. Tritare santini e spargerli come coriandoli, dormire su fienili di fil di ferro con baccanali di robot satanici intorno, fare cut-up caserecci di incubi più o meno verosimili, alieni e disumani, il tutto nel minor tempo a disposizione: questo, in soldoni, è quello che si prefiggono questi signori qua nel momento in cui decidono che è ora di scrivere qualcosa. E ne viene fuori uno strano ibrido che parte sì da una chiara matrice black metal, ma che poi si interseca anche con traiettorie che non potresti mai immaginare, come se i Dillinger Escape Plan più impattanti avessero messo in piedi un teatrino osceno di candele e zolfo per cercare di somigliare vagamente al canone ormai ben codificato dei Deathspell Omega.
Ebbene, tecnicamente è chiaro che si tratta di un fallimento, perché i francesi restano ancora imbattibili in questo sport, ma sorprendentemente è anche un’opera di una bellezza spiazzante, forse del tutto inconsapevole. Personale, anche. Non ha senso mettere i puntini su un disco al frullatore come questo, perché l’unica cosa giusta da fare è quella di prenderlo come un unico corpo vago e cercare di trovarne un senso al meglio delle nostre possibilità. Di sicuro, personalmente credo che il minutaggio ristretto sia ulteriore valore aggiunto per farsi volere bene anche da chi di certi accrocchi post-qualcosa o avant-garde qualcosa d’altro, proprio non ne vuol sapere. E per fortuna che comunque, sepolta sotto colate di complessità, la fiamma nera brucia senza pietà, ancora e ancora.
Parchi a tema per le megere di sangue.
Potrei dire lo stesso anche per i Jordablod, ancora una strana mattanza di buio e altra roba, una creatura che però all’aritmentica preferisce la meccanica dei fluidi (e la droga) per speziare l’ordine prestabilito dei riff più classicamente black. E qui infatti siamo sui territori del cinema settantiano, a seguito di un overdose da Svezia metallica anni novanta. Una specie di Santa Sangre, più malvagio ma altrettanto simbolico/rituale, ambientato su vallate sterminate di erba fredda e rune pittate con le dita su monoliti antichissimi.
Dopo il temporale – lo sanno tutti – l’umidità cresce e il campo è pieno di gente nuda con i corpi nel fango che fa rituali lunari, braccia al cielo, a base di rasoi, pipe e teste impalate. Tutto l’orrore, quello vero, in questo frangente è inversamente proporzionale all’esame di realtà: più scuro il suono, meno i piedi sembrano sprofondare nella melma, e di certo non per la lucidità degli uomini più retti ed intelligenti. Anche se poi, le cose veramente stupefacenti di The Cabinet Of Numinous Song sono la dinamica e la misura, due qualità che ti sogni, se fai solo parte di un branco di fattoni senza speranza. E infatti siamo grati che i Jordablod non lo siano. Il loro è metal avvelenato dalla psichedelia, in cui il suono dei vicini di casa Watain prende a prestito Peter Green e Morricone. O una specie di Dick Dale con le smitragliate in blast beat, fate come volete.
Le avventure del cavallo del palo elettrico.
A voler essere pignoli, però, il disco che in questi giorni riesce seriamente a incrinare il paradigma di quello che potremmo ricondurre al nostro genere preferito è probabilmente il nuovo di DomJord. Esce sotto NoEvaDia e senza dirlo a nessuno, ma al posto del solito progetto di ortodossia black e avanguardia con cui veniamo coccolati a ciclo continuo dalla label francese, questa volta abbiamo per le mani una specie di soundtrack per il vuoto siderale. Avete presente gli sviluppi intimisti ed elettronici degli Ulver o certi prodotti interlocutori usciti per Cryo Chamber nell’ultima quindicina d’anni?
Ecco, proviamo a partire proprio da qui, e vediamo se potete anche solo immaginare il resto. È un disco fottutamente attuale, questo qui, che sembra fatto apposta per la modernità che si svuota, sulla tangenziale deserta di qualche agglomerato urbano, incapace nel prendere sonno da molti giorni, ormai. Ma anche per ribadire un certo tipo di furore messianico, dove per una volta il paganesimo è vera spinta spirituale, ma anche una specie di scenario weird, con John Carpenter in veste di sacerdote a una messa per gusci morti, a suon di dark ambient ed echi retro-wave.
Secondo me Sporer è la più compiuta definizione di post-cyberpunk: negli anni ottanta/novanta gente come William Gibson e Masamune Shirow ci avevano illuso che il futuro sarebbe stato terribile e informatizzato, quand’anche stilisticamente bellissimo e sorprendente. Ora, invece, DomJord ci riporta alla tristezza di un mondo sì iper-connesso, ma ormai svuotato di qualunque senso di aspettativa per i tempi a venire. Lo fa ritmato da un mesto e anomalo senso di marzialità funebre. Come si dice, a buon intenditor…
Schutzstaffel agenda?
Uno che invece è rimasto ancorato come una moccola al naso del passato, e che quindi di prendere a picconate la miniera di quello che verrà se ne frega altamente, è sicuramente il signor Lauri Pentillä, che con il nuovo disco di The True Werwolf non fa altro che deliziarci con un nuovo lavoro dei Satanic Warmaster sotto falso nome. Ed è un disco che mi ha fatto (ancora) molto pensare a come sia possibile godere di un musica con così ferme implicazioni ideologiche pur non condividendo assolutamente nulla del messaggio che voleva essere veicolato; ormai ho il sospetto che siano proprio quelli come me a stare di più sul cazzo a gente come Mr. Pentillä, ma tant’è. Devil Crisis, comunque, è veramente tosto. Da una parte gratta i marmi più pregiati di austeri monumenti ai cristi e madonne di qualunque istituzione religiosa e allestisce camere a gas militarizzate per i dissidenti (da buon masochista, mi domando se ci sia posto anche per il sottoscritto), dall’altra ci racconta di un satanismo epico, spirituale e trionfale, in cui il male, liberato da sofismi o compromessi, si fa melodia, struttura e pathos.
In pratica, quella stessa roba che da decenni è semplice permutazione di pochissimi asset compositivi, ma che si riconfermano ancora come gli unici, veri invincibili e per giunta senza venire intellettualizzati dai vari Bataille o LaVey. Ad un certo punto, insomma, se il risultato è questo, della paccottiglia vagamente romantica e prevedibilmente ultra-qualcosa nei testi dovrebbe fregarvene veramente poco, visto che non è tutto nazi ciò che è nero: c’è spazio persino per il buon vecchio Castlevania, ed è tutto dire. E poi, diciamocelo, in Finlandia hanno dimostrato più e più volte di sapere benissimo come si suona un certo tipo di black metal. Peli dritti, cazzodurismo e vedute strette: che ve lo dico a fare.
Nel regno dei cieli, tra i ruderi.
Tutto il contrario rispetto a quanto proposto dai Blaze Of Perdition, che suonano forse un poco derivativi (i nomi li sapete), ma che per lo meno riescono a mostrare rare doti di sintesi, pur complicandosi la vita in mondi sonori confinanti – e non a caso in questo The Harrowing Of Hearts c’è spazio anche per Moonchild dei Fields Of The Nephilim. Loro sono un po’ come l’amico bravo che, per uno strano scherzo del destino, non è mai riuscito a emergere. Hanno sempre prodotto dischi di qualità indiscutibile (recuperatevi Near Death Revelations), talvolta sfoderando intuizioni da campioni, ma per qualche motivo non se li sono mai filati in molti, o almeno non quanto recentemente ha fatto il resto della Polonia metallica.
Questa volta si giocano pure la carta del linguaggio più accessibile, che qualcuno potrebbe tacciare per saldi di fine stagione; in realtà per i più accorti potrebbe essere una chiara dichiarazione di intenti: andare dritti al sodo, senza sacrificare il proprio nome, levandosi di dosso le palle al piede dei tutti quelli che spesso vengono fuori quando si parla di loro. Quel che è sicuro è che ci mettono una cura spropositata per i dettagli negli strati, nei suoni e nelle parole, come piccoli artigiani che affrescano a fugaci pennellate una cappella votiva per il demonio ormai in rovina, rivelando rappresentazioni epiche e religiose di una potenza espressiva senza pari. Un senso e una visione d’insieme veramente efficace, insomma. E spero vivamente che sia la volta buona, per loro, a patto che in giro non vi siano i soliti guerriglieri del metallo più trve a storcere il naso e a buttarli sotto terra: le tipiche gang di galletti in tempi di vacche smunte, che si scordano troppo in fretta che là fuori sta per arrivare Kenshiro a fargli esplodere la testa.