Si racconta che, secoli fa, i cioccolatini che venivano venduti alle classi sociali più basse (i poveri con le pezze al culo), avessero le confezioni più belle. Questo perché, finiti alla svelta, avrebbero conservato la scatola e i fiocchi, dalle belle fatture, per sempre, magari unico balocco prezioso in una casa miserabile. I ricchi invece, avendo a disposizione quello che volevano, ci badavano poco, e pensavano di più alla qualità del cioccolato e al modo più edonistico e rilassato di gustarsi quella prelibatezza. Della scatola, se ne facevano salvo rarissimi casi, poco o nulla. Questa metafora per ricondurci rapidamente ad una tendenza attuale, in atto da qualche anno nel mondo metal. Si badi bene, non daremo giudizi, ma soltanto cercheremo di fare analisi il più oggettive possibili. Chi è avvezzo (in percentuale ormai calante) all’acquisto di oggetti fisici come cd, cassette e vinili, sa perfettamente che le case discografiche oggi, per accattivarsi i pochi affezionati, sfornano sempre meno edizioni standard dei dischi, puntando molto su box, scatole e scatoline con gadget inclusi, poster, adesivi, doppi e tripli dischi colorati, spille, cartoline autografate, libretti vari e mille altri gingilli.
Alla fine, di tutto questo “ben di dio”, che costa delle belle cifre, la cosa che passa in secondo piano, troppo spesso è proprio la musica contenuta. Seppellita da digipack, copertine olografiche, formati multipli con mille tasche e booklet, la canzone è un accessorio e non la protagonista.
Non a caso spopolano su Youtube e sui social i famosi “unboxing”. Fenomeno un tempo relegato a cellulari, cazzate di Aliexpress e consolle varie di videogame, che da un po’ stanno colonizzando i social del mondo metal. Anche le case discografiche si sono buttate a capofitto in questo format.
Una volta c’erano i flyer, il quarto di pagina sulle riviste, oggi c’è l’unboxing video, fatto su Facebook e su Instagram, dove di solito il braccio tatuato del boss di turno della label “spacchetta” lo scatolone in cui c’è di tutto e di più, ANCHE il disco.
Non parliamo poi dei metallari che esaltati dall’ultimo acquisto, si filmano, pure loro fieri, nell’atto di aprire il box limitato a 45 copie in marmo di Carrara con la teiera in argento con il logo dei Metallica in oro zecchino, un phon e una zanzariera anch’esse col logo.
Alla fine, quasi con vergogna e defilato, ecco apparire il cd, o il vinile, che viene liquidato in poche battute: “ed infine ecco Ciaparatt dei Batcchio Crusher, disco appena uscito”. La scatola, il fiocco, la forma, l’ebbrezza di mettere un altro oggetto in libreria, questa è l’emozione del metallaro di oggi. Vantarsi di avere una delle poche copie, esaltarsi all’arrivo del pacco, orgasmo mentale che dura pochi giorni, poi come un tossico, ci vuole una nuova dose. Poi altre ancora, in un loop eterno.
Ma vi ricordate quando la sostanza contava più della forma ? Sì, tra la metà degli anni 90 fino al 2000 e poco oltre, era uso di molti avere in casa tonnellate di cd masterizzati, che al netto di un foglio con i titoli, la formazione e poco più, contenevano il vero “cioccolato”, ovvero le canzoni. Bastavano quelle, bastava avere il lotto di pezzi, magari avere qualche cd originale, (salvo i collezionisti accaniti che si svenavano), delle poche band a cui tenevano davvero.
Di sicuro molte cose sono cambiate da allora. Quel pubblico è “cresciuto” e gli è rimasto nel gozzo un groppo di malinconia che non va né su né giù. Non ci sono più i gruppi grandiosi, i dischi nuovi fanno pena, il metal è morto, le mezze stagioni sfrigolano sulla padella del riscaldamento globale e la panza e i capelli sono sempre di meno, così come le possibilità di scopare gratis… ma per fortuna ci sono questi meravigliosi giocattoli nerd. Le Action Figure dei Metallica, il cappello uguale a quello che indossava Lemmy nelle ultime foto. I jeans come i Motley Crue degli anni 80. L’ultima serie di toppe della Black Label Society da far cucire alla mamma sul giacchetto di pelle, comprato finto vintage da un negozio di motociclisti di Los Angeles che si trova a Rovigo.
Abbiamo bisogno di qualcosa che ci restituisca l’ebbrezza consumistica dei bei tempi andati, quando entravamo al negozio di dischi con la paghetta e ci buttavamo nell’acquisto del nuovo album dei Megadeth. Forse la musica è l’ultima delle questioni che ci interessano davvero ormai, perché, antica o nuova che sia, ci fa sentire quanto siamo diventati vecchi, quanto il metal sia vecchio e destinato ad appesantirsi e raggrinzirsi sempre di più.
Del resto non è un caso se non sono più i capelli lunghi a dettare la tendenza ma le barbe. I cinquantenni possono sperare di farsi crescere più quella zona capillare rispetto allo scalpo che hanno in testa, ormai lustro e desolato quanto lo stage del Metal Porchetta Festival di Mansiana.
E non è un caso se i discorsi del pubblico metallaro vertono più sulle condizioni fisiche di Ozzy e la chemio di Dave Mustaine, l’operazione di Biford e la morte dell’ennesimo musicista degli anni 80, anziché sull’uscita del nuovo album dei Mastodon o sul nuovo tour dei Pallbearer. I giovani gruppi sono così disperati che hanno finito per mascherarsi da Exodus e Led Zeppelin nella speranza che il pubblico tardone del rock duro caschi nell’illusione e li segua. Ma non c’è nulla di più avvilente che vedere un ragazzino vestirsi come un vecchio caprone e fare il reazionario invece di sovvertire le regole e sfanculare i tromboni delle generazioni precedenti.
Ma cosa vogliamo dai pischelli? Sono una tale minoranza. Il metal oggi è roba da zii scapoli rincoglioniti che non vedono l’ora di bruciare la paghetta mensile del reddito di cittadinanza, sull’ennesimo cofanetto a tiratura limitata di Killing Is My Business, filmarsi col cellulare e caricarsi su youtube mentre mostrano, ok, il cd e poi però guardate, amici metallici: una siringa usata da Dave Mustaine nel 1985, un poster inedito dei Megadeth nella formazione con Kerry King e se non basta, bam, la pistola vera con il teschio di Rattlehead sul manico e i proiettili veri per spararsi un colpo in testa se piglia male male all’idea di dover vivere, per ragioni anagrafiche, in un mondo senza Tommy Iommi.