Speciale Dissection – Vita, morte, ammazzamenti e suicidi di una band che faceva seriamente sul serio

Molti pensano alla storia del metal in modo lineare. Prima è avvenuto questo, poi quello… e in particolare molti credono che le forme più estreme della musica heavy si siano succedute così, cronologicamente. C’è chi crede che sia nato prim il thrash, poi il death e il grind e infine il black norvegese. Altri invece, tra cui Jeol McIver, dicono che i principali esponenti di questi generi cominciarono tutti nello stesso periodo e che solo l’attenzione del pubblico e le etichette, che via via ne aiutarono il successo, hanno determinato questa apparente “evoluzione” verso il caos.

I Dissection però non appartengono a quella prima generazione di folli bambini del nord-Europa. Iniziarono a darsi da fare nel 1990 e avevano le idee piuttosto confuse. Fu in primavera. A quanto pare anche il male rigoglie insieme ai fiori e le foglie… Che fa pure rima. Ammesso che sia corretto dire rigoglie, ma della grammatica non me ne coglie.

Capisco che si pensi più volentieri all’inverno se si parla di Dissection, ma è proprio allo sbocciare dei fiori e nel turbine sessuale di Madre Natura che il chitarrista Jon Nödtveidt e il bassista Peter Palmdahl riuscirono finalmente a trovare un batterista compiacente e iniziare a far le prove. E ci volle quasi un anno per rimediarlo. Si chiamava Ole Ohman. 17 anni e del segno dei Pesci. Gli altri due, Jon e Peter nel 1990 erano entrambi quindicenni, rispettivamente cancro e scorpione. Se vi state chiedendo perché io insista con lo zodiaco non saprei che dirvi, è una cosa istintiva.

Sull’età invece no, vorrei che notiate bene quanto il gruppo fosse giovane all’inizio. Insomma, vi ricordate come eravate voi a quell’età? Io ero estremamente intimorito dalle donne e vergine, ma non nel senso dello zodiaco. Preferivo aggirarmi in un cimitero con gli Entombed in cuffia, una raccolta di racconti di Lovecraft sotto al braccio e la testa piena di sogni oscuri. Preferivo impiegare così il mio tempo invece di andaremene in piazza come i miei coetanei a sudarmi delle brutte figure con le femmine. Probabilmente alcuni di quelli che stanno leggendo si riconosceranno in un trascorso simile.

Dal 1990 al 1993 durò la gestazione complessiva di The Somberlain, disco su cui oggi molti critici e appassionati di metal si sentirebbero di mettere le palle sul fuoco ma che bisogna rimarcarlo, fu l’opera di tre ragazzini. Lo incisero nel 1993, d’accordo, e Ole aveva vent’anni, ma gli altri due erano appena maggiorenni. E noi tristi figuri di quaranta e cinquant’anni siamo ancora qui a cercare di carpire ogni sfaccettatura cromatica di quell’abisso sborrato da tre seppioline in età post-puberale.

Dico questo ricordando ciò che in più occasioni ha ribadito il signor Geoff Tate, ex Queensryche, vale a dire che lui ormai è troppo grande, ha una vasta esperienza esistenziale e non riesce a sentire i lavori di ragazzi che potrebbero essere suoi figli. Cosa dovrebbero dirgli quei pivelli che lui non conosca già? Cosa avrebbero da insegnargli?

The Somberlain è la risposta, così come un’infinità di altri classici usciti in questi cinquant’anni di metal dalle dita e il cuore di pischelli foruncolosi. Un artista che si connette con le profondità di se stesso raggiunge il cuore del mistero e da lì le sue mani conducono a noi messaggi cangianti e in apparenza sempre uguali e fuori da ogni regime cronologico, come i raggi del sole o le gocce di pioggia.

Se un artista è genuino, il suo messaggio non sarà un vano chiacchiericcio di un adolescente, ma il canto di un demone infinito. Perdonatemi se vi sembro troppo lirico ma sono reduce dalla visione di un grande film di Alejandro Jodorowsky, Poesia senza fine. Vi consiglio di vederlo. Lì c’è un vecchio che mostra esattamente la stessa tesi: un artista vero e che sia ancora in grado di aprire il cuore al mondo, smette di avere un’età e manda al diavolo qualsiasi esperienza, anzi, le mette tutte in dubbio.

Non posso raccontarvi dei Dissection usando il tempo presente. Mi sentirei un po’ a disagio a farlo. Io e voi sappiamo che è una convenzione formale ma più che mai mi pesa. Hanno cessato di esistere e per una volta sento di sforzarmi di raccontarli e discuterne al passato. Eppure Jon e i suoi amici dell’MLO (se non sapete di cosa si tratti vi consiglio di cliccare qui) non sarebbero per nulla d’accordo. Per loro non c’è niente di più vivo di Nödtveidt, anche se ormai non ha più senso chiamarlo così. Chissà quali forme avrà preso e che genere di marachelle starà combinando intorno al culo dell’Altissimo…

Eh, lo so, sembra che io scherzi, ma lui non lo farebbe mai e una vocina mi dice che forse sarebbe meglio che nemmeno io lasciassi troppo andare le briglie del mio sghembo umorismo in questa occasione. Stiamo parlando di un uomo che ha scelto di trascendere ogni limite. Non si tratta di un musicista che finisce per adottare pose anticonformiste allo scopo di suggestionare l’uditorio. Qui è di un satanista vero che si parla, un tipo che ha usato la musica per contagiare il mondo di caos e distruzione.

Penserete a una sorta di terrorismo sonoro, ma bisogna credere alla magia se si vuole che abbia un effetto anche su di noi. E in questo mondo ormai non si crede più a nulla, se non a ciò che si clicca senza neanche perdere tempo a guardarlo bene, figurarsi a leggerlo.

E quindi cosa vediamo quando clicchiamo sulla foto di Jon Nödtveidt? Non un ragazzo dallo sguardo un po’ troppo intenso. Vediamo quello che crediamo di conoscere: un musicista di talento, un assassino e un suicida.

Il metallaro amante della musica che Jon Nödtveidt ha creato, possiede un senso morale un po’ insolito. Ama così tanto i dischi e le buone canzoni, da sospendere ogni giudizio intorno a chi le ha realizzate. Non tutti sono così, ma molti ascoltano i Dissection e non si lasciano condizionare dalle cose oscene compiute dal loro principale autore. Poi c’è il resto del mondo che vede solo uno psicopatico, un disadattato tossico e un folle che si è ammazzato. Di solito è gente che non capirebbe mai i Dissection, in ogni caso, quindi lasciamoli perdere.

Non sto dicendo che i metallari assolvano Jon. Ho scritto che molti di loro sospendono tutto e si godono la musica. Alcuni fantasticano di ascoltare qualcosa di più, perché un uomo così determinato a raggiungere il fondo dell’abiezione deve aver scorto paesaggi e inalato il lercio fiato degli inferi, quindi in quegli accordi e nei riff, credono di avvertire un gelo malato che gli infetta piacevolmente il cuore. Fantasie, ovviamente.

Nonostante Jon Nödtveidt abbia sempre votato la propria esistenza al caos e agli dei più oscuri e dimenticati, è con la musica che ha sentito fin dal primo istante di poter dire al mondo le cose speciali che sentiva di dover esprimere. E la musica ha conquistato un popolo di estranei, emarginati, incompresi e sognatori. Perché tutti loro hanno sentito in quei due primi album dei Dissection, qualcosa che li riguardava.

Gli arpeggi e le melodie aprivano squarci sferzando con le fruste di Maya lo “sguardo immaginifico di chi ascolta”. E nei sentieri ripidi ma insolitamente invoglianti, coperti di neve notturna tinta di blu scuro delle copertine, il pubblico ritrovava esattamente il paesaggio ideale tra le fiabe lontane e confortevoli dell’infanzia e le ripide e acuminate asperità della vita adolescenziale.

Certo, i Dissection sono un gruppo venuto fuori in un secondo tempo rispetto ai Mayhem e i Darkthrone, e sono da sempre stati associati più al black metal che al death, per quanto Dan Swano, produttore del loro esordio non ha alcun dubbio a riguardo: “The Somberlain è ancorato al cancello di un cimitero dalla prima all’ultima nota, è death metal enorme”.

Jon Nödtveidt è stato amico di Dead ed Euronymous, ma non ha mai preso le distanze dal death e non ha accolto con grande entusiasmo certi dogmi del black metal. I dischi dei Dissection sono registrati ottimamente e la band ha iniziato ad andare in tour prima possibile. Non si sono mai pitturati la faccia come i Marduk e non si sono mai considerati parte della scena, dichiarando in più occasioni quanto fosse piena di poser e nel pieno di un flusso mercantile verso le fogne del discount musicale.

I Dissection hanno sempre creduto nell’evoluzione e nel trovare una strada personale in ciò che facevano. Nel 1993-1995 andava molto di moda dire queste cose e nella maggior parte dei casi erano solo dichiarazioni ipocrite per giustificare i cambi di stile nel tentativo di cavalcare nuove onde commerciali, sperando in profondità di svoltare come i Metallica.

Ma in alcuni casi no.

Ci sono state band che hanno davvero cercato di distinguersi e di non ripetersi mai, fino a rimetterci la stima e l’interesse del pubblico. Jon Nödtveidt ha firmato un contratto con la Nuclear Blast quando non era “cool” farlo, generando sospetti e risentimento nei fan, ma allo stesso modo ha finito per mettere da parte il gruppo nel momento più delicato, quando era ora di fare il disco decisivo per le vendite.

Dopo Storm of the Light’s Bane la band diventò un faro dagli amanti del metal estremo, ma nel 1997 non si parlava ancora di un terzo disco e anzi, due terzi della formazione saltò via. Poi Jon commise l’omicidio, decisamente fuori moda rispetto ai tempi. L’avesse fatto nel 1993 poteva anche andar bene, ma nel 1997 cosa c’entrava più ammazzare un gay in un bosco?

Con la prigione i fan pensarono di dire addio ai Dissection ma non lo fece mai Jon. Dietro le sbarre continuò a comporre nella testa riff e melodie, ricantandole di continuo per non dimenticarsele. Appena riuscì a ottenere una chitarra acustica prese a sviluppare quelle idee, e una volta uscito di galera ci lavorò ancora con una nuova line-up al seguito. Di Ole e Peter non si parlò neanche. Loro erano ormai dei traditori. Non solo avevano aiutato le autorità a mandare Jon in galera ma durante i primi anni di reclusione furono così vigliacchi da tentare di rilanciarsi con un nuovo progetto: i Soulreaper, (clicca il box). Presero per nome una delle canzoni più rappresentative dei Dissection, scaricando su Jon un’infinità di colpe immaginarie e sostenendo, bugia delle bugie, di aver messo nell’esordio della loro band, i materiali che avrebbero dovuto far parte del successore di Storm…

Una balla incredibile, c’è da convenirne. Bastò sentire il primo album dei Soulreaper per rendersene conto. Sembrava una band sfigata della Florida incisa nel 1993 e uscita sette anni dopo per beghe distributive. Dei Dissection non c’era nulla.

Ma i fan non riuscirono a trovare traccia dei “veri” Dissection nemmeno nel terzo album dei Dissection ufficiali.

ReinKaos deluse praticamente tutti quanti. Jon passò i primi anni fuori di prigione a proclamare un ritorno possente e distruttore, un album definitivo capace di rovinare la vita a molti e liberare milioni di schiavi inconsapevoli. Poi la gente si ritrovò per le mani un album canterino, leggero, decisamente moscio e a tratti imbarazzante.

Sembrava uno scherzo. Che fine avevano fatto i Dissection di The Somberlain? Dove erano finite le melodie come gelo infettivo? Chi aveva tarpato le ali a Jon Nödtveidt ? Eppure lui prometteva un incantesimo nelle interviste. Aveva infilato nel disco decine di formule esplicite e subconsce in grado di aprire “una voragine di caos dentro gli ascoltatori”, convertirli a Satana, diffondendo terremoti e visioni inconciliabili con il passato.

E invece?

Beh, siamo passati dai dischi accusati di istigare la corruzione in modo subliminale, tra Led Zeppelin, Ozzy e Priest, a un album che voleva davvero corrompere in modo esplicito il pubblico, cantando litanie e invocazioni agli dei del tormento e della distruzione.

Nel libro di Antonello Cresti, Come To The Sabbath, (in cui si parla di rock ed esoterismo), citando Gavin Baddeley, l’autore fa notare una cosa importantissima che posso sintetizzare così: c’è più potenza oscura in un riff di Tony Iommi che nell’intera discografia di band votate da cima a fondo all’esoterismo. Spesso gruppi come i Coven riducono il loro assalto espressivo a un rock leggerino e innocuo, farcito di ghirlande occulte e simbologie pagane sulla copertina, magari un vinile all’odore di incenso e chissà quali pratiche in sala d’incisione, al fine di incanalare dalle registrazioni come tramite, chili e chili di magia che si riverseranno poi nell’uditorio ignaro. Ma l’ascoltatore stolto sbadiglia. Poi ascolta tre accordi di una band di cavernicoli di Birmingham e ha i brividi ad agosto e un senso di inquietudine che non lo molla per tutto il resto del giorno e della notte.

Reinkaos fallì perché suonato a un popolo di sordi. E non c’è più sordo di chi non sa cosa dovrebbe sentire. I metallari stessi acquistarono tutti il nuovo lavoro dei Dissection e il biglietto in prevendita per vederli dal vivo, ma appena si accorsero che la musica era cambiata in peggio (vale a dire non era vicina per stile, idee e ispirazione alle cose che amarono nei primi due album della band) si misero tutti a giudicare male Jon, come non era capitato nemmeno dopo l’omicidio e il carcere.

Puoi anche ammazzare un gay ma non rifilarmi un disco così di merda!

Nessuno però pensò a una commercializzazione fuori tempo. Chiaramente Nödtveidt se ne sbatteva e se ne è sempre sbattuto del successo. Aveva solo perso per strada la sua grande creatività, riducendo la fiamma ardente e famelica dei Dissection a un lumicino di cori e ritornelli ridicoli.

Ma poi ci fu il suicidio (ma poi non si scrive, lo so). Del tutto inatteso viste le promesse di nuovi inizi con la band e i proclama di una capillare e inarrestabile diffusione del verbo/morbo libera mentis. Certo, Jon non si era mai sbilanciato a parlare di un nuovo album dopo ReinKaos e spesso ha risposto con più passione a domande esistenziali che discografiche. Di sicuro però il pubblico non pensava che potesse finire lì. Reinkaos è una merda. Forse il suicidio era perché non aveva funzionato? E invece sembra che per Jon il disco fosse stato perfetto. Così come il momento tutto. Tanto che secondo la sua personale filosofia religiosa, quando va tutto così bene, è ora di chiudere. (Se volete approfondire la questione, qui trovate il box relativo)

Una volta morto, il pubblico tornò a Reinkaos, in modo automatico: si sa, la necrofilia invoca da subito il revisionismo. E invece c’era poco da fare, dissero i più, era comunque solo un disco del cazzo!

Eppure qualcuno riuscì a leggervi i chiari segnali del suicidio premeditato, come se l’atto estremo fosse parte del disco e gli restituisse il senso che era inevitabilmente sfuggito al pubblico. Le formule e le invocazioni non erano per degli eventuali interventi corruttori e distruttori degli antichi dei, ma suppliche di accogliere presto l’anima di Jon. Per pregare a sufficienza queste entità perpetue, Nödtveidt decide di farlo “usando” i propri fan. I ritornelli, incomprensibili ai non iniziati, erano così orecchiabili perché DOVEVANO indurre al canto le persone. Questo affinché le parole pronunciate da tante bocche insieme, rendessero più veemente e devota la preghiera di Jon a colui che doveva riceverla.

In questa prospettiva tutto acquisisce un altro senso, per quanto poi Jon Nödtveidt ha smesso da tempo di camminare nella nostra stessa dimensione. Ha ucciso pur di tagliarsi fuori dal mondo dei sottomessi e dei vinti. O almeno ha creduto che bastasse avere la meglio sul peggiore dei tabù per liberare se stesso dalle catene della società di cui non volle mai accettare gli illusori limiti.

Io non condivido le sue scelte. L’omicidio fu un errore, un incidente di passaggio in un periodo tossico, che Jon trasformò poi in un’esperienza arricchente, secondo le sue mire evolutive. Un artista plasma ogni aspetto, anche il più repellente della propria vita, in qualcosa di salvifico, grazie all’arte. Una retta via non è necessaria, come non lo è una vita dissoluta. Chi cerca di offendere la morale nella speranza di conoscere più a fondo la vita esperienziale e guadagnare una visione altra da condividere, è un povero illuso. Chi crea ha già una visione, solo che affronta le avversità dell’esistenza sapendo che ogni cosa, anche la più repellente, diviene creta nelle mani di un vero artista. Il problema è che molti non sanno se lo sono o no, artisti e la creta talvolta gli sembra solo cacca. Non lo sanno mai come stiano le cose. Anche Shakespeare e Dante non lo sapevano per certo se avessero talento o no e se le loro visioni fossero fiche o cagate. L’arte è comunque un atto di fede tra i più disperati. Una preghiera, in un certo senso, al piccolo dio che l’artista spera alberghi dentro se stesso.

Uccidere quel povero disgraziato fu l’apice di un periodo confuso, tossico. In galera Jon capì di aver sbagliato ma ha accettò la nuova situazione sapendo che qualsiasi evento poteva condurlo altrove, irrobustirlo e dargli la forza di spezzare le catene che lo tenevano ancorato al suolo. Disse sempre di non essere pentito del suo gesto, ma secondo me lo fraintendemmo tutti quanti. Non parlava la lingua dei suoi simili. E non aveva interesse a farsi capire sul serio.

Del disprezzo di chi non sa, poteva solo pulirsi il culo. Ciò che lui intendeva era di non pentirsi di nessun errore e accettare la vita così com’era, andando avanti senza fermarsi mai. Non era convinto che fosse giusto ammazzare un uomo per i suoi gusti sessuali. Non aveva mai difeso i gesti di Burzum o di Faust. Lui era oltre. E con un sorriso si tolse la vita. Pazzo, come è giusto che sia chi davvero vuole salpare da questa dimensione e raggiungere la propria.