Nel 1968 fu la prima volta che un manufatto d’avanguardia venne distribuito capillarmente a milioni di individui nel mondo. Aveva la forma di una spirale incisa nel vinile; una micro punta elettrificata avrebbe impiegato otto minuti per percorrerla tutta, se avesse compiuto attorno al punto di rotazione trentatré giri in un minuto. Da essa venivano emesse risonanze ma, ancora di più, significati simbolici che andavano ben oltre la volontà del suo stesso autore e dei vari John Cage e Karlheinz Stockhausen a cui l’autore stesso si era ispirato.
Il manufatto in questione è Revolution#9, incisa sul lato B del secondo disco del White Album dei theBeatles. In quello stesso disco compariva quella Helter Skelter che aveva vomitato mostri impensabili nella mente corrotta dagli acidi dei giovani della Family di Charles Manson.
Un caveat per il futuro: quando invii un messaggio caotico alle masse non puoi prevedere cosa ne verrà fuori. E forse quel Lennon, nel bel mezzo del suo periodo maoista, che ben presto avrebbe peraltro rinnegato, dovette ignorarlo. Mandare in pezzi la gerarchia, sovvertire lo stesso ordine naturale delle percezioni sensoriali, secondo i dettami di Fluxus, Decostruzionisti, Minimalisti e quant’altro, aveva potenzialmente un effetto dirompente.
Almeno per una volta per ciascuna copia, ma milioni di volte in totale, quel pezzo girò ed esplose col suo caos, il suo attacco alla cittadella dell’intelletto. Permutare suoni come un cabalista, incollare metri di nastro magnetico, passarli in loop, ancora alla rovescia, in un processo puramente istintivo, non poteva non avere conseguenze. Se non le ebbe sulle proteste dei disordini di Chicago del 68, se era più vicino al pensiero di Debord che a quello di Lenin, se fosse o meno sarcasmo o invettiva, poco importava: il sustrato di tutto era l’acido lisergico.
I riverberi di quell’onda lunga si ripercossero ovunque: li troviamo nel Collettivo Organisation del Conservatorio di Düsseldorf, in giovani divisi a metà tra lo studio dei rumori, sulla scia di Luigi Russolo, e il proto punk di Iggy & the Stooges.
Tra questi vi era Florian Schneider, mancato oggi, 6 maggio 2020. Nipote di un nazista e figlio di un’ebrea e di un architetto modernista, Florian incarnava il conflitto della Germania postbellica. I suoi tratti peculiari e il profilo squadrato e riconoscibile sono oggi un’icona.
Assieme a Ralf Hütter fondò i Kraftwerk, con un’impronta ancora acerba e sperimentale. Trasformò il flauto, suo strumento preferito, in elettronico con l’aiuto del visionario Peter Bollig. Da strumento in cui il fiato diviene suono a trasduttore elettrico, primitivo controller per i circuiti di sintesi analogica. La musica dei Kraftwerk, oggi prosaicamente definita “paesaggio sonoro” o “realismo acustico” (senza la minima cognizione su cosa questi termini astratti significhino) aveva pochissime possibilità di diventare mainstream.
Eppure Autobahn, quarto album in studio uscito nel 1974, registrato nei Kling Klang studios (richiamo onomatopeico al “metallo su metallo” delle macchine della seconda rivoluzione industriale) venne suonato ovunque: nelle sale concerto, nei salotti colti, nella filodiffusione dei centri commerciali e di tutte le stazioni di servizio d’America. Forse a causa di un terreno già preparato ad accogliere una rivoluzione, arato in profondità dagli anni della sperimentazione apparentemente sterile ed autoreferenziale degli anni 60 e del movimento hippie, i Kraftwerk, contro ogni scommessa, attecchirono.
In quel disco, vi trova posto Morgenspaziergang, suite minimale in cui il sintetizzatore diviene lingua degli uccelli, il linguaggio mistico alchemico degli iniziati, e non è un caso. L’iniziato è colui che guarda il mondo con occhi nuovi, senza la mediazione dell’intelletto giudicante, l’obiettivo di tutta l’esperienza concettuale (e lisergica) degli anni 60.
Questo iniziato è lo sciamano che percorre il sentiero della post modernità e l’autostrada (Autobahn appunto) era il simbolo per eccellenza del non-luogo post moderno, dove la velocità distorce la percezione e riduce le distanze: impossibile enumerare tutti gli artisti che sarebbero stati investiti da quest’onda, da questo concetto.
Ancora più arduo è immaginare la società del consumo, la musica tutta, senza l’apporto dei Kraftwerk. Dalle sperimentazioni di Bowie ed Eno nella Berlino di Christiane F e Blixa Bargeld, ai Depeche Mode che dalla periferia di Basildon avrebbero congiunto il pop col rock in una formula che dura ancora oggi. Uno dei rari casi in cui la sperimentazione ha avuto sul mainstream riflessi immediati, riconoscibili, inconfutabili. Ma senza quel caos che genera mostri alla Manson: una rivoluzione direzionale, velleitaria e priva di ambiguità.
A questo prorompente successo, ai mix e remix che ancora oggi fanno ballare giovani in gran parte inconsapevoli, si contrappone la figura privata di Florian, feticista del suono, uomo isolato che rifugge il contatto coi suoi simili, robot, contemporaneo stilita, ancora oggi non accreditato come musicista dalle menti nozioniste, che però ricordano il concerto per caffettiere di quel Cage che – non a caso fu esperto micologo – mancando di effettuare l’ultimo link, il più importante.
Il destino di Florian Schneider, della sua memoria, è quello defilato dei grandi; ai margini del grande palcoscenico del mainstream degli ultimi trent’anni del XX Secolo che pure ha contribuito ad edificare.