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Strategie evolutive – Tre validi motivi per ascoltare ancora musica metal

I dischi che mi sono pappato di recente mi hano fatto pensare a tutti i validi motivi per cui una persona di quarant’anni dovrebbe ancora ascoltare musica metal nel 2020. E ne ho trovati pochissimi, ma validi. Tutto quello che ci galvanizzava anni addietro è stato in qualche modo spazzato via dall’inesorabile appropriazione indebita che l’egemonia culturale ha fatto di ciò che rendeva la musica metal degna di essere vissuta, e non solo ascoltata. Qualunque spinta di rottura è stata fagocitata senza chiederlo, digerita male, e risputata in forma di pensiero comune; insomma, la folle idea che oggi il metal possa ancora mandare in corto il sistema è veramente una roba da illusi. Tra l’altro, a patto che non viviate sulla Plutone, non è difficile rendersi conto che pure il politicamente scorretto (con cui il metal ci andava a nozze, nei sui momenti migliori) è, a oggi, una forma mentis totalmente codificata e istituzionalizzata, con buona pace di chi ancora si ostina a fare della militanza politica con le chitarre elettriche.

Motivo numero uno: Ulcerate.

E quindi? Perché ascoltare e gioire di un disco degli Ulcerate? Ma è semplice: per farti venire il sospetto che il metal possa in qualche modo ancora evolversi in qualcosa di fresco, superare le avulse disposizioni retoriche di cui anch’esso è caduto vittima e uscire dai recinti in cui si è rintanato.

Vedete, Stare Into Death And Be Still è talmente massiccio che ti fa pensare che non sia ancora giunto il momento per mettere la parola fine su quello che definisce il metal estremo, ma lo fa trattando paradossalmente le derive più terminali che tu possa immaginare.

È il disco che si occupa di quella morte che tu non vuoi che arrivi, ma da cui non puoi nemmeno pensare di avere scampo: mi immagino la musica degli Ulcerate come un gigantesco vuoto in cui perdersi, dove il punto ti sfugge sempre, come se stessi convergendo asintoticamente verso qualcosa che sai essere cruciale, ma di cui non riesci a cogliere l’essenza nella sua natura più profonda.

È sicuramente affascinante e, in un certo senso, riflette l’incertezza e la non ben definita quadratura del momento che sto condividendo con voi, chiuso in casa. Ma gli Ulcerate ti trasportano in questa poetica del precipizio mica stravolgendo poi tanto la loro personalissima formula che già amavamo nei dischi precedenti; più che altro loro allineano i tasselli in modo (molto) più intellegibile e dinamico rispetto a prima, ingrossando le melodie e lavorando ancor più di contrapposizioni tra rarefazione e compressione. Ancora una volta le colate continue di lava nera e fumo si avviluppano attorno all’ossatura ritmica di uno sbalorditivo Jamie Saint Merat, sempre più puntuale e maniacale nella sua tavolozza. Magari si sono fatti solo un po’ più accessibili, ecco, ma siamo veramente a livelli di personalità e scrittura che in un altro momento avrebbero potuto definire gli sviluppi di un intero genere. Anche oggi? Magari…come vi dicevo, ce ne sarebbe un disperato bisogno. A parte questo, gli Ulcerate per me rimangono una delle poche risposte a chi crede non ci sia scampo dal pantano: ars moriendi, pura e semplice.

Oranssi Pazuzu: parliamo ancora di riff?

Sempre parlando di strategie evolutive, è il caso di mettersi a sentire anche il nuovo lavoro degli Oranssi Pazuzu, una band che personalmente non ho mai capito in pieno, ma che probabilmente ha sovente messo in luce un altro di quei motivi per cui vale ancora la pena spendere tempo su un disco metal: la meraviglia di non sapere cosa ti puoi aspettare nel tempo in cui ti metti lì ad ascoltare un’ora di musica.

Per me i loro dischi sono sempre stati un bel trip allucinatorio, ma non nella maniera che mi aspettavo. Come ha detto qualcuno: “una volta partivano dal black metal finlandese e arrivavano agliElectric Wizard”. Secondo me invece sono sempre stati una band molto più strana, per certi versi vicina all’eclettismo dei norvegesi nei tempi migliori, ovvero gente che ha saputo trasfigurare un intero genere –  Dodheimsgard, Solefald, Arcturus, Ulver e compagnia bella – mantenendo un carattere forte.

Beh, è palese quanto loro l’abbiano sempre presa più sul versante psichedelico e spaziale, in una parabola che li aveva portati a una vera e propria dichiarazione d’intenti e d’amore come Värähtelijä e di quasi totale abbandono del black in senso stretto. Swans e Mayhem, kraut-rock e francobolli, soluzioni free form e reiterazioni ipnotiche.

Derivativi finché si vuole ma viaggiosi quanto basta per incuriosirti su quello che viene dopo. E quindi arriviamo a questo Mestaryn Kynsi, ancora una volta una sorpresa, ancora una volta un disco che non me l’aspettavo, ma per motivi diversi dai precedenti.

Perché, di fatto, non aggiunge nulla di nuovo alla materia sonora di cui sono tremendamente capaci a maneggiare, per quanto sia lo stesso un buon colpo. Che abbiano tirato il freno a mano per il peso di un contratto con Nuclear Blast?

Forse. Che abbiano cercato di dare più coerenza e forma a un percorso ormai decennale di intuizioni e vagheggiamenti fin qui libero di correre a briglia sciolta? Sicuramente. Oppure che sia la rampa di lancio per futuri e ulteriori svilippi in data da destinarsi?

Chissà.

Ma poi, mi domando: come fanno alcuni ancora a parlare degli Oranssi Pazuzu come di una band black metal? Qui dentro praticamente non ce n’è, se non nella forma di un’arcaica reminiscenza, sepolta sotto quintali di anni sessanta: per quel che vale, oggi potrebbero avere più cose in comune con i Mars Volta che con i Darkthrone. E non è necessariamente un male, sapete, per quanto pesante e dispersivo il risultato finale possa uscire fuori.

Fase tre: si, parliamo ancora di riff.

Per finire, i Dark Fortress. Io sapevo che erano una band black metal tedesca che per qualche motivo non aveva sfondato, e in passato mi avevano dato l’impressione di essere il non plus ultra del già sentito, la citazione assurta a cardine chiave per scrivere un disco da dare in pasto ai più generalisti fan di Watain e Dimmu Borgir.

E invece mi sbagliavo clamorosamente, almeno alla luce di come suonano oggi. Spectres From The Old World è un lavoro molto interessante, a tratti sorprendente, che si inserisce a buon diritto tra i dischi che vale la pena tirare in ballo quando qualcuno vi domanda cosa può ancora offrire il metal oggi.

Risposta: le canzoni e i riff. Credo non esista ad oggi nessun genere, tra quelli ben codificati, che possa attingere da una pletora di variazioni stilistiche come il metal. È chiaro che non essendoci più alcun trend dominante al suo interno, esso sia totalmente libero di attingere a destra e a manca gli input più disparati dei suo stilemi, adattandoli alle necessità della canzone.

Seguendo questo semplice ma efficace presupposto, possiamo usufruire della musica dei Dark Fortress. Partono da un’ovvia radice black metal, ma vi accorpano via via un sacco di sezioni provenienti dal thrash, dal death, e persino dal dark in senso più generale, andando a speziare all’inverosimile l’ossatura di un sound che si è fatto molto personale ma anche totalmente comprensibile per chi il metal non se lo ascolta proprio.

Questo disco è l’esempio di come si possa mostrare un carattere senza per questo accartocciarsi sullo sperimentalismo più masturbatorio, e rimanendo ben saldi nella forma più classica di canzone. I riff, dicevamo. Una roba che qualcuno sembra aver scordato essere lo strumento chiave per scrivere una canzone metal efficace, un modulo espressivo che i Dark Fortress sembrano saper sfruttare in tutto il suo potenziale, come si faceva una volta.

E adesso che vi ho parlato anche di black metal degenerato, spurio e “orecchiabile” so già che ci saranno i soliti talebani del trve-ismo (cit.) che invocheranno al tradimento della fiamma nera più elitaria. Beh, pazienza: in fondo se i Dark Fortress venderanno qualcosa (sono sotto Century Media), faranno del bene pure a loro, anche se probabilmente non lo sanno. Alla prossima.