zoccoli e zolfo

Zoccoli e Zolfo – La rubrica sul rock/metal occulto

Questa nuova rubrica parlerà principalmente degli aspetti occulti nella musica. Non si tratta di un appuntamento specifico sull’occult rock, sia chiaro, ma tratterà molto anche quello. Ciò che interessa a me è la magia che sovente un disco sprigiona e soprattutto se questa magia è creata in modo consapevole dall’artista, con rituali dentro e fuori al pentagramma o se sia frutto del lavoro di un mago naturale.

Il primo disco di cui vorrei occuparmi è Black Metal dei Witchcraft.

Sapete no, un artista che si spoglia e resta solo, niente suoni distorti come fumo nelle orecchie, né sagome dietro cui nascondersi. Una voce incerta e una chitarra suonata così così. Si sentono scricchiolii che non dovrebbero sentirsi ma è fico così perché fa True e Raw. Tipo lui che stecca una notarella o che perde un secondo ad aggiustare la posizione. E la magia comincia, vero? Non proprio. I primi due pezzi sono abbastanza innocui, le cose iniziano a succedere da Sad People. Accordi appena accennati, qualche nota che cammina sul filo del nulla e poi la vocetta felina di Magnus Pelander che chiede dove vadano a finire le persone tristi.

Se non ti nomino, non vuol dire che questa canzone non ti riguardi.

E viene in mente un’amica, chissà perché una donna e non un uomo. Un’amica triste, depressa, accovacciata ai piedi di Pelander, che lo ascolta silenziosa mentre lui vaneggia un po’ di accordi e di parole. “Sei bravo, Pelandeer”, gli dice. “Potresti avere successo”. E quella reazione è forse l’ultimo momento di vita prima che la marea della tristezza se la riporti nei fondali del buio per sempre.

Free Country invece è il brano con i passaggi più orecchiabili. La dico grossa ma non credo che questi pezzi abbiano una struttura rigida e fortemente definita. Sono sicuro che tra un ritornello e l’altro Pelander si lasci dei momenti liberi per vedere dove lo portano le mani. La sensazione è quella. Ed è la cosa più interessante di Black Metal. Quando le cose accadono così, senza preavviso. Sono pazzo ma siete voi che continuate a leggermi.

Ascoltando Sad Dog, dove tra l’altro c’è un accenno di tastiera qui e là, capisco che questo disco parla di morte e paura di invecchiare. E non mi sorprende che proprio la parte che mi duole io esiti a riconoscerla. Pelander racconta un mondo rarefatto, di volti e corpi trascinati via dalla notte e fermati nel ghiaccio della memoria. E nel mezzo della strada vuota c’è lui che vede arrivare la morte, tingere di ombre le pareti, infettargli di putredine l’anima. E mentre si cresce si invecchia. Non c’è un momento in cui si smette di crescere e si inizia a diventare vecchi. La vita è diventare vecchi. Magnus voleva dirlo, nel modo più chiaro e delicato possibile. Con la sua voce da canzone della buonanotte, tutti intorno a un fuoco, e l’aria intorno pesante e vorace come nero metallo.

 

Credo che questi brani non saranno le mie candele contro la morte del tutto, durante la notte più paurosa e triste dell’anno. Io ho già la mia raccolta completa per l’addio che mi riguarda. Accenderò Coming Back To Me dei Jefferson Airplane e forse Marcy’s Song di Jackson C Frank (https://www.youtube.com/watch?v=FP2eOd-I2B8) o magari metterò in loup 4 + 20 di Stephen Stills.

Conoscete la storia di Jackson C. Frank? Cazzo, dovete saperla. Cliccate sul nome e leggete, poi ascoltatevi il suo disco. Non ha realizzato molto più di quello, avrebbe avuto il tempo ma non la serenità per farlo. Ma quando fai una cosa come Blues Run The Game dopo non c’è molto da aggiungere. Non basterà un’eternità per toccare il fondo alla profondità di quel disco. Cazzo! So che non è leale nei confronti di Pelander tirare in ballo Jackson C e magari di questi tempi un EP come Black Metal potrebbe dare l’idea di essere un disco di rottura, una cosa molto coraggiosa, ma se iniziamo a sbirciare indietro, le fiammelle all’incenso di Black Metal non reggerebbero una scorreggia di un angelo nero al nostro capezzale. La nostra disperazione è tostissima e ci vogliono canzoni tostissime.

La veloce rinascita e la lenta agonia dell’Occult Rock

Primo. Non è che chiedessi molto all’Occult Rock, giusto tre o quattro album l’anno che fossero ispirati e coinvolgenti, ma il genere sembra già tornato in qualche vecchia cripta. I Ghost sono diventati una specie di panzerotto areostatico per gli stadi, i Devil’s Blood si sono estinti dopo tre lavori stupendi, causa morte per suicidio di quella che era la mente creativa principale, Selim Lemouchi, e la sorella, Farida, bella ricciolona da cui mi farei benedire, non sembra aver più combinato granché, a livello discografico.

E parliamo del 2013. Cazzo, nel 2013 noi di Sdangher stavamo ancora su Blogger, è un millennio fa. Continuo la conta dei caduti, se non vi scoccia. I Jex Thoth non realizzano nulla dal 2003. Jill Janus si è tolta la vita, mettendo una bella pietra sugli Huntress. 2015.

Poi i Blood Ceremony, che non sono morti, ma fermi a Lord Of Misrule (straordinario) del 2016. I Christian Mistress, per i quali stravidi da subito e pure loro, dopo To Your Death, sempre del 2015, sembrano ormai dispersi.

I Royal Thunder non si fanno più sentire da tre anni, così come i Jess And The Ancient Ones e gli Alunah. I Sabbath Assembly sono usciti nel 2019 ma non me ne sono nemmeno accorto, e voi? Li recupererò al più presto, parlandone qui, ma senza farmi illusioni.

Per dire, i Bloody Hammers mi hanno deluso molto con The Summoning; era meglio se stavano fermi. Non mi sento di dare la colpa a questi complessi (possiamo chiamarli ancora così, anche se spesso si tratta di progetti?) come si fa a sopravvivere in un mercato discografico che non rende abbastanza e ti chiede una vita di merda finché non scoppi? Di sicuro i ragazzi dell’occult rock devono tutti essersi presi una bella pausa e torneranno, magari nel 2023 o chissà.

Intanto vediamo cosa c’è ancora in giro. Non siamo messi proprio male. Karyn’s Crisis e il suo vangelo delle streghe ha fatto uscire un disco lo scorso anno e anche Chelsea Wolf gli Orchid e i Kadavar, così come Year Of The Goat, i Magic Circle e gli Ancient VVisdom, che sono i soli ad avermi davvero convinto.

E per il 2020, Anno Covid d.c.?

Beh, per cominciare vi suggerirei il terzo dei Lucifer, band che per la verità non mi sono mai filato granché, né quando esordirono (e ci suonava Gaz Jennings dei Cathedral) né dopo.

Ora, visto cosa passa il convento nero, ecco qui che provo finalmente a dargli una possibilità. E che cosa scopro? Che sono ottimi e soprattutto che è coinvolto quel figlio di buona madre di Nicke Andersson, già dal secondo album. Suona la batteria e la chitarra e probabilmente compone pure un bel po’ del materiale. Non ce lo vedo a fare solo l’esecutore.

Il motivo principale per cui Nicke è nei Lucifer è la tedescona Johanna Sadonis, cantante del gruppo e soprattutto sua moglie. III è uscito un paio di mesi fa ma vi assicuro che non è ancora andato a male, eh? Provatelo.

Sì, in fondo è la solita zunna di rock anni 70 e qualche moina esoterica d’atmosfera, buone melodie e un paio di riff intriganti. Ma personalmente non oso domandare più di questo. Non c’è niente di veramente occulto nei Lucifer, però una certa atmosfera da cimitero alla Vincent Price non si butta via e questo è confortante.

Il loro mondo è un horror sofficioso, con la carta da parati che ha strane macchie, passi nella notte, fantasmi predatori e demoni di pelle che attendono a pollo sulla tomba di qualche anfratto dimenticato. Siamo sul gotico andante per capirci, negromanzia sentimentale, con gli amanti irresistibili che lasciano odor di uova sode e non per via di una crisi intestinale, e poi immaginate un incantesimi voodoo in cui la popputa Johanna si risveglia nelle profondità di qualche cripta, in attesa del “signore che arriva danzando” lungo le tombe del vecchio cimitero. In particolare quest’ultimo tema riguarda il brano più riuscito di tutti. Coffin Fever, che nella seconda parte ha degli stacchi vicini al mood sonoro di Phantasm di Fred Myrow e Malcom Seagrave, e inevitabilmente a Left Hand Path degli Entombed.

Mentre scrivo e ascolto questi dischi, lasciandoli sedimentare nel mio cuore e inzupparsi di realtà, la mia vita cambia. E se ho scritto dell’EP dei Witchcraft durante la quarantena, chiuso in casa in ciabatte osservando torvo l’orizzonte piatto e gravido di pericoli virali, i Lucifer li ho ascoltati camminando intorno a casa con una mascherina e così gli Hexvessel, mi stanno tenendo compagnia mentre esco e faccio lunghe passeggiate a tasche vuote, libero persino dal cellulare, voglioso soltanto di perdermi in giro, senza dover rendere conto a nessuno e con la bocca libera di respirare quanto necessita.

 

E intanto le lunghe composizioni di questa band calzano a pennello con i tragitti via via più rarefatti e disorientati. Percorro lo spazio con voluttà, fregandomene dell’ora, lasciando che la musica detti il mio ritmo. L’album Kindred, di cui non mi è stato possibile reperire tutti i testi nella rete, esprime quel genere di magia sinistra e accorata fatta di amore e paura, uniche due motrici che ci guidano sul sentiero che tutti evitano. Sogno e incubo da attraversare con le melodie minacciose e acide di Mat McNerney, che passa dalla ballata che odora di grano falciato di fresco, alla progressione polverosa dei vecchi tempi vinilici.

Dalle parole che sono riuscito a carpire in pezzi come Billion Year Old Bing sembra che Mat abbia una gran fiducia in ciò che è realmente sacro e divino. Gli antichi dei attendono le nostre ossa cristiane, le viscere andranno comunque a ingrassare la vecchia Era e i corvi di Odino si ciberanno dei nostri bulbi, cavandoli dai corpi lasciati tra i rovi da qualche assassino.

Possiamo allontanarci da noi stessi ma siamo destinati a ricongiungerci con Il Grande Impasto e contribuire al disegno della Natura, che è il solo essere creatore: un organismo che amministra se stesso e genera espressioni creative di se stesso.

Chi ha creato la natura? Sempre la natura.

Sapete, la domanda che di solito ci rivolgono i credenti quando diciamo che non c’è un dio è: e allora chi ha creato la terra?

Potrebbe essere la stessa domanda da girare a loro.

E chi ha creato dio? Possibile che ci debba essere sempre qualcuno dietro qualcuno o qualcosa?

L’esperienza ci dice così, ma si tratta della nostra piccola esperienza di umani. Continuando a dare alle divinità le stesse fattezze limitanti di noi stessi, non facciamo altro che proiettare la nostra misera visione verso qualcosa che è divino e che quindi trascende l’uomo e non può assolutamente comprenderci. Così come noi non possiamo capire un dio.

Gli Hexvessell hanno quel senso di tragicità epico dei cantori inglesi. Prendete Fire Of The Mind e presto davanti a voi si divulgherà un paesaggio brullo, con dei ragazzini dalle guance cotte che osservano un vecchio ubriaco vomitante. “Papà smetterà mai di morirci davanti?”

Ma il momento più nutriente di questo disco è un piccolo strumentale dal titolo Family. Un arpeggio che mi ha ricordato quei dolci momenti in cui dalla depressione si inizia a scorgere un appiglio, magari rappresentato da una foto che sbuca da un vecchio cassetto o una canzone che non ascoltiamo da anni in un episodio dei Griffin. Queste cose sono lo spicchio di sole che ci aiuta a risollevarci e fare il nostro dovere di essere viventi: vivere, e sorridere dei guai, proprio come non abbiam fatto mai. Vasco, esatto.

Famiglia è tutto. Piangeremo il giorno che nostro padre se ne sarà andato e ci domanderemo una sera di tregenda come mai con nostra sorella non ci parliamo da tanto tempo, senza nemmeno aver litigato. Quel piccolo pasticcino strumentale di chitarre sa di mosto, di mandarino a Natale e mi dice che forse la famiglia continua a essere pelle, polmoni, occhi ed emozioni finché campo. Non la perderò mai finché io continuo a esistere.

La musica degli Hexvessel a me trasmette questo e molto altro, ma non voglio assediarvi lo scroto dei cazzi miei. Sono sicuro che anche voi troverete qualcosa su cui fantasticare davanti a pezzi come Joy Of Sacrifice, in cui un coro un po’ lugubre e sognante insieme, intona una ninna nanna alla terra. Vediamo tutte queste sette pagane avanzare nel buio della nostra notte di fede e tremiamo per la loro ridente pazzia. Ma la paura di noi che li spiamo sperando di non essere scorti e uccisi come testimoni scomodi, è la paura di cui hanno bisogno. L’angoscia di questo mondo moderno nutre la terra di pazzia e nevrosi. Dagli alberi decantano le spore allergeniche perfette a levarci il fiato e farci sentire chissà perché, così in colpa verso qualcosa. Oscuro, poetico e con la trombosità vintage ridotta al minimo. Lavoro consigliatissimo.

E per oggi finiamo qui. Padrecavallo vi benedice: nel cuore, le palle e la mente!