La morte è mia consigliera nella vita. Ogni giorno è il mio ultimo!

-Cosa rende speciale la vita, Jon?
-La fine.

Ovviamente è così facile, col senno di poi, scorgere le avvisaglie di un gesto estremo, ma nel caso di Jon Nödtveidt non sembra neanche un atto distruttivo, sfugge al normale concetto che abbiamo del suicidio. Solitamente, quando una star del cinema si ammazza, andiamo a ritroso, guardiamo i filmati più prossimi al suo gesto, l’ultima intervista e cose così, nel tentativo di rintracciare “il segno” che stava per farlo. Seguono le varie speculazioni su quanto fosse depresso, sull’uso eccessivo di farmaci e su quanto abbiano pesato, la separazione dalla moglie e l’allontanamento dai figli, le critiche all’ultimo album e via di questo passo, di illazione in illazione. C’è un clip di Chester Benninghton dei Linkin’ Park poco prima di suicidarsi. I commenti esprimono tutti una grande perplessità, perché a vederlo così sorridente e rilassato, sembra impossibile credere che poco dopo Chester si sia tolto la vita. Forse era sorridente e rilassato perché aveva già preso la sua decisione. Ma non voglio infognarmi nelle solite chiacchiere.

Jon si uccise ma non era depresso, non lo fece per i tiepidi riscontri suscitati dal disco o per difficoltà economiche, delusioni d’amore. Jon si è ammazzato perché era felice. O pazzo, secondo il vostro punto di vista, immagino. Vi hanno insegnato che la vita è il bene più prezioso, ma questo slogan fa parte di un’educazione cristiana che Nödtveidt rifiutò e continuò a rigettare tutta la vita, compiendo atti che gli garantirono un non ritorno. Gli ci volle tutta l’esistenza per liberarsi la testa da certi insegnamenti educativi. L’omicidio e il suicidio, due cose vietatissime nella nostra civilità, ai suoi occhi finirono per non essere ciò che sono e saranno sempre per noi altri. Dal punto di vista di Jon, chissà che cosa furono. Di sicuro c’era dietro la volontà di gestire la propria vita senza lasciarsi condizionare da nessuno. Ok, sull’omicidio questo principio vale poco, perché sembra siano state le droghe a spingerlo a una simile sciocchezza, ma la detenzione non fu un male, alla fine. Fortificò ancora di più la sua volontà fino a trasformarlo in qualcuno di molto diverso, forse il vero se stesso, o forse soltanto un altro se stesso.

Anders Bjorler (Ex at the gates, Haunted): Eravamo amici intimi dei Dissection. A metà anni 90 si trasferirono a Goteborg. Jon era un buon musicista e un tipo molto in gamba. Era un po’ il mattacchione della classe. L’immagine che spesso ne viene presentata non combacia affatto con la realtà. Perché era una persona molto affabile. In lui si intravedeva un riflesso di tenebra, specie quando scriveva e ascoltava musica. Ogni tanto quel lato tendeva a emergere, ma nel complesso era una persona molto positiva e allegra. Gli piaceva fare scherzi telefonici, prendeva l’elenco, sceglieva un numero a caso e fingeva di essere della compagnia elettrica. Marachelle di questo tipo, stupide e divertenti. Non credo fosse omofobo. Credo che si facessero di anfetamine e che si sbronzassero. Non credo che avrebbe commesso quell’omicidio se fosse stato sobrio. Assolutamente. Saranno state circa le quattro del mattino, erano ventiquattro ore di fila che se la spassavano e una cosa ha portato all’altra. Ovvio i giornalisti dissero che quella sorta di assassinio rituale era premeditato, ma io non conobbi mai quel lato della sua personalità.

Parlai con Jon un paio di settimane dopo che era uscito di prigione e di fronte a me trovai una persona totalmente cambiata. Era strano, molto freddo. Non rimasi granché sorpreso quando seppi che si era suicidato.

Tornando a RainKaos, forse è proprio lì la chiave per capire che la decisione di Jon era antecedente al disco e non successiva e conseguente in qualche modo a esso, nella ricezione della gente o nell’effettiva soddisfazione artistica che ne trasse come autore. Ogni canzone è un’invocazione a una diversa divinità pagana e queste sue preghiere non sono, come può sembrare, dei tentativi di coinvolgere il cuore del pubblico in tentazioni liturgiche alternative, ma una richiesta specifica espressa dal musicista a queste antiche divinità in cui lui credeva. Ogni canzone è infatti una richiesta di accogliere il suo spirito, perché presto sarebbe stato liberato dal corpo. E il modo migliore di esprimere queste invocazioni,  forse pensò Jon, era quello di trasformarle in canzoni orecchiabili che il suo pubblico cantasse insieme a lui, in una preghiera collettiva che si sprigionò dagli stadi e i palazzetti fino alle orecchie ataviche di questi dei dormienti ma sempre pronti a percepire tributi e invocazioni.

Peccato che le canzoni non siano piaciute e durante i live, difficilmente il pubblico seguì Jon nelle sue grida liturgiche. I fan erano troppo straniti dal cambio di stile, altro che invocare la dea Kali.