il buco

Il mercatino del metallo italiano – Alcune ovvie riflessioni!

Il mercato si regola sulla legge di domanda e offerta. Ovvio, come direbbe il vecchio Trimagasi, l’irresistibile personaggio de Il buco, film allegorico che vi consiglio di vedere, se non l’avete già fatto. Lo trovate su Netflix. No, non vi si parla di metal e tantomeno di webzines. Mi fermerei alla battuta. “E’ ovvio!” Se non vendi, non hai i soldi per produrre ancora ciò che vuoi vendere e tutto finisce. Perché le webzines e i blog, ma anche le band, soprattutto italiane, continuano a esistere nonostante nessuno tiri fuori i soldi per sentire, leggere e fruire di ciò che producono? Ancora: è ovvio, perché non hanno bisogno del denaro dei consumatori. Si cibano della loro attenzione. Di click. E del proprio egocentrismo e sensi di colpa. Soprattutto di queste ultime cose, perché con i click c’è solo da ridere. Le webzines, nello specifico che ci interessa quelle metal, e anche i blog e i gruppi che bazzicano lo stesso genere creativo, non ne possono accumulare mai abbastanza per poi esigere da google o da altri sponsor, soldi in cambio di spazi di visibilità. E le band non avranno mai un pubblico pagante in misura sufficiente per poter crescere fino a un livello di professionalità decente. Nonostante ciò il circoletto del metallo esiste e continua a esistere. Segno che non ha grosse spese da sostenere. Anche le riviste esisterebbero se fosse così. Ma non esistono praticamente più, se non sacrificando e investendo oltre i livelli di guardia del portafogli di chi le edita e spesso cantando vittoria quando miracolosamente vanno in pari.

Per lanciare sul mercato e mantenercela, una rivista necessita di svariate migliaia di euro. Ci si pagano le spese di stampa, il grafico, il distributore.

No, i collaboratori, mai.

E non solo ora, anche al tempo glorioso di Metal Shock e HM i soldi scarseggiavano per chi offriva i contenuti. A veder soldi erano i tecnici e i redattori capo. Di solito ce n’era uno con il patentino da giornalista, che veniva pagato non tanto per scrivere ma per amministrare il tutto. Luca Signorelli non prendeva i soldi per recensire o fare gli editoriali, quelli erano un suo divertimento personale. Lui prendeva soldi per coordinare la massa di scribacchini e collaboratori vari, fotografi, interviste, demo, distribuire promo, regolare spazi pubblicitari, e fare in modo che tutti i mesi il nuovo numero di Metal Hammer uscisse e vendesse a sufficienza per continuare a esistere.

In Italia nessuno ha mai preso dei soldi per scrivere di metal. Tranne rarissime eccezioni, sia chiaro. Oggi credo che le eccezioni non ne esistano più.

E le riviste non ci sono più. Se fosse lo stesso per le webzines, se i gestori dovessero racimolare soldi per cose tecniche in grado di farle funzionare e arrivare ai lettori, non esisterebbero più nemmeno le webzines, perché è chiaro che i lettori le usano poco già così e potrebbero farne a meno del tutto se dovessero dare soldi per aiutarle a sopravvivere ancora.

Sentiamo dire da tanto tempo che il download illegale sta uccidendo il mercato discografico ma i gruppi continuano a uscire a frotte con dei dischi nuovi e fanno pure dei tour e c’è intorno un esercito di persone che ne scrive, ne scrive, ne scrive…

Si tratta di un miracolo? Di beneficenza? Ma per carità, né l’uno né l’altro. Non ci sono praticamente spese troppo grosse da superare la vanità e la passione di chi produce dischi e recensioni, e il compenso è di altro genere.

Chiaro che le webzines, i blog, i portali non sono più necessari e forse non lo sono mai stati. Chi li ha creati li ha offerti al pubblico senza domandargli nulla, a parte di leggere e cliccare. Uno oggi può sentire i dischi da solo, scaricarli e rimanere aggiornato come vuole su tutto grazie ai social, dove gente offre informazioni su informazioni senza nemmeno rendersene conto. Un amante del metal non ha bisogno di nulla e nessuno. Non gli occorre leggere le interviste tutte uguali e tantomeno sapere come sono andati i concerti a cui non andrebbe mai.

Eppure le webzines è principalmente questo che offrono. E offrono questo perché chi scrive i report, recensisce i promo e intervista i propri miti, lo fa per gusto proprio, con grande passione. Una passione che non necessita di denaro per nutrirsi. Si nutre di se stessa. C’è gente che adora recensire dischi su dischi, senza pensare ad altro. Per esempio il buon vecchio Sandro Buti. (No, non è stato Marco Grosso a informarmi. Non conosco solo lui a Loud And Bound. Ci sono anche altri che si dilungano e si sono dilungati in chiacchiere con me, in passato).

E c’è gente che ritiene un compenso sufficiente, poter parlare mezz’ora con Phil Anselmo o fare un sacco di strada per assistere gratis al concerto di una band che ama, e soprattutto per avere un pass che le permetta di avvicinarsi al palco, scattare foto ravvicinate e girarle sulla propria pagina facebook facendo impazzire di meraviglia la zia o un amico del cuore. Insomma, tutte queste persone ricevono già parecchio e offrono parole ed emozioni in cambio, in articoli spesso scritti male, prolissi e senza un’impostazione professionale ma che urlano a ogni virgola: amore.

Per la musica e per se stessi, è ovvio.

Perché non hanno la più vaga idea di cosa sia il giornalismo. Non scrivono e non hanno mai scritto per soldi e non hanno appreso, se non in modo passivo, dalle recensioni di Alex Ventriglia e gli sfoghi di Signorelli. Questa è la loro scuola.

La professionalità, tranne rarissime eccezioni, è una merda. Scrivere per soldi richiede soldi perché di solito chi lo fa, scrive di argomenti che non ama. Quindi si mette lì, fa ricerche, si sforza di assumere un tono accattivante, sta bene attento a non dire cazzate e consegna un numero di battute richiesto da chi lo paga per il pezzo. Chi scrive per soldi passa dall’economia del medioriente alla botanica, dall’illustrare i benefici di un farmaco omeopatico fatto con lo sterco di farfalla al revisionare il barboso discorso politico della Lega, magari. Prende poco ma lo ritiene più edificante che zappare la terra. E come dargli torto? Però non è felice. E appena può si sfoga su un blog o una webzines, magari scrivendo uno speciale sui Tiamat.

Chi scrive di metal su una webzine non verrà mai pagato. Non c’è bisogno. Non solo perché ci sarà sempre chi lo farà gratis ma soprattutto perché non esisterebbero mai dei soldi per compensarlo del tempo, la cura e il talento che ci ha messo. Talento, cura e tempo sono cose che a stento si pagano già in veri campi lavorativi, figurarsi. Solo chi ha una grande passione per questa musica potrebbe sognarsi di scriverne per ore e ore ogni giorno. Recensire dischi tutti uguali sarebbe un lavoro disumano se non ci fosse l’ossessione per il genere capace di far scorgere delle differenze e palpitare il cuore se un disco ricorda un altro vecchio disco. I giornalisti a volte ci fanno un pezzo, sul metal, come sul porno e sulla dieta macrobiotica, ma è raro che lo facciano perché adorano gli Iron Maiden. A volte scoprono cinque minuti prima chi siano.

Ora, il punto è questo. Nel metal la scelta non è tra scrivere per passione o per soldi ma scriverne per passione o non scriverne affatto. Però io offrirei un’alternativa più avanti. Intanto concentriamoci sul perché molti si dedicano così tanto al metal senza denaro in cambio. Il cuore spinge a farlo ma anche l’egocentrismo. Non esiste il volontariato puro di cui parla Porz dei Malnàtt.

Sarò cinico, ma sono convinto che persino dietro i volontari della Croce Rossa spesso non ci sia la pura generosità d’animo ma anche la solitudine e il bisogno di aggregarsi a un gruppo, la vanità, il desiderio di scoparsi qualche bella divorziata e sovente la politica e il curriculum.

Chi scrive di metal, soprattutto chi tira in ballo la purezza e l’idealismo, la scena e la passione, spesso si nasconde dietro queste parole sapendo di dover celare ben altre propulsioni. Certo, lo fa perché ama il metal, è fuor di dubbio, ma c’è di mezzo anche una buona dose di vanità. Io scrivo di metal anche per vanità, per esempio. Chiunque scrive anche per vanità. Non mi sognerei mai di firmare qualcosa con uno pseudonimo. Voglio che si sappia chi sono e si impari il mio nome.

Conosco gente che invece usa nomi finti, non per vergogna, ma per sentirsi libero di esprimersi. Così come c’è chi ritiene il nirvana assoluto sbrigare lo sgobbo di un report perché così, quando dovrà andare nel backstage a intervistare Chuck Billy, si godrà la faccia dei ragazzini in prima fila, che lo seguiranno con uno sguardo di ammirazione e invidia.

Chi sarà quel tipo che passeggia dove nessuno ci lascerebbe passare? Chi è costui?

Ve lo dico io, uno sfigato tremendo.

Ma per il bimbominkia che ama i Testament deve essere uno importante. Un giornalista.

Per tenere in piedi un sito o una webzines occorrono pochi soldi. Qualche centinaio di euro ogni tanto. Chi ha un lavoro può concedersi un hobby, no? Andare in moto o farsi un viaggio costa anche di più. C’è chi adora gestire un sito, crearlo dal nulla e ricevere dalle label i promo e i biglietti gratis.

Il problema nasce da questo bisogno di avere considerazione e riconoscimenti anche quando non c’è un fottuto soldo. Immagino sia parte delle dinamiche sociali di ogni ambiente. Ho visto gente scannarsi per un posto di lavoro e ho visto gente accoltellarsi alle spalle per la gestione di un blog. Non sono i soldi. Non è la voglia di esprimersi liberamente.

In palio c’è molto altro.

Tutti dovremmo capirlo, è ovvio, direbbe ancora Trimagasi: per fare il bene dell’arte occorre perseguire la verità. Questo vale per chi la crea che per chi ne scrive, il quale dovrebbe riconoscerla e promuoverla.

Si tratta della propria sensazione di verità. Quello che per te è vero e puro, per altri puzza, ma non è il punto. Le webzines sarebbero libere, così come le band che continuano a far dischi usando mixer digitali in cameretta e devono solo pagarsi una scheda audio e qualche altro giocattolino da studio.

Ma molti degli esponenti di queste imprese senza lucro coatto, finiscono per rincorrere compensi fittizi. La passione da sola non gli basta. Le band vogliono click sulla pagina. I recensori vogliono l’amicizia di quelle band e possibilimente i CD fisici. A volte sono nate delle sommosse perché qualcuno tratteneva i CD che arrivavano in una redazione (la casa del tizio che possiede il sito) e non li distribuiva ai collaboratori che li recensivano. Succedono queste cose, sapete?

In fondo non è molto. Parliamo di qualche CD, un reperto archeologico di un commercio fisico che sta morendo. Eppure c’è chi è pronto a ingannare e mentire pur di tenerseli tutti per sé, i CD. La cosa che esce fuori dalla triste vicenda del giro metallaro (ma posso estenderlo al cinema di genere e al mondo delle riviste musicali on line di ogni tipo) è che non ci sarà mai libertà, nemmeno senza il denaro. Perché la compravendita è insita in ognuno di noi ed è fatta di ego, emozioni, viscere e soprattutto sfinteri.

Eppure io non scriverei per soldi. E non per le minchiate che dice il Biffi, rispettabili se ci crede, ma per me sono minchiate. Io scrivo per essere ammirato, per essere rispettato e ammirato. Ammirato, esatto. Patetico ma anche io sono parte della Grande Carne. E soprattutto scrivo per cambiare la testa degli altri, per umiliarmi a volte, per punirmi e sovente per difendere ciò che sento vero e puro.

Sapete, io collaboro con un sito che mi paga per scrivere di musica. Mi danno una cifra precisa per ogni articolo che posso proporre. Eppure, la maggior parte dei miei pezzi li pubblico gratis su Sdangher. Potrei farci dei soldi dandoli a questo sito, e sono sicuro che li accetterebbero perché sono buoni, ma non ci sto.

Il motivo è semplice. Per scrivere uno speciale sui Deicide o i Cannibal Corpse, ho dedicato alla cosa settimane intere, leggendo quintali di interviste e ascoltando ore e ore di canzoni, pensandoci di continuo e tirando fuori dal cuore la cosa più onesta e precisa che posso realizzare.

Lo faccio perché mi offre un godimento enorme, sia mentre ricerco o approfondisco, che quando scrivo e poi pubblico, per non parlare di quando ricevo complimenti o buone critiche a riguardo. Ma se uno arriva e mi offre cinquanta euro per quelle settimane di sgobbo e di sacrifici, di cuore e di palle, beh, io dico di no. Cinquanta euro sono un insulto. La mia passione non ha un costo. O meglio ce l’ha ma con molti più zeri, se proprio vuoi pagare.

Per non parlare della proprietà che grazie a pochi spicci, qualcuno potrebbe poi rivendicare su una mia creatura, magari prendendosi la libertà di tagliarla, sintetizzarla od obbligarmi a modificarne alcune parti dopo la stesura definitiva. Perché quando uno paga, anche poco, dopo è in diritto di pretendere.

E non è così assurdo chiedere migliaia di euro per qualcosa che sgorga dal cuore. Come dice il cantante country in crisi Mac Sledge/Robert Duvall in Tender Mercies, “se sai fare bene una canzone c’è qualcuno così pazzo da pagarti un bel po’ di soldi”. Purtroppo in questo mondo i pazzi sono dietro ad altre cose, e nessuno pagherebbe dieci centesimi per questi miei articoli, ma almeno sono libero di farli come e quando mi pare, dicendo tutto ciò che mi frulla per la testa. E la cosa mi offre un piacere enorme.

Vedere tanti appassionati che invece scambiano tempo e integrità, in cambio di qualche contentino feticizzato (biglietti, promo, pass), mi riempie di tristezza, però nutre il mio senso di superiorità nei loro confronti. Mi aiutano ad apprezzare me stesso, e quasi li ringrazio per questo.